L’iniziativa della Commissione europea del Circular Economy Act – la proposta legislativa che vorrebbe promuovere l’economia circolare a livello europeo – è un punto di svolta per avere finalmente un’economia pulita, competitiva e sostenibile. A patto, però, che l’Unione Europea crei un’impalcatura legislativa veramente solida e di ampio respiro, che sostenga davvero i mercati delle materie prime seconde e renda efficiente la gestione dei rifiuti. È la premessa che ecopreneur.eu (European Sustainable Business Federation) e BVMW, associazione tedesca che rappresenta le piccole e medie imprese hanno fatto nel webinar da loro organizzato sul tema, a cui ha partecipato EconomiaCircolare.com.
A discutere, in una sala della Commissione europea a Bruxelles, accanto agli organizzatori, gli eurodeputati Anna Cavazzini dei Verdi e Gerben-Jan Gerbrandy di Renew Europe e rappresentanti di varie aziende europee, che hanno esposto alle istituzioni UE una serie di considerazioni sul Circular Economy Act. Riassumendo al massimo: l’iniziativa legislativa dovrebbe garantire pari condizioni per i modelli circolari (riuso, riparazione, remanufacturing, riciclo), includere i costi ambientali nelle politiche, promuovere ecodesign e autosufficienza nel mercato delle materie prime seconde. Serve trasparenza tramite i passaporti digitali di prodotto, criteri obbligatori negli appalti, eco-modulazione nella responsabilità estesa del produttore e investimenti in hub regionali per le pmi.
L’UE: “Il mercato delle materie prime seconde non funziona. Il Circular Economy Act serve a questo”
Il Circular Economy Act, nei piani della Commissione, è lo strumento con cui l’Unione Europea vuole risolvere i problemi ancora presenti nel mercato comune delle materie prime seconde, come ha spiegato Florian Flachenecker, della Direzione generale Ambiente della Commissione Ue. “Il Circular Economy Act sarà il nostro contributo principale. Il quadro legislativo è solido, ma i progressi sono insufficienti. Il tasso di utilizzo circolare dei materiali è fermo attorno al 12% da dieci anni. Le economie di scala non si realizzano. La situazione non cambia perché i materiali secondari spesso costano più dei materiali vergini. Significa che l’economia non funziona bene”.
Il funzionario Ue ha poi ricordato quali sono i tre pilastri su cui si fonda il Circular Economy Act: prima di tutto Raee e recupero di materiali critici. “Puntiamo a migliorare la raccolta e il recupero di materiali critici da rifiuti elettronici: tutti quegli smartphone nei cassetti sono un problema”, ha dichiarato. Dopodiché servono misure più “di sistema”, come affrontare la frammentazione dei criteri su end of waste, sottoprodotti, responsabilità estesa dei produttori, e cercare di estendere i modelli EPR a nuovi flussi di materiali. Infine, le misure fiscali e le leve economiche. “Stiamo studiando con la Direzione generale della Fiscalità e dell’Unione doganale una possibile esenzione dell’IVA per beni riciclati. È un modo per riequilibrare i costi”.
Tuttavia, “sebbene la circolarità sia considerata una priorità dal Clean Industrial Deal della Commissione, l’UE – ricorda ecopreneur.eu nel position paper diffuso sul Circular Economy Act – ha compiuto scarsi progressi nella crescita dell’economia circolare, con un deficit di investimenti di 27 miliardi di euro. Tra il 2015 e il 2025, il tasso di utilizzo di materiali circolari è aumentato solo dello 0,4%, dall’11,6% al 12%, mentre l’obiettivo del Clean Industrial Deal è di raggiungere il 24% entro il 2030. Gli investimenti sono ostacolati dall’assenza di un mercato unico per le materie prime seconde, dal basso prezzo delle materie prime fossili e dalle importazioni a basso costo nell’UE, per citare solo alcune delle questioni urgenti”, prosegue il documento.
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Il Circular Economy Act deve sostenere chi lavora
Sono dati disarmanti, ha commentato Gerben-Jan Gerbrandy: “Solo il 30% delle risorse che usiamo provengono dal nostro continente. Il resto è importato. Riutilizzare vuol dire importare meno. E non solo: vuol dire ridurre il peso sull’ambiente, risparmiare energia e creare resilienza”. Il problema è che a livello normativo ci sono ancora troppi ostacoli alla riparazione, e questo è un fatto da tenere in particolare considerazione in sede di Circular Economy Act, come è emerso da più voci nel corso del webinar.
“Le norme attuali sono fatte per i prodotti nuovi”, ha denunciato Paul Blumberger, di Refurbed, piattaforma austriaca di prodotti ricondizionati. “Questo crea incertezza, barriere e scoraggia l’investimento. Ai ricondizionatori viene chiesto di rispondere a obblighi che non possiamo adempiere. Così la circolarità è solo sulla carta”. E anche quando pensa all’economia circolare, l’approccio delle istituzioni è sbagliato: “Il problema è che le politiche europee si focalizzano troppo sul riciclo. Ma quando si ricicla troppo presto, si perde valore. Dobbiamo invertire la gerarchia e mettere riuso e ricondizionamento al centro”, ha aggiunto. Un appello condiviso da Frank Bouma, di Fair Furniture Group: “Il nostro modello si basa sul ricondizionamento dei mobili. Possiamo ridurre fino al 90% l’impatto ambientale, ma il lavoro costa troppo. In Olanda, il gap di prezzo con i mobili nuovi è enorme”.
