mercoledì, Novembre 5, 2025

Le cooperative possono cambiare il mondo con la prossimità? Intervista a Giuseppe Guerini

L’Onu ha definito il 2025 l’anno delle cooperative, dando attenzione a un mondo che rifugge la rincorsa al profitto e che però stenta a diventare un attore influente. Per comprendere le potenzialità e le contraddizioni delle cooperative abbiamo intervistato Giuseppe Guerini, presidente di Cooperatives Europe

Emanuele Profumi
Emanuele Profumi
Emanuele Profumi, è dottore di ricerca in filosofia politica e giornalista free lance. Collabora con diverse università italiane ed europee. Ha scritto e pubblicato per riviste italiane (es: Micromega, Left, La Nuova Ecologia) e straniere (es: Le Monde Diplomatique) ed è stato anche corrispondente estero per alcuni giornali e riviste italiani (Londra, Parigi, Atene, Messico). In Italia ha già pubblicato una trilogia di reportage narrativi (le "Inchieste politiche") sul tema del cambiamento sociale e politico: sul Cile (Prospero, 2020), sulla Colombia (Exorma, 2016) e sul Brasile (Aracne, 2012). È professore di "Storia della pace in Epoca Contemporanea" presso l'Università di Pisa e "Scienza della politica" presso l'Università della Tuscia (Viterbo), e scrive e pubblica saggi filosofici. L'ultimo libro di filosofia è una curatela realizzata insieme all'importante filosofo italiano Alfonso Maurizio Iacono (Ripensare la politica. Immagini del possibile e dell'alterità. Ets 2019).

Con il 2025, “anno mondiale delle cooperative” sancito dall’Onu, il movimento cooperativo internazionale si è lanciato in un profondo processo di riflessione sul suo ruolo e sulla sua missione. Siamo in presenza di un processo di riflessione internazionale sul mondo cooperativo. Ci si sta chiedendo se il mondo cooperativo è un attore di trasformazione, e quale, dato che rivendica esplicitamente di voler costruire un mondo migliore. 

Sulla scia di questa riflessione generale abbiamo rivolto domande puntuali che ci aiutino a dare una risposta più completa e articolata sullo stato e sulla qualità della trasformazione portata avanti dal movimento cooperativo a Giuseppe Guerini, presidente di Cooperatives Europe (Organizzazione di rappresentanza delle cooperative – regione europea dell’Alleanza Internazionale delle cooperative).

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La domanda nasce spontanea: il mondo cooperativo sta effettivamente costruendo un modello alternativo economico e sociale rispetto al sistema dominato da un’economia tossica dal punto ecologico e umano?

Dal livello globale al livello nazionale, passando per il livello europeo, il movimento cooperativo ha sposato l’Agenda 2030 dell’Onu. Almeno dal punto di vista culturale e ideale. Sino ad oggi possiamo dire senza problemi che si conferma in questa direzione, anche se il clima politico-culturale è cambiato, purtroppo. L’aria che tira a Bruxelles negli ambienti politici va, infatti, in un’altra direzione. Anche se non tutti arrivano a livello di negazionismo di Trump (sul cambiamento climatico, la scienza, i vaccini). 

Ma questo clima è molto forte ed evidente tra le lobby dei sistemi economici e delle imprese tradizionali che sembrano presi da un sentimento di “ripentimento” rispetto ai temi della sostenibilità. Al contrario, noi del movimento cooperativo perseguiamo ancora l’Agenda 2030 e sosteniamo che bisogna costruire un diverso modello di sviluppo. Poi, ovviamente, non è tutto lineare e compatto. Anche perché il mimetismo e il mercato spingono sempre in direzione del profitto.

ALTERNATIVA ECOLOGICA?

