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venerdì, Novembre 15, 2024

La Cop29 di Baku ha acceso i motori, tra presenze imbarazzanti e convitati di pietra

La Cop29 sul clima di Baku ha preso il via tra le incertezze legate alla probabile uscita degli Stati Uniti a guida Trump dagli accordi di Parigi e il ruolo discutibile della presidenza Azera

Daniele Di Stefano
Daniele Di Stefano
Giornalista ambientale, un passato nell’associazionismo e nella ricerca non profit, collabora con diverse testate

La Cop29 di Baku “è l’unico luogo in cui possiamo affrontare la dilagante crisi climatica e chiedere credibilmente agli altri di agire” ha detto ieri il Segretario esecutivo dell’ONU per i Cambiamenti climatici, Simon Stiell, durante il discorso di apertura della ventinovesima Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), la Cop29 che ha preso il via in Azerbaigian.

Le parole di Stiell arrivano dopo che l’agenzia meteorologica delle Nazioni Unite ha pubblicato il suo aggiornamento sullo stato del clima 2024: il periodo 2015-2024 segnerà il decennio più caldo mai registrato, con un’accelerazione nello scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento del livello del mare e il riscaldamento degli oceani. Da gennaio a settembre 2024, la temperatura media globale dell’aria sulla superficie terrestre è stata di 1,54 °C al di sopra della media preindustriale (l’obiettivo degli accordi di Parigi è restare sotto gli 1,5 gradi di aumento).

Prima di concludere il suo intervento, Stiel ha richiamato i Paesi e i negoziatori a non sottovalutare questo appuntamento: “Non possiamo lasciare Baku senza un risultato sostanziale”, ha detto, sfidando i delegati a “resistere e arrivare ad un risultato”.

Eppure questa Cop sembra aver preso il via sotto una cattiva stella, complici il ruolo discutibile del Paese ospite, un petrostato che ha subito lanciato segnali di “ambiguità climatica”; e l’ombra lunga del presidente eletto Donald Trump sul ruolo che avranno gli Stati Uniti contro la “catastrofe climatica”, per usare le parole del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres.

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Un piazzista di gas alla guida della Cop29

“Abbiamo molti giacimenti di gas che devono essere sviluppati”, ha detto Elnur Soltanov parlando con potenziali investitori. Sultanov si è anche offerto di facilitare le relazioni tra questi soggetti e la State Oil Company of Azerbaijan Republic (Socar), la compagnia statale azera del petrolio e del gas: “Sarei felice di creare un contatto tra il vostro team e il loro team in modo che possano iniziare le discussioni”.

Elnur Soltanov è vice ministro dell’Energia dell’Azerbaigian e fa parte del consiglio di amministrazione di Socar. E come risulta chiaro dalle parole dei video registrati da Global Witness e diffusi dalla BBC fa benissimo il suo lavoro di lobbista sia per la Socar che per il suo Paese. Peccato che Sultanov sia anche – scelta evidentemente sciagurata – l’amministratore della Cop29. Quella stessa Cop che dovrebbe raggiungere accordi su come il mondo dovrà lasciarsi alle spalle l’uso dei combustibili fossili che sono la causa della crisi climatica.

Le registrazioni pubblicate dalla BBC mostrano insomma l’amministratore delegato del team della Cop29 che, durante colloqui con attivisti di Global Witness che si fingono dipendenti di una società di investimento di Hong Kong, sfrutta il suo ruolo alla Cop per organizzare un incontro e discutere di potenziali accordi sui combustibili fossili.

Racconta la BBC che Soltanov ha parlato di opportunità legate ai piani dell’Azerbaigian per aumentare la produzione di gas, compresa una nuova infrastruttura di gasdotti. “Ci sono molte joint venture che potrebbero essere create”. E poi: “Avremo una certa quantità di petrolio e di gas naturale prodotti, forse per sempre”.

