A un mese esatto di distanza dall’avvio, la domanda è una: che Cop29 sarà? L’appuntamento annuale con la Conferenza annuale sul clima, in programma a Baku dall’11 al 22 novembre, questa volta rischia di passare un po’ in sordina. Un po’ per via delle crescenti tensioni in Medioriente e dello stato di guerra permanente in cui il globo sembra essere caduto, un po’ per via dello Stato in cui si terrà la Cop del 2024, vale a dire l’Azerbaijan.
Quando è stata annunciata la scelta del Paese caucasico ci sono state parecchie perplessità, specie perché si tratta di un altro Paese la cui economia si regge moltissimo su petrolio e gas, come già per la precedente Cop28 di Dubai. Tuttavia se è vero che l’Azerbaijan è un membro forte di OPEC, l’organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, è innegabile comunque che a contare è la modalità con la quale ci si approccia ad affrontare il collasso climatico. La diplomazia del clima, infatti, è materia complessa che tiene insieme esigenze nazionali e prospettive globali, ineguaglianze sociali e strategie politiche, questioni emergenziali e sistemiche.
Ecco perché il punto di partenza di una riflessione sulla Cop29 non può che partire dagli esiti in chiaroscuro della precedente Cop28, dove a fronte di una storica decisione sulla definizione transition way – vale a dire l’avvio di un processo di transizione dalle fonti fossili – per il resto hanno prevalso i compromessi e le interlocuzioni. In questi mesi di preparazione alla Cop29 si è rafforzata l’idea che il punto nevralgico di questa Conferenza sarà la finanza climatica. Banalmente: chi paga per affrontare la mitigazione e l’adattamento a una crisi climatica che si sta sempre più acuendo, come ci ha insegnato la torrida estate che abbiamo appena trascorso e il conseguente autunno ricco di eventi meteorologici estremi? Dalle risposte a questa domanda passerà buona parte dell’esito di questa Cop, che potremmo considerare quasi di transizione rispetto all’appuntamento, cruciale e simbolico allo stesso tempo, della Cop30 di Belem, in Amazzonia, dove i Paesi aderenti ai BRICS+ intendono strappare il dominio occidentale – Usa e UE in testa – che finora ha caratterizzato le trattative climatiche.
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I problemi dell’Azerbaigian
Il 24 febbraio scorso Ilham Aliyev ha vinto le elezioni presidenziali per la quinta volta consecutiva. Come ricordava Il Post, “Aliyev è al potere dal 2003, dopo che in precedenza il paese era stato governato per vent’anni da suo padre, Heydar Aliyev. Governa il paese con un regime dittatoriale dove le libertà politiche e civili sono sistematicamente represse, e può ricandidarsi alle elezioni per un numero illimitato di volte, grazie a una riforma costituzionale approvata nel 2009”. Se per la real politik la democrazia è solo un concetto astratto c’è chi però continua a far notare, alla vigilia della Cop29, che non si può parlare di clima senza affrontare la questione dei diritti umani. L’8 ottobre Amnesty International ha chiesto agli Stati di premere sulle autorità dell’Azerbaijan perché pongano fine al giro di vite sulla società civile, scarcerino le persone detenute solo per aver esercitato il loro diritto alla libertà di espressione e assicurino che le persone che parteciperanno all’incontro – in particolare, persone attiviste e giornalisti – possano prendervi parte pienamente e liberamente.
“Da quando, nel dicembre 2023, è stato deciso che l’Azerbaijan avrebbe ospitato la Cop29, le autorità locali hanno intensificato la repressione nei confronti dei diritti alla libertà di espressione, di associazione e di protesta pacifica – scrive Amnesty International – Organizzazioni indipendenti della società civile sono state chiuse, persone che avevano espresso critiche al governo sono state imprigionate per accuse di natura politica o sono state costrette all’esilio”. Lo stesso era già successo, ha ricordato Amnesty International, quando l’Azerbaijan aveva ospitato grandi eventi internazionali, come Eurovision 2012 e i Giochi europei del 2015.
“L’Azerbaijan si appresta a ospitare una conferenza internazionale sulla giustizia climatica proprio mentre sta colpendo i principali pilastri dell’attivismo climatico, reprimendo ogni forma di critica e di protesta e smantellando la società civile locale. Le autorità azere hanno imprigionato centinaia di persone con accuse politiche per aver osato prendere la parola: giornalisti, attivisti e difensori dei diritti umani sono detenuti arbitrariamente, in violazione del diritto al giusto processo e senza alcuna garanzia di ricevere un processo equo”, ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International.
Non va meglio per lo Stato azero se ci si limita al tema prettamente climatico (sempre se ciò sia possibile). A settembre il gruppo scientifico indipendente Climate Action Tracker, che valuta i piani climatici nazionali, ha affermato che l’Azerbaijan è stato uno dei pochi paesi ad aver indebolito i propri obiettivi climatici quando sono stati presentati alla fine del 2023.
“Nel complesso – scrive CAT – l’obiettivo e le politiche attuali dell’Azerbaigian sono tutt’altro che coerenti con il limite di temperatura di 1,5 gradi dell’accordo di Parigi. Le emissioni totali di gas serra dovrebbero continuare a salire di circa il 20% al 2030, in netto contrasto con le riduzioni delle emissioni necessarie per rispettare i suoi impegni climatici. Le emissioni di metano legate all’energia stanno aumentando rapidamente, mentre per l’allineamento di 1,5 gradi dovrebbero scendere di circa il 66% rispetto ai livelli del 2020 entro il 2030. I suoi obiettivi di energia rinnovabile rimangono deboli. L’economia dell’Azerbaigian dipende dalla produzione di combustibili fossili e il governo prevede di aumentare l’estrazione di gas fossile di oltre il 30% nel prossimo decennio. Le emissioni dei combustibili fossili esportati sono due volte superiori alle emissioni interne. Oltre a fissare un obiettivo climatico più rigoroso, l’Azerbaigian deve aumentare in modo significativo l’ambizione delle sue politiche climatiche di invertire l’attuale rapida crescita delle emissioni e di fissare le sue emissioni su una traiettoria al ribasso ferma. Nel complesso riteniamo l’azione per il clima dell’Azerbaigian come criticamente insufficiente“.