Presidente, secondo economiacircolare.com esiste un problema di prima grandezza nel ciclo illimitato e infernale di produzione e consumo, che genera, non a caso, anche la produzione di beni materiali completamente superflui e del tutto assurdi (a cui abbiamo anche dedicando uno spazio specifico nel Magazine), come dovrebbe essere davanti agli occhi di tutti. Ma si producono anche prodotti del tutto nocivi o distruttivi, basti pensare al florido mercato delle armi, che popolano la nostra economia e la nostra vita quotidiana. Per noi tutto questo segue la logica della crescita esponenziale dell’economia del consumo. A causa di questa logica abbiamo subito l’invasione della plastica in tutti gli ecosistemi della terra, riscontrata addirittura anche nel nostro corpo. Il sistema cooperativo, in questo senso, ha o non ha un progetto chiaro e condiviso tra i suoi attori che permetta di fare una distinzione consapevole tra la crescita di alcuni settori economici (i servizi sociali, la cura alla persona, l’accoglienza ai migranti, l’educazione e la ricerca, etc) e la decrescita di altri settori (l’industria bellica, gran parte del settore finanziario, l’industria inquinante, etc)? Il sistema cooperativo, nel suo complesso, si è dato questo obiettivo? E, nel caso, come lo starebbe perseguendo?

Per rispondere alla sua domanda, le racconto innanzitutto un aneddoto: qualche volta mi capita di andare tra le montagne bergamasche, nella zona in cui sono nato, e d’incontrare dei trattori agricoli colossali, che hanno un’enorme potenza, che in quelle zone di terre scoscese e di piccole estensioni coltivabili, sono del tutto sovradimensionati per potenza e ingombro, sembrano fuori luogo come navi da crociera nel canale della Giudecca a Venezia. Questi sono emblematici di un modello di sviluppo sostenuto dal sistema economico capitalista, e anche dalla stessa UE che a volte scambia il sostegno all’agricoltura con il mero incentivo al consumo della produzione industriale. Erogare incentivi per sostituire i trattori agricoli con un frequenza superiore ai tempi di usura non aiuta l’agricoltura ma il mercato. Ma possiamo ritrovare esempi simili in molti altri settori del sistema produttivo europeo. 

Quindi il sistema cooperativo nel suo insieme non può dirsi immune da queste dinamiche, come se fossimo puri, perché anche noi lo abbiamo sposato o quanto meno ci conviviamo in un mercato che è sempre più complesso e pieno di interdipendenze. In merito a questo mi piace ricordare sempre una frase di Italo Calvino, quando si chiede come si fa a sopravvivere all’inferno in un mondo così complesso, e si risponde che bisogna cercare di trovare e far crescere nell’inferno quello che non lo è. Non sono così idealista nell’affermare che sicuramente stiamo costruendo un mondo migliore o che riusciremo a farlo, ma certamente il modello economico cooperativo ha una forte propensione alla promozione della sostenibilità. Ma certo non sempre le intenzioni si realizzano. Basti ricordare quello che si diceva durante la oandemia: “ne usciremo migliori”. Ahimè, è avvenuto, invece, il contrario: ne siamo usciti peggiori. Ma molto peggio di prima. 

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Penso ad alcune idealità che avevamo in quella stagione, dall’autunno 2019 ai primi mesi del 2020, che hanno visto crescere un idea di Unione Europea diversa, che ha dato vita al Green Deal europeo, al pilastro europeo dei diritti sociali e poi a Next Genration EU proprio come risposta alla crisi pandemica. Oggi invece c’è un clima regressivo, davvero preoccupante. Penso che abbiamo fallito in parte anche noi, perché evidentemente il nostro messaggio non riesce a passare. È vero pure che abbiamo armi impari. Tuttavia ci sono tante cose che si riescono a fare in altre direzioni: la promozione delle cooperative di comunità o di turismo sostenibile. Su questo direi che ci sono tante belle esperienze che ricercano, promuovono e realizzano un modello di sviluppo sostenibile e inclusivo, partendo dalle comunità locali. Come anche nel mondo della cultura dove, per esempio, gran parte della produzione teatrale indipendente e dell’infrastruttura del sistema dello spettacolo in Italia è fatta da cooperative. Questo è un movimento molto diffuso, ma poco sostenuto, perché anche nel settore della cultura c’è una disuguaglianza profonda: ci sono le superstar, come il teatro “La Scala” di Milano e in generale i grandi teatri blasonati e generosamente finanziati, anche se in molti casi si rivolgono ad una nicchia di pubblico importante sul piano della cultura alta, mentre poi si trascura chi cerca di diffondere la cultura a livello più popolare e nelle aree periferiche. Ma se si desertificano i territori perché non c’è sostegno alla cultura diffusa non va bene e aumentano le diseguaglianze nell’accesso all’offerta culturale. C’è però un talento particolare delle cooperative che è quello che ci può dare una chiave di svolta e che può aprire delle possibilità per costruire un mondo migliore. Sto parlando della prossimità. Forse il mondo nel suo scenario globale non lo cambiamo più di tanto, però con la prossimità possiamo fare ancora molto. Quindi dobbiamo investire su questo.

