Il Cile si avvia verso il plebiscito costituzionale del 4 settembre, il referendum per approvare o respingere la nuova costituzione messa in piedi da 155 padri e madri costituenti in un anno di lavoro. Il Paese è dunque al centro di grandi cambiamenti, che ben si intersecano con le necessità, date anche dalla crisi climatica, di un nuovo modello di sviluppo economico e sociale. Ne abbiamo parlato con Nicolás Grau, noto anche come Nico Grau, attuale ministro dell’Economia del governo Boric.
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Nella prospettiva del ministero dell’economia, esiste un’attenzione verso l’economia circolare? In caso positivo, è pensata come uno strumento per abbandonare l’economia neoliberista?
Il Ministero dell’economia, come tutti gli altri ministeri del governo, deve agire in accordo alla legge quadro sul cambio climatico. È un obbligo tanto per noi come per i governi che verranno. Ciò significa che dobbiamo agire rispettando una strategia che affronti il cambiamento climatico a lungo termine. Troviamo in essa una serie di obiettivi, come la carbon-neutralidad (fare in modo che la somma delle emissioni di carbonio (C02) meno la capacità del Paese di assorbirle, devono essere uguali a zero, ndr) da realizzare entro il 2050. L’economia circolare è uno degli elementi all’intero di questa strategia più generale. Il che significa fare la transizione verso una economia verde.
Quali sono i progetti che si vogliono sviluppare in questo senso?
I progetti sono sviluppati principalmente dal Ministero dell’ambiente. Il Ministero dell’economia li sostiene, ovviamente. Specialmente alcuni che riguardano l’aumento della spesa in scienza, tecnologia, innovazione e conoscenza. In questa lista di nuovi progetti ci sono alcuni progetti di economia circolare.
Cosa pensa dell’economia circolare?
Ci sono due modi per approcciarvisi. Uno si dà a partire dalla questione: quanto è necessaria? Il secondo, invece, risponde a questa altra: quanto ci si può lucrare? Quanto si può sviluppare senza aver bisogno di sussidiarla o di sostenerla economicamente? Da parte mia, sono convinto che è necessaria. La produzione di rifiuti e, più in generale, la riutilizzazione di tutto ciò che si produce, ossia tutto il ciclo di produzione e consumo, e poi di nuovo uso e così via, è fondamentalmente necessario. Essa rappresenta la parte sostanziale dell’economia cilena se vuole arrivare a sviluppare un’economia verde. Inoltre, sono sempre più convinto che è un’opportunità commerciale. Ma anche se non esistesse questa opportunità, penso che la si dovrebbe sviluppare lo stesso.
Da quello che ho potuto capire, l’economia circolare in Cile è poco sviluppata, è così?
Si trova completamente ad uno stadio iniziale.
Il ministero dell’economia sta sviluppando le richieste ecologiste dei movimenti degli ultimi decenni?
Noi siamo un governo che si dichiara ecologista. Tutta la nostra preoccupazione per gli investimenti e la crescita economica ha una direzione ben precisa, che è la trasformazione generale che permetta che si costruisca un economia verde. L’importante è che il governo conservi una coerenza in questo. La prospettiva ecologica è trasversale nel governo, e sono parte del Ministero dell’Economia. Come lo è nella prospettiva di genere e nel migliorare le condizioni dell’eguaglianza sociale.
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Nel movimento ecologista esiste un dibattito sul greenwashing, su come l’economia può cambiare solo in apparenza, mantenendo la struttura di produzione e consumo inquinante e mortifera che abbiamo ereditato. Uno dei punti nevralgici di questo dibattito è relativo a come abbandonare una visione produttivista. Pensa che lei potrà aiutare, dalla sua posizione di ministro, ad abbandonare la visione produttivista?
Secondo me la cosa importante è saper distinguere i fini dai mezzi. Il fine fondamentale sul piano ecologico per il Cile è il “carbonio zero” (carbon-neutralidad). Questo è concreto e misurabile. Abbiamo una traiettoria da seguire. Ciò implica un insieme di obiettivi per l’insieme della società che si esprimono a lungo termine. La vera domanda è: come facciamo a compiere questi obiettivi? Sono convinto che tutto questo si ottenga con un maggiore investimento concentrato in questo tipo di produzione, e ci si può arrivare solo aumentando la produttività. Per dirlo in modo molto diretto: non credo che la prospettiva della decrescita possa risolvere il problema della crisi climatica. Per niente. Di fatto bisognerà crescere e investire molto di più per poter risolvere questo problema.
In cosa si dovrebbe investire di più e crescere ancora di più?
