Si è conclusa sabato 2 novembre la Cop16 sulla biodiversità a Cali, in Colombia. Al termine di dodici giornate dedicate a discutere sul valore della biodiversità, quello che emerge dalla conferenza è sicuramente un’importante presa di coscienza del ruolo indispensabile della tutela della natura per il funzionamento degli ecosistemi e il benessere del Pianeta, ma al tempo stesso su alcuni temi centrali il bersaglio è stato mancato. Primo fra tutti quello dei finanziamenti, visto che non è stato trovato l’accordo per istituire un fondo per la conservazione della natura e si è assistito a uno stallo tra nazioni ricche e povere del mondo.
Il vertice in Colombia è stato il sedicesimo incontro delle parti della Convenzione delle Nazioni Unite sulla Biodiversità e doveva essere l’occasione per discutere su come attuare i 23 obiettivi delineati nello storico accordo di Montreal del 2022, in particolare la protezione del 30% della superficie del pianeta, oceani compresi, e del 30% degli ecosistemi degradati entro il 2030. Laura Greco, presidente dell’associazione A Sud, a Cali per i lavori della “COP della gente”, fa un bilancio di luci e ombre di una conferenza dove in molti casi la concretezza ha ceduto il passo alle dichiarazioni.
“Con quasi un milione di partecipanti nella zona verde, è stato un evento straordinario per la Colombia e ha segnato un record di coinvolgimento della società civile e ha portato all’approvazione di passi avanti significativi come il riconoscimento dei popoli indigeni e delle comunità afro-discendenti nella tutela della biodiversità. Tuttavia le soluzioni messe in campo per la protezione della biodiversità non sono sufficienti”, sostiene Greco.
Durante il vertice, infatti, è emerso in tutta evidenza quanto non venga compresa la necessità di agire con urgenza contro il declino della biodiversità e i progressi sono stati deboli o nulli su obiettivi cruciali come la riforma ai sussidi dannosi per l’ambiente o l’istituzione di aree protette: “Piani nazionali poco chiari, strumenti di monitoraggio assenti e la finanziarizzazione della natura dominano ancora la scena. Chi inquina, può continuare a farlo, pagando: il principio del No Net Loss e del Net Gain permette alle imprese di compensare i danni che arrecano alla biodiversità”, riassume la presidente di A Sud.
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Nessun accordo sul fondo di conservazione della natura
L’evidenza di una situazione di stallo e dell’assenza di leadership delle nazioni dell’Unione Europea, del Canada o del Giappone, che solo due anni fa avevano spinto per fissare gli obiettivi di Montreal, si è visto nell’incapacità di giungere a un accordo sul fondo di conservazione della natura. Trovare finanziamenti per la protezione della natura era, infatti, una priorità della Cop16, visto che nel 2022 i negoziatori si erano impegnati a raccogliere 200 miliardi di dollari all’anno entro il 2030, di cui 20 miliardi da destinare ai Paesi in via di sviluppo da parte dei Paesi più ricchi entro il 2025.
Questi importi, peraltro, rappresentano un modesto aumento rispetto ai 15,4 miliardi di dollari destinati nel 2022 al finanziamento della conservazione della natura, secondo i dati dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). Alla Cop15 del 2022 i Paesi avevano deciso di creare il Fondo quadro globale per la biodiversità, ma finora sono stati raccolti solo circa 400 milioni di dollari. “È molto poco. Stiamo parlando di milioni che sono stati promessi. Ma quello che ci aspettiamo sono miliardi”, ha dichiarato Irene Wabiwa, di Greenpeace. “Se si considera la crescita del tasso di perdita di biodiversità, il flusso di denaro è molto, molto lento. E noi siamo parecchio spaventati”.
Nel corso dei colloqui, i delegati dei Paesi in via di sviluppo hanno espresso il timore che i Paesi ricchi non abbiano nemmeno intenzione di mantenere la promessa di 20 miliardi di dollari, visto che mancano solo due mesi alla scadenza, e che i fondi verranno in ogni caso erogati troppo lentamente. Più in generale, hanno lamentato le risorse limitate di cui dispongono per proteggere la biodiversità. In particolare, le nazioni africane e il Brasile hanno chiesto un nuovo “meccanismo di finanziamento” per distribuire i fondi per la biodiversità e una maggiore supervisione sui finanziamenti, finora appannaggio dei Paesi ricchi.
Le nazioni più sviluppate economicamente si sono, tuttavia, opposte all’idea del fondo per la conservazione della natura. “Non è sufficiente discutere sempre di un fondo, di un nuovo fondo”, ha dichiarato lunedì Florika Fink-Hooijer, capo della Direzione generale Ambiente dell’Unione Europea. “Abbiamo il Fondo Quadro Globale per la Biodiversità… quindi non credo che dovremmo distrarci dicendo: ‘Ora abbiamo bisogno di un altro fondo’”.