Quello che posso dedurre dalla sua risposta è che un progetto chiaro e condiviso rispetto alla distinzione tra settori economici e sociali che vanno ulteriormente alimentati e quelli che, invece, devono ridursi necessariamente e drasticamente, non c’è. Non c’è un progetto condiviso in questo senso. L’Agenda 2030, per quanto importante, infatti, non fa questo. Quali sono le possibili resistenze affinché questo si possa dare all’interno del movimento cooperativo?

“(sorride e si ferma a pensare, ndr) Eh, avere una risposta a questa domanda sarebbe risolutivo. Sono in una fase della mia vita un po’ pessimista. Credo che stiamo di fronte ad una trasformazione antropologica, o meglio in una fase della nostra storia in cui stiamo rischiando una regressione della civiltà. Mi sembra che sia emersa una specie di “antropologica” basata sull’egoismo che ci sta condizionando moltissimo. Da un certo punto di vista, forse, l’ubriacatura consumistica scatena dei comportamenti di dipendenza. Il classico atteggiamento del tossicodipendente rispetto alla sostanza, che noi criminalizziamo e marginalizziamo. Nella civiltà consumista globalizzata, siamo caduti tutti nella trappola dell’addizione, abbiamo assunto dei comportamenti di dipendenza dal consumo. 

L’utilizzo degli strumenti digitali, come il cellulare, sono diventati ormai imprescindibili, basti pensare a quanti miliardi di dispositivi sono presenti nel mondo. Più in generale è il consumo che è diventato un veicolo di dipendenza. È vero che ci sono delle persone che si oppongono a questo e scelgono il consumo alternativo, le banca etiche, il biologico, l’astensione dalle carni, sono comportamenti di resistenza importanti, ma spesso marginali o di nicchia, perché l’umanità è travolta da questo fiume

Quindi anche il mondo cooperativo…

Essendo composto da persone…va però ricordato un elemento positivo del mondo cooperativo: esso è uno dei movimenti che mantiene aperta l’attitudine al confronto e al dialogo. Quello che hanno di diverso i cooperatori, rispetto agli altri imprenditori o consumatori, è l’atteggiamento alla presa di decisione condivisa o alla discussione. Questo è un elemento molto importante che ci può aiutare e ci può “salvare”. Perché consente di avere, nel contesto appena ricordato, degli spazi di dialogo. Per questo, da parte mia, sto facendo una serie di riflessioni sull’approccio che dobbiamo avere, come movimento cooperativo, nei confronti delle nuove tecnologie e dell’IA. Lo scorso 7 ottobre a Roma abbiamo fatto un incontro seminariale e di formazione interna a Confcooperative, dedicato in particolare all’IA. 

Altri eventi si stanno tenendo in diversi Paesi, io sarò di nuovo a Istanbul a novembre per una conferenza internazionale dedicata al rapporto tra intelligenze artificiali e cooperative. Se noi riuscissimo a definire e combinare le potenzialità di questi dispositivi tecnologici con la propensione al dialogo e alla comunicazione, e non li trasformassimo in una struttura che “ci sostituisce”, ma in un’infrastruttura che potenzi le nostre possibilità, allora la prossimità, il lavoro nelle comunità locali, così come le prossimità globali possono essere sviluppate creando una cornice identitaria certa e positiva. Ecco perché l’identità cooperativa è importante. Lo sforzo che stiamo facendo, per riflettere sull’identità cooperativa da rinnovare e rilanciare, potrebbe essere interessante anche nell’ottica del nostro dialogo interno al movimento cooperativo internazionale. 