Nell’economia che ci rende capace di avviare una transizione che costruisca un’economia compatibile con la crisi climatica. La cosa più evidente in tutto questo processo è il cambiamento della matrice energetica. Il Cile lo ha cominciato a fare, ma bisogna farlo con ancora maggiore convinzione. Produrre energia pulita, come l’energia verde e molto altro. E inoltre produrre molto per fare in modo di produrre in modo diverso. Per esempio facendo economia circolare. Tutto questo richiede degli investimenti. Una delle cose che dovremmo aver appreso durante la pandemia, è che, quando il Pil è caduto vertiginosamente, abbiamo continuato a fare le stesse cose di prima. E questo non ha risolto la crisi climatica. Ed abbiamo avuto più di un anno di decrescita nel mondo…
…di recessione.
…ma…in ogni caso, non c’è stata crescita. Nonostante questo, in quell’anno, siamo stati lontanissimi dal migliorare la situazione dell’inquinamento da carbonio. Nel mondo progressista, più di sinistra, esiste un dibattito su questo tema. Alcuni indicano la strada della decrescita, e altri che la bisogna sviluppare una “crescita orientata”, come me. È l’unica strada percorribile. L’altra strada è impraticabile non tanto per il Cile, ma per il mondo intero. Perché questo implicherebbe che i Paesi sviluppati devono consumare meno. In modo radicale. E non c’è nessuno nel mondo in grado di vincere un’elezione dicendo alla classe lavoratrice che la sua strategia è quella di abbassare gli standard della qualità della vita per i prossimi 20 anni.
…nessuno sarebbe disposto a questo.
Nessuno. Inoltre credo che non è un cammino efficiente. Perché per fare il cambio di paradigma che richiede il “carbonio zero” si avrà bisogno di un forte investimento e di una gigantesca crescita economica.
Esiste anche una terza posizione, come quella del filosofo Edgar Morin, uno dei riferimenti del pensiero complesso contemporaneo, che sostiene che in alcuni settori c’è bisogno di una crescita (come quelli della cultura, dell’educazione, della ricerca, dei servizi sociali, etc.), e altri settori in cui bisognerebbe decrescere.
Questo è successo in tutta la storia del capitalismo. Non mi sembra una reale novità, è successo negli ultimi duecento o trecento anni. Nel capitalismo si creano e si distruggono continuamente diverse forme di produzione.
Quindi bisognerebbe scegliere…
Infatti bisogna parlare di “crescita orientata”. Ormai non è più possibile dire che si può crescere in qualsiasi settore e come imperativo, senza dare importanza a cosa far crescere e cosa non far crescere. Abbiamo bisogno che i settori che crescono siano compatibili con la crisi climatica. Ciò significa, in pratica, scollegare dei punti del Pil dalla produzione di carbonio. Un esercizio complesso, un grande sforzo che ha bisogno di una politica industriale, articolazione statale del coordinamento pubblico-privato, ad un livello mai visto sino ad ora. Insisto: tutto questo ha bisogno di un grande investimento.
Lei dice che si cresce e decresce sempre con il capitalismo. La domanda è: ma in funzione di cosa?
Beh, bisogna darci altri obiettivi. Uno in particolare: proteggere il pianeta.
Certo. In questo senso si potrebbe cominciare a decrescere in pratiche produttive che hanno un forte impatto ambientale, anche se molto spesso non vengono considerate da questa prospettiva, come, per esempio, tutta l’industria bellica. Il fatto di produrre armi, e poi consumarle, che significa banalmente fare delle guerre, potrebbe essere uno dei primi ambiti dove potremmo decrescere. Non trova?
A questa domanda preferisco non rispondere. Tra quattro anni (la durata del governo in Cile, ndr) potrò commentarlo.
Ma esistono anche altri ambiti in cui farlo urgentemente, come la produzione di plastica, no?
Sicuramente. Penso che le nuove tecnologie ci potranno dire quali sono quelle che si possono riciclare bene o quelle che non si possono riciclare. Senza alcun dubbio ci dovranno essere dei cambiamenti importanti in questo tipo di temi. In come si costruiscono le case. Quali materiali vanno usati. Tutto questo va messo in discussione.
D’altro canto, si potrebbe fare crescere, e di molto, l’economia circolare, no?
Sono totalmente d’accordo. In Cile c’è moltissimo da fare su questo terreno. Per questo stiamo facendo progetti con il ministero dell’ambiente. Se nel far crescere l’energia pulita in Cile abbiamo fatto molto, su questo abbiamo un forte ritardo.
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In Cile esiste un importante movimento in difesa dell’acqua pubblica che ha fatto nascere un gruppo, Modatima, che ha espresso anche una classe politica e di governo, come nel caso della Regione di Valparadiso. Cosa si potrebbe fare in Cile per difendere l’acqua pubblica in questo momento?