Per tutelare tutti questi attori ecopreneur.eu chiede perciò alle istituzioni europee un “playing field”, ovvero misure per garantire parità di opportunità sul mercato. “Le aziende che investono in prodotti, servizi e soluzioni circolari per il fine vita – si legge nel position paper – meritano parità di condizioni per competere, beneficiare di vantaggi economici e crescere. A tal fine, il CEA dovrebbe creare condizioni di parità che promuovano esplicitamente la circolarità lungo l’intero ciclo di vita del prodotto, inclusi riutilizzo, condivisione, riparazione, ricondizionamento e rigenerazione, insieme al riciclaggio di alta qualità come soluzione per il fine vita”.
Per creare questo “playing field” ecopreneur.eu precisa che l’importazione di materia prima seconda da nazioni terze deve essere soggetta alle normative del mercato comunitario, inclusi gli standard del processo di riciclo. Sempre a supporto dei riparatori sarebbe necessario “introdurre un punteggio di riparabilità dei prodotti a livello UE, assicurandosi che comprenda tutti gli aspetti della riparabilità, inclusi il prezzo dei pezzi di ricambio e l’accesso ai servizi di riparazione e ai manuali”.
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Non va meglio per chi ricicla
Il mercato è sfavorevole anche per chi si occupa di riciclo, nonostante le normative europee negli ultimi anni abbiano prestato maggiore attenzione a questo aspetto. I toni utilizzati da Hannes Offenbächer, fondatore della piattaforma Surplus per plastiche tracciabili, non sono stati per nulla rassicuranti: “I riciclatori meccanici stanno fallendo ogni settimana. Non per mancanza di infrastrutture, ma perché la domanda è troppo bassa. E i materiali vergini sono troppo economici. È il mercato che sta crollando, prima ancora che i target diventino obbligatori”. E ha lanciato un allarme: “Se aspettiamo il 2030 sarà troppo tardi”.
Dal settore tessile, Martel Ferenza, di Boer Group, ha lanciato un altro allarme: “Raccogliamo milioni di chili di abiti. Ma la qualità è in calo, il riuso crolla, e i flussi di fast fashion ci stanno sommergendo. È una crisi. Il sistema non è sostenibile”. La richiesta è stata netta: “Serve un target obbligatorio del 15% di contenuto riciclato post-consumo nei nuovi capi, e una data obiettivo per la realizzazione delle infrastrutture di selezione e riciclo. Altrimenti, nel 2030 ci accorgeremo che il materiale riciclato non esiste, perché i riciclatori saranno falliti prima”.
Monika Harting, di Remondis, azienda tedesca specializzata nella gestione dei rifiuti, ha fatto notare un’altra problematica che mette in difficoltà il mercato delle materie prime seconde nell’Unione Europea: “La Direttiva SUP e il PPWR hanno introdotto obblighi di contenuto minimo riciclato, ma nel frattempo il mercato è invaso da contenuto riciclato importato a basso costo, di cui spesso non conosciamo né la provenienza né la qualità. Dobbiamo chiederci: sta distruggendo i nostri modelli di business?”.
Una situazione che potrebbe mettere a rischio mercati che già funzionano, come quello delle lattine in alluminio, come ha ricordato Ramon Arratia, di Ball Corporation: “Nel nostro settore il mercato secondario funziona e abbiamo tassi di raccolta al 90% e contenuto riciclato al 70%. Ma adesso l’industria asiatica sta comprando l’alluminio europeo a basso costo. Solo nel primo trimestre del 2024 sono stati esportate 700.000 tonnellate. Così si svuota la filiera circolare”.
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Le aziende sperimentano nuovi modelli circolari ma temono la burocrazia
Quello che emerge dal dialogo con le aziende è la richiesta di introdurre misure e strumenti normativi all’interno del Circular Economy Act che siano facili da implementare, al fine di evitare un sovraccarico amministrativo e il rischio di una riduzione della competitività. “Efficienza e sufficienza – scrive ecopreneur.eu nel position paper – sono due facce della stessa medaglia. Per questo motivo le leggi previste dal CEA dovrebbero supportare pratiche innovative di gestione delle risorse che riducano l’uso di materie prime primarie, come il riutilizzo, la condivisione, il ricondizionamento, la rigenerazione, la progettazione circolare e il riciclaggio di alta qualità”.
Sabine Fouquet, di VELUX, azienda di finestre per tetti, ha offerto una testimonianza concreta su come anche le grandi aziende stiano provando a sviluppare modelli circolari, ma si scontrino con limiti normativi e pratici: “Non siamo un’azienda specializzata nel riciclo, ma stiamo sperimentando modelli circolari: raccolta di vecchie finestre, smontaggio, riciclo del vetro piano, e persino la possibilità di ricondizionarle. Tecnicamente funziona. Ma poi arriva la burocrazia”, ha detto, descrivendo le difficoltà incontrate: “Trasportare i rifiuti oltre confine è complicatissimo, e certificare le prestazioni dei prodotti ricondizionati è una sfida impossibile. Dobbiamo testare ogni finestra una per una? Ci serve più flessibilità, spazi di sperimentazione, misure più granulari”.
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