In un tempo in cui i governi si stanno allontanando dal multilateralismo, dove l’Onu è sbeffeggiata e sono fortemente indeboliti i sistemi di relazione, o dove gli unici sistemi di relazione prevalente sono i mercati (gli interessi di scambio sul consumo), ricordo che l’ICA (l’Alleanza internazionale delle cooperative) è l’unica organizzazione che da 130 anni mantiene questo livello di comunicazione costante tra i diversi movimenti cooperativi. Non ci sono altri organismi di rappresentanza di portatori d’interesse con la stessa longevità di presenza internazionale. Esistono organizzazioni internazionali di rappresentanza d’impresa come “Business Europe” o SMI-United ma hanno una storia più recente. Esistono poi le istituzioni come WTO (Organizzazione mondiale del commercio) e l’ILO (Organizzazione internazionale del lavoro) che svolgono funzioni importanti per la rappresentanza dei sistemi economici, il commercio e per il lavoro. Ma possiamo dire con un certo orgoglio che l’ICA ha una capacità di integrare cooperative di settori diversi, Paesi e culture diverse, anche a volte interessi contrastanti, ma che si sono tenuti insieme per tutto questo tempo grazie al dialogo. Questa cosa è preziosa e va alimentata. Quando ci incontriamo, almeno tra i soci delle cooperative, nelle nostre assemblee, ci riconosciamo. Penso che questo vada coltivato e conservato. Siamo una piccola forza di diplomazia internazionale che resiste.

Qual è il peso che la cultura dell’economia circolare ha nel mondo cooperativo?

Questo è uno dei temi che ho visto crescere molto. C’è una spiccata attenzione e un buon sviluppo di questa cultura. In questo sì il modello cooperativo si distingue chiaramente dagli altri, perché avendo una constituency allargata, tra portatori di interessi diversi, e non essendo stressati dalla massimizzazione del profitto, e dato che il profitto che fai non lo puoi dividere, sei più facilitato e portato a fare più investimenti. Perciò vedo che progetti anche molto avanzati dal punto di vista tecnologico di circolarità economica si sviluppano spesso nelle cooperative. Una delle più grandi cantine sociali italiane che si trova in Emilia Romagna, per esempio, è ormai totalmente autosufficiente dal punto di vista energetico che si basa interamente sull’economia circolare. 

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Al di là del classico pannello solare sugli impianti, ha sviluppato un sistema di recupero degli scarti della produzione del vino, per produrre energia. Di esperienze di questo tipo ne vedo davvero tante. Va anche rilevato che sono state molte cooperative italiane a occuparsi per prime del riciclo e del riuso di materiali di scarto e di rifiuti. Non a caso, esiste una presenza importante di cooperative di questo tipo e, in molti casi, sono cooperative sociali. Che lavorano nel settore del riuso, ma anche del recupero di materie seconde. Insomma, direi che sul piano dell’economia circolare “il dichiarato” e “l’agito” si sovrappongono maggiormente che rispetto ad altri ambiti dell’orizzonte di trasformazione.

ALTERNATIVA LAVORATIVA?