In alcune email tra il team della Cop29 e i falsi investitori che la BBC ha potuto visionare si discute di un accordo di sponsorizzazione da 600.000 dollari in cambio della presentazione alla Socar, della concessione di pass con accesso completo al summit (c’è un’evidente questione di opacità nella gestione degli accessi alle conferenze), e del coinvolgimento in un evento sugli “investimenti sostenibili nel settore del petrolio e del gas” durante la Conferenza di Baku.

Un ex capo dell’organismo delle Nazioni Unite responsabile dei colloqui sul clima ha dichiarato alla BBC che le azioni di Soltanov sono “assolutamente inaccettabili” e rappresentano un “tradimento” del processo della Cop.

Fatti inaccettabili che una volta di più fanno emergere il ruolo tossico che i lobbisti delle imprese che estraggono e commercializzano combustibili fossili svolgono durante le conferenze sul clima. E confermano la bontà degli obiettivi della campagna “Clean the Cop”, che questo magazine ha lanciato con A Sud, e Fondazione Openpolis e col sostengo di Greenpeace Italia, Energia per l’Italia, ISDE – Medici per l’ambiente, Rinascimento Green e Coordinamento Nazionale No Triv: tenere fuori i grandi inquinatori della delegazione accreditata dal governo italiano.

Si ripete insomma quanto avvenuto lo scorso anno a Dubai. Quando – stando a documenti filtrati e pubblicati da BBC e Center for Climate Reporting – il presidente della Cop28, il sultano Al Jaber, che di mestiere fa il CEO dell’azienda petrolifera statale degli Emirati Arabi Uniti (Adnoc), avrebbe lavorato ad accordi commerciali con i massimi livelli istituzionali di diversi Paesi proprio durante i lavori preparatori per l’appuntamento di Dubai.

E ricordiamo poi che Elnur Soltanov non è solo nel portare avanti gli interessi fossili del proprio Paese. Ilham Aliyev, presidente azero, il 26 aprile scorso al Climate Dialogue di Petersberg, ha rivendicato una sorta di “diritto alle fossili”: “Come capo di un Paese ricco di combustibili fossili, ovviamente, difenderemo il diritto di questi Paesi a continuare gli investimenti e la produzione perché il mondo ne ha bisogno. Ma allo stesso tempo, i Paesi con combustibili fossili, come ho già detto, dovrebbero essere tra quelli che dimostrano solidarietà nei confronti delle questioni legate al cambiamento climatico”. Cosa significhi per Aliyev la parola solidarietà lo vedremo a Baku.

Clima adattamento COP29
Foto: © Choi Dongsu / iStock

Leggi anche: “Clean the Cop!”, al via la campagna per bandire le lobby fossili dalle delegazioni governative nei negoziati sul clima

Multilateralismo senza stelle e strisce

Se il lavorio sotto traccia per spacciare gas e petrolio non bastasse, una grande incertezza sulla diplomazia climatica è piovuta con l’elezione di Trump. Che succederà alle trattative sul clima ora che la prima potenza mondiale e il secondo emettitore di gas climalteranti al mondo, gli USA, sarà guidato da chi ha sempre negato la crisi climatica? Quel Donal Trump, presidente eletto, che in campagna elettorale ha additato il cambiamento climatico come “una grande bufala”; ha accusato l’Inflation Reduction Act (“la più significativa legislazione sul clima nella storia degli Stati Uniti”, secondo l’Agenzia statunitense per l’Ambiente) di essere una ” truffa verde” e l’energia eolica “spazzatura” Quel Donald Trump che durante il primo mandato alla Casa Bianca ha voluto sfilare gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi e che in campagna elettorale ha promesso che tornerà a farlo.

Scrive Politico: “Il mondo si sta preparando al ritiro del Presidente eletto Donald Trump dall’accordo sul clima di Parigi per la seconda volta – solo che questa volta potrebbe muoversi più velocemente e con meno restrizioni. Il voto di Trump di ritirarsi lascerebbe ancora una volta gli Stati Uniti come uno degli unici Paesi a non essere parte del patto del 2015. La sua vittoria alle elezioni della scorsa settimana rischia di mettere in secondo piano il vertice sul clima Cop29”.