La prima cosa che ha fatto questo governo è stato dare questo compito alla ministra dell’ambiente, cosa che prima non accadeva. Ciò implica una pianificazione delle fonti e di come usare questa risorsa, prima di tutto sulla base del consumo umano, e solo successivamente pensare all’uso dell’acqua in altri ambiti. Questo cambiamento nell’approccio al tema, è ormai un fatto e una conquista di questo governo. Altre cose portate avanti in Cile, anche se sono meno visibili, sono, per esempio, il fatto che siamo un Paese minerario, e continueremo ad esserlo, oltre al fatto che il rame è importante per la lotta contro la crisi climatica, e nel 2025 il 90% dell’acqua che si userà nel sistema minerario verrà dall’oceano. Sarà acqua salata. Anche se ancora ci resta una percentuale che non si è adeguata, l’industria mineraria sta facendo una trasformazione importante che rendono compatibile l’industria mineraria con il problema dell’accesso alle fonti idriche che viviamo in questo Paese.
Pensa che l’attuale processo costituente, di cui avremo presto il risultato finale, ha aiutato la vittoria del Presidente Boric?
Ciò che è successo dal 2019 in poi?
Sì.
È difficile poterlo dire. Quando Boric era deputato, ossia durante il periodo dell’Estallido e poi nell’accordo che ci ha portati ad elaborare una nuova costituzione, la sua leadership è stata contestata subito. Si criticò il suo sforzo di dare una soluzione istituzionale alla crisi sociale e a questo processo. Sforzo che condivido. In quel momento, che era molto teso e in cui si stavano violando i diritti umani, quello sforzo si poteva interpretare come sostenere il governo in carica in quel momento. Ma non lo è stato. È stata, invece, una forma di canalizzare quella potente mobilitazione verso una trasformazione istituzionale del Paese. Prendersi cura del complesso istituzionale cileno attraverso la creazione di nuove istituzioni che avrebbero potuto elaborare tutto quello che stava succedendo in modo democratico ed ordinato. Credo che in quel momento, e per un lasso di tempo abbastanza lungo, la leadership di Boric è stata messa in discussione per questo. Esattamente per questo ha avuto una serie di difficoltà all’inizio della sua campagna per le presidenziali. Ecco perché la sua candidatura è stata percepita come debole e che non aveva reali possibilità di affermarsi. Progressivamente, però, questo processo costituzionale e l’istituzionalizzazione delle rivendicazioni di cambiamento sociale, sono state sempre più considerate da sempre più persone come positive, e alla fine da parte della maggioranza della popolazione. La prospettiva generale cambiò. Detto questo, è bene sottolineare come, dall’Estallido in poi, è diventato sempre più evidente che in Cile c’è bisogno di mettere in piedi un nuovo Patto sociale che assicuri i diritti sociali e si protegga maggiormente l’ambiente. La necessità di avviare dei cambiamenti strutturali nel Paese, che è nata con forza nell’Estallido, è sicuramente in sintonia con quello che nella candidatura, prima, e nella presidenza, poi, esprime il governo di Gabriel Boric.
Molti pensano che il governo Boric rappresenti i movimenti sociali del Paese. Lei che ne pensa?
Penso che i movimenti sociali debbano rappresentarsi da soli. Devono essere autonomi. Non credo che un governo debba avere nel suo seno i portavoce dei movimenti sociali. Quello che è sicuro, è che negli ultimi 20 anni in Cile c’è stato un insieme di movimenti sociali che hanno espresso rivendicazioni e un’agenda, che il nostro programma di governo raccoglie in buona parte. Quindi penso che il programma di governo sia l’espressione di un’accumulazione di rivendicazioni che, principalmente, mirano all’ampliamento dei diritti sociali e all’obiettivo che la nostra società sia ecologicamente equilibrata.
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Cosa può fare il ministero di economia (che si occupa della microeconomia, ndr), insieme al ministero di Hacienda (questo ministero si occupa della macroeconomia del Paese, ndr), affinché si cambi, in generale, l’economia neoliberista?