Il mondo cooperativo potrebbe fare un patto che sancisca un modello di lavoro altro da quello che va per la maggiore? Mi riferisco a qualcosa di realmente condiviso tra le cooperative. Come se si affermassero dei criteri specifici da rispettare per tutte le cooperative che vogliono entrare in rete o nelle vostre associazioni nazionali e internazionali. In altre parole, secondo lei sarebbe possibile un patto comune del mondo cooperativo su alcuni punti fondamentali che sancisca che l’attore cooperativo è un attore politico nel senso ampio del termine (e quindi non partitico)? Un patto, per esempio, in cui sancire che i luoghi di lavoro debbano essere degli spazi di benessere sociale, e non semplicemente luoghi per generare reddito, come accade troppo spesso al di fuori degli ambiti cooperativi. Oppure dove si sancisca che i luoghi di lavoro debbano essere dei luoghi non gerarchici, in cui sposare una logica partecipativa dove le decisioni vengono prese insieme, come insegna proprio il mondo cooperativo. Oppure, ancora, dove si condivida un patto sul lavoro, fatto di diritti avanzati, buone condizioni di lavoro, rispetto della vita extralavorativa (anche oltre il riconoscimento della maternità o della paternità), e rispetto dei processi di autogestione interna.

In generale è auspicabile, così com’è auspicabile che tutte le cooperative dei vari settori che si ispirano a un modello democratico, facciano diventare la democrazia un metodo che valga ovunque. Ma questo non è così automatico, né scontato. Tuttavia nella documentazione ufficiale di tutte le organizzazioni delle cooperative in tutti i settori questo principio è riconosciuto. Ma se consideriamo una grande cooperativa di consumo, che ha i consumatori soci come portatori di interesse, e il consumo a prezzi vantaggiosi come oggetto dello scambio mutualistico, teoricamente potrebbe “disinteressarsi” della qualità del contratto di lavoro dei dipendenti o del prezzo imposto al produttore. In genere vediamo che la cultura democratica e quella della partecipazione sono applicate anche al di là della stretta sfera della mutualità interna, ma potrebbe anche avvenire il contrario. Cioè che l’interesse del socio prevalga su quello del lavoratore. Ci sono quindi due livelli in cui misurare la democrazia. Quello interno o micro e quello più ampio relativo alla effettiva capacità di estendere il principio mutualistico anche alle “esternalità” positive. In questo senso l’articolo 45 della Costituzione che riconosce e assegna alle cooperative una funzione sociale che va al di là dello scambio mutualistico, evidenzia proprio questa potenzialità del modello cooperativo.

Nelle cooperative di lavoro questa dimensione diventa il cuore stesso del principio di partecipazione e di democrazia poiché è il lavoro l’oggetto dello scambio mutualistico. Qui la sfida è molto più intrigante e complessa, poiché si tratta di conciliare efficienza e inclusione, capacità di decisione orientata alla produttività e partecipazione alle scelte. A livello globale c’è una ampia elaborazione che stiamo facendo sulle cooperative di lavoro, sia in CECOP (Confederazione Europea delle cooperative di lavoro, ndr) sia in CICOPA (Associazione internazionale delle cooperative di lavoro, il settore di ICA che aggrega queste cooperative). È in questo settore che esiste la riflessione più articolata sulla partecipazione e sulla democrazia al lavoro, e stanno circolando anche delle idee significative sul tema dei lavoratori di piattaforma. Il modello partecipativo è stato oggetto di uno scambio di riflessione e collaborazione anche con l’ILO (Organizzazione mondiale del lavoro, ndr). Nella conferenza dell’ILO del 2023 è stata approvata una risoluzione sul ruolo dell’economia sociale nella costruzione dei “buoni luoghi” di lavoro, mentre nelle ultime due edizioni si è concentrato sul lavoro di cura, in cui noi del sistema cooperativo abbiamo apportato un contributo al dibattito.

Inoltre proprio in questi giorni stiamo lavorando, come CECOP, con la Commissione Europea sul tema del lavoro di qualità: abbiamo presentato un rapporto il 16 ottobre a Bruxellels nella una conferenza dal titolo “Quality Jobs, the Cooperative Way”. Certo sul tema lavoro, non possiamo nasconderci dietro un dito, sapendo che esiste un sistema deteriorato che noi chiamiamo “il sistema delle false cooperative”, o che esistono anche delle altre cooperative che possono essere “non del tutto vere”, dato che purtroppo riproducono fenomeni con i quali lo statuto di socio-cooperatore viene usato in modo distorsivo per contenere il costo del lavoro. Non possiamo negare che tutto ciò esista, in particolare in Italia. In Spagna, in Francia e in America meridionale, e anche nel Regno Unito (Uk), dove le cooperative di lavoro hanno una componente che io chiamo “militante”, sono meno diffusi questi fenomeni, rispetto a quanto successo in Italia. Va detto che ci sarebbe da porre l’attenzione anche su altre cause per capire il fenomeno, come l’affermarsi di una certa cornice legislativa farraginoso in materia di lavoro, o anche alcuni ostacoli al lavoro somministrato che per molti aspetti hanno favorito il ricorso strumentale a false cooperative di comodo per aggirare i limiti alla intermediazione della mano d’opera. 