“L’elezione di un negazionista del clima alla presidenza degli Stati Uniti è estremamente pericolosa per il mondo”, ha detto al Guardian Bill Hare, di Climate Analytics. “Gli Stati Uniti in questa Cop non sono solo un’anatra zoppa, sono un’anatra morta”, ha dichiarato alla BBC il professor Richard Klein, esperto di politica del cambiamento climatico per lo Stockholm Environment Institute. “Non possono impegnarsi in nulla e questo significa che Paesi come la Cina non vorranno impegnarsi in nulla”.

Eppure l’inviato degli Stati Uniti per il clima, John Podesta, a Baku assicura che l’Inflation Reduction Act (le norme statunitensi che finanziano la transizione green) continuerà a ridurre le emissioni di gas serra degli Stati Uniti anche dopo il ritorno dell’amministrazione Trump alla Casa Bianca nel 2025. A marciare – nonostante “nuovi venti contrari” che potrebbero “rallentare” la transizione energetica – saranno le iniziative del settore privato e delle amministrazioni subnazionali: il cammino verso le rinnovabili è “irreversibile”.

Sul fatto che Trump sia posizionato dell’altra parte della barricata rispetto a chi, la scienza climatica in primis, chiede il fase out di carbone, gas e petrolio non ci sono dubbi. “La vittoria di Trump rafforza le posizioni degli interessi legati ai combustibili fossili, portati avanti da enti che hanno supportato fortemente la sua campagna”, riflette ECCO, il think tank italiano dedicato alla transizione energetica e al cambiamento climatico.

Secondo Economy Magazine, l’ex presidente ha ricevuto da Big Oil più di 14 milioni di dollari in donazioni. In aprile, durante una cena nel club di Mar-a-Lago, in Florida, Trump ha incontrato più di 20 dirigenti di compagnie come Chevron, Exxon e Occidental, promettendo che avrebbe eliminato le barriere alle trivellazioni e alleggerito le normative che limitano le emissioni inquinanti delle automobili.

“La grande domanda che la comunità internazionale si sta ponendo in questo momento – scrive ancora ECCO – riguarda la capacità del mondo di raggiungere gli obiettivi climatici, abbassando le emissioni e aumentando i flussi finanziari per il clima, anche a fronte di un nuovo ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi”. Perché “è innegabile che se la nuova amministrazione Trump rispettasse quanto dichiarato in campagna elettorale, lo sforamento dell’obiettivo sul clima di 1.5 sarebbe quasi una certezza. Questo è dovuto soprattutto al peso globale degli Stati Uniti, che vale ancora l’11% delle emissioni. Il Paese è inoltre il secondo maggior donatore di finanza per il clima dopo l’Unione europea e il primo contribuente alle casse delle Nazioni Unite”.

Eppure ECCO condivide la lettura ottimistica di Podesta, confidando nel tessuto sociale ed economico degli Stati Uniti: “Gran parte della società americana e delle imprese è favorevole alla transizione”. Il think tank ripone la propria fiducia anche negli altri attori sullo scacchiere globale, “in primis Europa e Cina, ma anche i grandi Paesi emergenti come Brasile, India, Sudafrica e Turchia. Una cooperazione economica e industriale efficace tra questi Paesi nei prossimi quattro anni aiuterebbe a mantenere in vita l’obiettivo 1.5 e ancor di più quello di 2 gradi”. Inoltre, secondo ECCO, dall’attuale multilateralismo climatico non si torna indietro: “I processi multilaterali sono già avviati e andranno avanti con o senza la partecipazione di Washington. La Cop29 di Baku sarà il primo grande test della volontà dei Paesi di avanzare indipendentemente dalla posizione americana”.

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Foto: Canva

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