Ciò che facciamo è affrontare una triplice sfida. Ovviamente mi riferisco prima di tutto al ministero dell’economia, ma lo facciamo coordinandoci con Hacienda. Prima di tutto la crisi climatica, poi stagnazione produttiva e, infine, allargamento sostenibile dei diritti sociali. Affinché, in fondo, si migliori la qualità della vita di tutti. Questa triplice sfida richiede un ruolo dello Stato che sia capace di intervenire e articolare il processo economico: articolare l’economia pubblica e privata che abbia come obiettivo quello di realizzare un’economia verde. Nel caso dei diritti sociali comporta la creazione di una riforma tributaria, per raccogliere maggiori entrate dalle persone che guadagnano di più. Ma comporta, anche, fare una politica industriale più moderna. Il che significa che lo Stato avrà un ruolo rilevante nel disegno di politiche pubbliche che sviluppino certi settori produttivi in accordo alle sfide che esistono nel Paese. Ovvero, che esista una visione strategica e una strategia di sviluppo in cui lo Stato ha un ruolo di orientamento e articolazione. Questo si oppone alla visione radicale neoliberista che sostiene che tutto quello che bisogna fare è che il mercato sia disarticolato e decentralizzato rispetto allo Stato. La nostra è una economia di mercato dove rientra una visione del Paese e una capacità di rispondere alle sfide che ogni volta si devono affrontare, come lo sono lo sviluppo di un’economia verde, l’aumento della produttività e la diversificazione delle esportazioni cilene, il loro valore. Tutto questo implica poter affrontare delle sfide, il poter prendere delle decisioni. E farlo copiando pratiche e standard di altri Paesi del mondo. Tutto questo, nel suo complesso, è ciò che ho chiamato “politica industriale moderna”.
Per uscire dal neoliberismo si potrebbe pensare che si debba democratizzare l’economia? Nel caso fosse d’accordo, mi sembra che, per farlo, bisognerebbe entrare in conflitto con il mondo finanziario, per cambiarlo. Non è così?
Prima di tutto rispondo alla seconda parte della domanda. Non credo che per democratizzare l’economia dobbiamo entrare in conflitto con il mondo finanziario. Al contrario. Penso che ne abbiamo bisogno di un sistema finanziario che sia più paziente e in grado di muovere risorse per progetti e sfide che sono strategici per il nostro Paese e per realizzare l’economia verde. Questa è l’idea alla base della nostra “banca dello sviluppo”, che è un complemento al nostro sistema attuale che cerca, giustamente, che esista un movimento di risorse verso le grandi sfide che ho ricordato: fare una transizione che cambi tutto il nostro sistema energetico, che permetta di sviluppare l’idrogeno verde. Tutto ciò richiede molti investimenti e molte risorse. Quindi richiede un sistema finanziario che permetta di finanziare la nostra visione strategica. Questo implica che esista in Cile un settore strategico più paziente che attualmente non abbiamo, che non è sufficientemente sviluppato nel Paese, come invece altrove. Banche dello sviluppo esistono in molti Paesi, ma, per noi, l’esempio principale è quello tedesco. La riunificazione tedesca ha richiesto un grande sforzo di passare molte risorse economiche da un settore all’altro dell’economia. Lo stesso sta avvenendo oggi, nella transizione ecologica che sta vivendo oggi la Germania.
E sulla democratizzazione dell’economia cosa pensa?
Noi pensiamo che sia molto importante poter democratizzare tutti gli ambiti della vita collettiva, e quindi anche nell’ambito economico. In questo senso stiamo ponendo una grande attenzione a come si possono sviluppare le piccole imprese, generando le buone condizioni grazie a cui si possono realmente sviluppare, per evitare che diminuisca il loro ruolo economico. In secondo luogo stiamo facendo un grande sforzo per rafforzare il settore cooperativo, sottosviluppato nel nostro Paese. E ci stiamo preoccupando di fare entrare le donne in una percentuale maggiore nella direzione delle grandi imprese che, in una società di mercato, sono uno spazio importante di potere. Stiamo per approvare una legge in questo senso.
Nel caso si approvi la nuova costituzione, pensa che si potrà abbandonare più velocemente l’impianto economico neoliberista?
Effettivamente la nuova costituzione è più vicina alla tradizione del Welfare State. Credo che questo è l’essenziale, al di là degli aspetti più innovativi, come quello ecologico. È una costituzione in sintonia con una tradizione politica che permette che il Cile si allontani dal neoliberismo estremo che è entrato in questo Paese con gli anni ’80. Se si dovesse approvare la nuova Carta Magna, il Cile assomiglierà più al resto del mondo, di quanto non accada adesso.
Di quale parte del mondo?
Del mondo più sviluppato. Della tradizione europea che è nata nella seconda metà del XX secolo.
Se vincerà il “Rechazo” cambierà qualcosa rispetto ai vostri progetti? Sappiamo che non sarà indifferente per il governo Boric se questo succederà o meno.
Credo che, effettivamente, la nuova costituzione è rilevante perché potrebbe rendere più facile o perché potrebbe favorire l’agenda politica di questo governo. Tuttavia, sul piano economico, essa è meno rilevante. Tutta la nostra agenda, e parlo per questo ministero, si può realizzare sostanzialmente in ognuno dei due casi. Ossia, se vince o se perde la nuova proposta costituzionale. Al contrario di altre agende politiche di altri ministeri, che saranno favoriti sicuramente, nel caso dovesse vincere l’Apruebo.
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