Sono diversi i motivi che hanno portato al deterioramento, alla nascita e alla crescita di cooperative distorte e distorcenti. Va detto che dove le cooperative che hanno riflettuto su questo problema sono emerse cose interessanti. Ad esempio, in una piccola realtà che a livello locale è molto importante, a Bergamo, qualcosa è nato come uno specifico protocollo di collaborazione tra la Confcooperative e la Confindustria per certificare il lavoro di qualità affidato dalle imprese industriali alle cooperative. Oppure se vogliamo tornare al tema della “mutualità estesa” un caseificio della provincia di Bergamo che produce Grana Padano, non ha esaurito la sua funzione mutualistica nel far cooperare gli agricoltori produttori di latte, ma ha applicato la cultura cooperativa a tutta la produzione. È una realtà dove lavorano molti lavoratori immigrati e dove è stato strutturato un sistema di attenzione, welfare aziendale e coinvolgimento diretto dei lavoratori che ha assunto la cultura cooperativa nella strategia aziendale e non solo nella forma societaria tra i soci agricoltori. 

Alzando lo sguardo oltre la stretta mutualità tra soci, anche a livello internazionale, sulla scorta di quella che prima ho definito la “diplomazia cooperativa” mi piace ricordare che il 24 ottobre abbiamo partecipato ad una Conferenza presso la Corte internazionale di giustizia dell’Aia nell’ambito dell’anno internazionale delle cooperative. Questa conferenza nasce non solo dal fatto che la Corte Internazionale ha interpellato una serie di interlocutori globali sul diritto allo sciopero, tra cui anche ICA, ma perché da questa interlocuzione tecnica è emersa una disponibilità per un confronto più ampio sul tema della relazione tra cooperative e diritto internazionale e in questa occasione proporremo il modello cooperativo di lavoro come uno strumento di pace. Come vede noi abbiamo tutta l’intenzione di portare avanti questo tipo di riflessione e prospettiva, ma non posso affermare che le cooperative siano il paradiso terrestre del lavoro.

Da quanto detto sembra che aprire questioni interne al mondo cooperativo, come il patto sul lavoro o lo sposare un’agenda ecologicamente sostenibile, sia al centro delle trasformazioni che il mondo cooperativo in parte già accompagna nella nostra società-mondo, dal livello globale a quello locale. Per farlo in modo consapevole, però, si imporrebbe una riflessione su quali sono gli strumenti più adatti da condivisione per avviare dei percorsi comuni all’interno del mondo cooperativo. Cercare di fare quello che spontaneamente si è fatto nel caso dell’economia circolare, cioè trovare dei punti in comune, e su quelli battere il ferro sino a che è caldo, ossia sino a quando non si trasforma la realtà politica, legislativa, economica e sociale, sembra il solo modo per fare del movimento cooperativo un attore politico consapevole.

Questo è un dibattito presente e aperto. C’è una discreta convergenza. A livello europeo abbiamo fatto dei passi avanti e abbiamo costruito delle posizioni significative. Per esempio, nella precedente Commissione europea abbiamo lavorato su una direttiva sui lavoratori di piattaforma. Al contrario sul salario minimo, che è stata una direzione della Commissione europea su cui siamo stati chiamati a esprimerci e su cui il sindacato si è spaccato, anche una parte del movimento cooperativo si è dissociata dalla posizione a favore del salario minimo.

UN DIVERSO ATTORE POLITICO?