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La spinta del segretario generale delle Nazioni Unite
Era stato lo stesso segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres a chiedere alla comunità internazionale un maggiore impegno economico in favore di progetti destinati alla conservazione della biodiversità. “Ringrazio i Paesi che si sono impegnati a donare altri 3 miliardi di dollari, ma se vogliamo attuare pienamente il quadro globale sulla biodiversità abbiamo bisogno di molto di più”, ha detto nel corso del suo intervento alla Cop16. Secondo le stime presentate da Guterres per sostenere i Paesi più vulnerabili a sviluppare azioni in favore dell’ambiente saranno infatti necessari almeno 200 miliardi di dollari all’anno entro il 2030, in linea con quanto stabilito a Montreal.
Denaro che anche “le aziende che realizzano profitti sfruttando la natura” dovrebbero contribuire a versare “per la protezione e ripristino” degli ecosistemi, ha aggiunto. Al termine del suo intervento, il segretario generale Onu ha evidenziato l’importanza di un sempre maggior coinvolgimento delle comunità indigene negli organismi globali dedicati alla difesa ambientale che garantisca la loro partecipazione attiva al dibattito sulla conservazione della biodiversità. Ed è forse questo il tema della Cop16 dove è arrivata una buona notizia.
Maggiore rappresentanza per le comunità indigene
Dopo due settimane di negoziati, sabato i delegati hanno deciso di istituire un organo sussidiario che includa le popolazioni indigene nelle future decisioni sulla conservazione della natura. Venerdì era stata adottata anche una misura per riconoscere l‘importanza del ruolo delle persone di origine africana nella protezione della natura.
La storica decisione, accolta dagli applausi, riconosce e protegge la conoscenza tradizionale delle popolazioni indigene e delle comunità locali a beneficio della gestione della biodiversità a livello globale e nazionale, rafforza la rappresentanza, il coordinamento e il processo decisionale inclusivo creando uno spazio per il dialogo con le parti della COP e, in una prospettiva più ampia, incide positivamente sugli standard internazionali sui diritti umani, come indicato nel Quadro globale per la biodiversità.
“Con questa decisione, viene riconosciuto il valore delle conoscenze tradizionali dei popoli indigeni, degli afro-discendenti e delle comunità locali e viene saldato un debito storico di 26 anni nella Convenzione sulla biodiversità”, ha scritto Susana Muhamad, ministra dell’Ambiente della Colombia e presidente della Cop16, sul social media X subito dopo l’annuncio.
L’accordo sui dati genetici digitali
Alle comunità indigene andranno anche i fondi raccolti grazie a un altro accordo raggiunto a Cali sui dati genetici digitali provenienti dalle risorse biologiche, noti come Digital Sequence Information (DSI). Queste informazioni stanno assumendo un ruolo sempre più importante nella scoperta di farmaci e prodotti commerciali. Finora sono state accessibili gratuitamente su banche dati globali, nonostante abbiano generato introiti miliardari alle aziende private. Una situazione ritenuta ingiusta dai Paesi ricchi di biodiversità (e poveri economicamente) da dove i dati provengono.
A Cali i negoziatori hanno acconsentito a vincolare le grandi aziende a condividere i benefici derivanti dall’uso di risorse animali, vegetali o microrganismi nelle biotecnologie. Le aziende che soddisfano due dei tre criteri (vendite superiori a 50 milioni di dollari, profitti superiori a 5 milioni di dollari e 20 milioni di dollari di attività totali) dovranno contribuire al fondo DSI con l’1% dei profitti o lo 0,1% delle entrate. Anche se l’accordo è volontario e i governi nazionali dovranno introdurre le regole a livello nazionale, alcuni stimano che il fondo potrebbe generare più di un miliardo di dollari all’anno per la conservazione della natura.
Il declino delle specie e la situazione di emergenza
Se molti dei farmaci salvavita che utilizziamo oggi provengono dalla foresta pluviale, è evidente quanto la salute umana sia connessa con la tutela di queste aree del mondo in pericolo. Di fronte ai dati allarmanti, gli scienziati a Cali hanno avvertito i governanti che non c’è tempo da perdere. Nel rapporto Living Planet del World Wildlife Fund e della Zoological Society of London, pubblicato a ottobre, è stato calcolato che le popolazioni di animali selvatici a livello globale sono crollate in media del 73% in 50 anni. Mentre secondo lo studio presentato dall’International Union for Conservation of Nature and Natural Resources (IUCN) circa il 38% delle specie arboree del mondo – per un totale di 16.425 specie – è a rischio di estinzione.
L’UNEP (il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente) a Cali ha fatto luce, invece, su come solo il 17,6% della superficie terrestre e delle acque interne del mondo sia sottoposta a una qualche forma di protezione. Valori ancora più bassi quando si guarda al mare: solo l’8,4% delle aree marittime e costiere sono attualmente protette. Eppure, molte nazioni del mondo non hanno ancora presentato impegni per la protezione della biodiversità. La dimostrazione di quanto sia lungo e impervio il percorso perché le dichiarazioni e gli annunci si trasformino in azioni concrete.
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