Una sonora bocciatura che mina la credibilità dello Stato azero.
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La finanza climatica al centro della Cop29
C’è chi giura che sarà una Cop “finanziaria”, nel senso che il dossier più importante, cioè il nuovo obiettivo globale di finanza climatica post 2025 (New Collective Quantified Goal, NCQG), potrebbe fagocitare tutti gli altri negoziati. A un mese dall’inizio della Cop29, d’altra parte, le trattative sono ancora in una fase di stallo. Il NCQG è il nuovo obiettivo che dovrà sostituire il precedente, pattuito nel 2009, che prevedeva che i Paesi più ricchi versassero 100 miliardi di dollari l’anno entro il 2020 e fino al 2025. Al netto delle polemiche sull’opacità e sulle criticità degli stanziamenti quel che appare innegabile è che si tratta di un obiettivo che è via via “invecchiato male”, nel senso che da più ricerche e dalle richieste dei Paesi più colpiti dagli effetti del collasso climatico è emerso come i fondi necessari andrebbero quantomeno decuplicati.
Ne è una prova, ad esempio, il fondo Loss and Damage (perdite e danni). Come spiega il think thank per il clima ECCO, “il fondo Loss and Damage costituisce il terzo pilastro per il raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi, proprio al fianco delle azioni di mitigazione e adattamento. L’obiettivo del fondo è infatti quello di ripagare le perdite e i danni che non sono evitabili o ai quali non ci si può adattare. Perdite e danni, però, dipendono fortemente dalle azioni di mitigazione e adattamento, perché di fronte a azioni poco ambiziose ed inefficaci, l’entità di perdite e danni aumenta inesorabilmente”.
Istituito alla Cop27 di Sharm-el-Sheikh, il fondo Loss and Damage è già stato depotenziato appena un anno dopo: le donazioni, comunque volontarie, sono nell’ordine dei milioni di dollari e non dei miliardi necessari; si continua a fare affidamento sull’egemonia del dollaro e a gestire questi fondi sarà la Banca Mondiale, come volevano gli Usa e l’Unione europea, attraverso prestiti e debiti. Mentre al contrario è ormai opinione comune che per un’efficace opera globale di adattamento climatico sono necessarie le sovvenzioni, senza chiedere nulla in cambio. Difficile pensare che si possano ottenere grandi risultati su questo fronte quest’anno. Sono tanti, infatti, gli elementi critici: gli Usa arriveranno alla Cop con un presidente appena eletto e, che sia il negazionismo climatico di Donald Trump o la scarsa ambizione climatica di Kamala Harris, c’è da aspettarsi che vorranno giocare di rimessa; l’Unione europea ha da poco nominato una Commissione orientata alla difesa e pronta a ridimensionare le proprie aspirazioni di leadership climatica; la Cina punta ancora a mantenere il ruolo di “Paese di sviluppo” (sancito nel 1992, quando il suo PIL era inferiore a quello italiano) e non a fare i conti col fatto di essere il Paese che più emette al mondo.
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Le mire italiane alla Cop29
L’Italia è uno dei maggiori importatori di gas dell’Azerbaijan, grazie soprattutto al gasdotto TAP, e anzi, secondo le stime dell’ong statunitense IEEFA, il nostro Paese è il primo partner commerciale in Europa per quel che riguarda gli idrocarburi. Eni e Snam, i due colossi energetici italiani, sono di casa nell’ex repubblica sovietica. Appare certo che le due aziende vorranno giocare un ruolo da protagonista. Innanzitutto perché la presidenza della Cop29 è stata affidata a Mukhtar Babayev, ex ministro azero nonché ex dirigente per 26 anni alla Socar, l’azienda di Stato che si occupa di petrolio e gas. Inoltre la stessa presidenza nella lettera del 17 settembre rivolta agli Stati membri ha pubblicato un elenco di 14 iniziative da voler portare ai tavoli delle giornata dall’11 al 24 novembre, riuscendo a non elencare la “transizione dalle fonti fossili” che pure era stata votata alla scorsa Cop.
Insomma: per Eni e Snam la strada appare in discesa. In questo contesto negli scorsi giorni hanno fatto rumore le aggressive dichiarazioni di Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni da più di 10 anni, che nei confronti dei provvedimenti chiave del Green Deal europeo ha parlato di “stupidità” dell’Europa, di “ideologie ridicole dettate da una minoranza” e di miglioramenti ambientali dovuti al fatto che “l’industria è stata bloccata”. Altro che diplomazia climatica, queste appaiono come annunci battaglieri prima dello scontro finale.
E il governo? La posizione dell’Italia è stata esplicitata lo scorso 4 ottobre, in occasione del G20 Energia che si è tenuto in Brasile, dal ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin. “L’Italia ha portato come proposta la ‘Carta di Venaria’ del G7 che si è tenuto in primavera, in cui si sono sviluppati tanti temi – ha scritto il ministro sui social – I più importanti sono la triplicazione dell’energia rinnovabile, l’impegno di accompagnamento per il nuovo nucleare e lo sviluppo dei biofuel. Questo sarà il contributo che intendiamo portare alla Cop29, a Baku, il prossimo mese”. Nulla di nuovo e di decisivo sul versante climatico?
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