Si potrebbe dire che la spinta alternativa del mondo cooperativo faccia conflitto con il mondo imprenditoriale ed economico che sembra andare per la maggiore, e che ha ridotto l’essere umano a capitale umano (o a risorsa umana)? Se questo è vero, come si sta dando questo conflitto?

Non direi che abbiamo un conflitto diretto con questo mondo, né da parte nostra lo cerchiamo. Tuttavia possiamo dire che in alcune circostanze si crea di fatto una divergenza di interessi ed è innegabile la differenza profonda tra imprese che hanno come finalità il profitto e imprese che hanno come finalità l’interesse comune (dei soci) o generale (della collettività). Il mondo cooperativo si riconosce parte di un’economia liberale, ma nella specifica formula dell’economia sociale di mercato che è quella che ha alimentato la nascita e la crescita del modello di sviluppo dell’Unione Europea e degli stati liberali democratici. Ma con l’affermarsi delle posizioni politiche di tipo neoliberista, quando non ultra-liberiste, si sono determinati effetti pesanti sulle legislazioni in materia di lavoro, produzione e governance economica.

Emblematico da questo punto di vista il divieto imposto alla Banche Popolari di mantenere la forma giuridica di cooperative, con la conseguente scomparsa in Italia, di una parte importante delle Banche Popolari. Quindi sembra proprio evidente la presenza di una certa visione dell’economia e del potere economico e politico che agisce contro il mondo cooperativo, quindi ribadisco che noi non cerchiamo il conflitto col capitalismo ma una parte del mondo che pensa di dover difendere il capitalismo sicuramente vuole confliggere con le cooperative. Detto questo, non possiamo negare il fatto che il modello cooperativo abbia debolezza e contraddizioni, anche nel prendere distanza dal mondo del “business as usual” a cui lei fa riferimento. Il mimetismo e il contesto di mercato portano ad andare in una certa direzione. Il mondo cooperativo stenta ad essere un attore sociale unitario e a prendere coscienza del suo ruolo.

Leggendo diversi report di imprese cooperativa, mi sembra che si possa generalizzare e sostenere che nel mondo cooperativo contino e continuino a contare i valori di efficacia e competizione, soprattutto se pensiamo a quanta attenzione viene data alla produzione, ovvero all’aumento della quantità di beni di consumo. Secondo lei perché il mondo cooperativo viene ad assumere delle prospettive di questo genere?

Dato che il contesto di mercato va in questa direzione, per sopravvivere nel mercato serve anche saper agire bilanciando assimilazioni e accomodamenti…

…è il mimetismo a cui ha appena fatto riferimento?

Sì. Anche se ci sono degli esempi virtuosi. Ma sui grandi numeri non ci si può sottrarre da questa dinamica, altrimenti si viene espulsi dal mercato. È un paradosso, lo so. Bisognerebbe cambiare approccio, ma non sono ottimista. Non mi pare che l’umanità stia assumendo la consapevolezza di questo problema in maniera profonda. Perciò ci vorrà ancora del tempo.

Ma il movimento cooperativo non potrebbe generare un mercato “alternativo”?

Guardi, in parte è già protagonista di alcuni mercati alternativi, dal commercio equo e solidale a tutte le filiere del biologico, le cooperative costituiscono di fatto lo strumento principale di questo mercato. Lo stesso non vale quando restiamo sulla produzione tradizionale. Quando entri nel mercato globale, infatti, devi stare a quelle regole. Se decidi di stare nel mercato della grande distribuzione organizzata e non produci certi quantitativi, ad un certo punto vieni espulso. Alcuni caseifici del parmigiano presenti sugli Appennini hanno fatto delle scelte opposte al mercato e si sono tolti dalla grande distribuzione. 

Si sono specializzati in prodotti di alta qualità, e sono entrati inevitabilmente in mercati di nicchia, dove i tuoi clienti, che si possono permettere il parmigiano a 40 euro, devono essere per forza benestanti. Ma una famiglia di operati con quattro figli che deve comprare del formaggio da grattugiare deve rivolgersi al discount dove trova un simil grana a 10 euro, altrimenti i conti non tornano, cosa gli puoi dire?.

Certo. Siamo d’accordo sul fatto che, in generale, esistono delle condizioni materiali di base da garantire a livello economico, ma non si dovrebbe aprire nel mondo cooperativo una questione sui valori postmaterialisti, postconsumisti?

Qualche cenno di questo dibattito esiste. Ma se prendiamo un organo nazionale di rappresentanza come quello di Confcooperative o a quello internazionale di Cooperatives Europe, in cui hai nello stesso consiglio sia i rappresentanti delle cooperative sociali che quelli delle aziende di produzione. I soci delle prime spesso sono persone che hanno questo approccio alternativo, frequentano il mercato equo e solidale e alimentano il circuito dei gas (gruppi d’acquisto solidale, ndr), persone molto presenti nella base del movimento cooperativo, I soci delle seconde sono imprenditori agricoli, culturalmente e politicamente più tradizionalisti. Sono tutti nello stesso movimento che deve cercare di farli dialogare e trovare una sintesi. Le faccio un esempio. 

In uno dei nostri incontri hai sia il socio della cooperativa sociale che afferma che la sugar tax è indispensabile, perché abbiamo un problema di obesità nella nostra società, che si vede bene guardando i bambini con cui la cooperativa si rapporta nelle scuole, sia il socio di una cooperativa che produce succhi di frutta per la grande distribuzione, che al contrario ti dirà che la la tassa sulle bevande zuccherate è una follia. Nell’ICA convergono nella stessa associazione il presidente di una grande cooperativa indiana che produce fertilizzanti e servizi agli agricoltori, e che è un colosso economico globale, e poi hai il rappresentante della piccola banca cooperativa dell’Ecuador, o quello dei “cartoneros” o delle artigiane che lavorano l’olio di karité. Queste persone condividono la stessa organizzazione, discutono allo stesso tavolo con pari dignità di economia e di sviluppo. 

Questo è per me un grande valore del movimento cooperativo. Certo costruire delle posizioni che ti consentono di non spaccare l’organizzazione e che mantengono degli equilibri tra attori così diversi, è un’attività assai complessa. In questo senso, andrebbe recuperata e rafforzata la capacità di convivenza che è tipica del fare democratico. Altrimenti gettiamo tutto alle ortiche, con la temperie e la polarizzazione in atto a livello economico, politico e sociale. Questa capacità di tenere insieme interessi così diversi è sicuramente un pregio e un punto di forza, d’altro canto questa è la ragione per cui è difficile immaginare che tutto il movimento cooperativo vada in una certa direzione. Perché è funzionato bene sulla circolarità? Perché sostanzialmente si è riusciti davvero ad individuare qualcosa che mette davvero d’accordo tutti. Se andiamo su tematiche diverse, invece, facciamo fatica.

Prima di salutarci, e a questo proposito, vorrei farle un’ultima domanda sul principio costitutivo del mondo cooperativo: che tipo di solidarietà è quella cooperativa?

Ha un nome preciso, si chiama mutualità. Si realizza in una mutualità di scambi. Poi, per le cooperative sociali, parliamo di “mutualità allargata”. Oggi c’è una riflessione interessante sull’ampliamento della mutualità che può arrivare riflettendo sull’uso delle nuove tecnologie. La caratteristica fondamentale di questo tipo di solidarietà è quella di pretendere necessariamente l’attivazione della stessa solidarietà nell’altro. Quindi non può mai essere paternalistica o assistenzialista.

Perciò questo approccio non piace molto a un certo filantropismo un po’ “peloso” che sta andando molto di moda oggi. Mi riferisco alla filantropia delle grandi fondazioni di famiglia, come la fondazione Gates. Fa opere meritorie, intendiamoci, ma il suo approccio è del tutto paternalistico, e evidenzia chi è il ricco che aiuta e chi è il povero che deve accettare l’aiuto.

Leggi anche: la rubrica In Circolo sulla crescita economica

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