Dopo i mesi di maggio e giugno, insolitamente piovosi, l’estate è appena scoppiata in Italia, (quasi) in coincidenza con il solstizio del 21 giugno. Ma nel resto d’Europa le alte temperature sono una realtà drammatica da più di due mesi. Secondo un recente studio dell’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) e dell’Osservatorio Copernicus, intitolato State of the Climate in Europe, l’Europa è il continente al mondo più direttamente colpito dal riscaldamento globale. Basti pensare che nel 2022 la temperatura media in Europa è stata di +2,3°C rispetto all’era pre-industriale, praticamente il doppio della media globale (+1,15°C). Senza considerare che il Mediterraneo è a sua volta un “hotspot climatico”, vale a dire un ulteriore acceleratore della crisi climatica.
“Sulla base delle informazioni contenute nella banca dati degli eventi di emergenza (EM-DAT) – si legge nella sintesi del report – i pericoli meteorologici, idrologici e climatici in Europa nel 2022 hanno provocato 16.365 vittime segnalate e hanno colpito direttamente 156mila persone. Circa il 67% degli eventi è stato correlato a inondazioni e tempeste, rappresentando la maggior parte dei danni economici totali di circa 2 miliardi di dollari. Molto più gravi, in termini di mortalità, sono state le ondate di caldo, che secondo quanto riferito hanno portato a più di 16mila morti in eccesso”.
Se il quadro appare già preoccupante, bisogna considerare che da qui ai prossimi cinque anni l’Europa e il mondo dovranno fare i conti con il ritorno de “El Niño”, quell’insieme di fenomeni atmosferici che si verifica periodicamente nell’oceano Pacifico e influenza il clima di gran parte del pianeta, portando tra le altre cose, indovinate un po’, a un altro aumento della temperatura media globale.
Di fronte a questo scenario così preoccupante, viene da chiedersi: gli Stati e le persone sono pronte ad affrontare una stagione che si preannuncia per l’ennesima volta torrida? È esattamente ciò che si chiede l’Agenzia Europea dell’Ambiente (European Environment Agency, d’ora in poi EEA) nel nuovo report. Che parte, appunto, da due domande: What could the summer bring? Is extreme weather the new normal?. Ma forse, più che chiederci se “il tempo estremo è la nuova normalità”, dovremmo partire da un assunto: seppur si annunci terribile, rischiamo di ricordare l’estate del 2023 come la più fredda dei prossimi anni. Un paradosso solo apparente, che però ci spinge a domandarci se saremo in grado di affrontare ciò che è facile immaginare da qui ai prossimi mesi. Già, cosa?
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Cosa dobbiamo aspettarci dall’estate 2023?
Il primo fenomeno a cui si pensa quando si ha a che fare con il forte caldo, o perlomeno quello più immediato, sono proprio le ondate di calore. Che stanno diventando sempre più frequenti, più lunghe e più intense. “Nell’Europa meridionale, in particolare, potrebbero esserci più di 60 giorni estivi – scrive l’EEA – durante i quali le condizioni sono pericolose per la salute umana, il che significa un numero maggiore di decessi e ricoveri ospedalieri aggiuntivi, soprattutto tra anziani e malati, a meno che non vengano prese misure di adattamento. Le ondate di calore sono gli eventi meteorologici estremi più mortali in Europa e la crescente vulnerabilità della popolazione europea a causa dell’invecchiamento e dell’urbanizzazione richiede l’attuazione urgente di misure per prevenire la perdita di vite umane”.
A preoccupare, poi, è il fatto che sempre più l’estate è la stagione degli incendi. Amplificati poi dal riscaldamento globale, per via dei periodi secchi e caldi con forti venti, che ne determinano l’intensità e l’impatto. “Gli incendi boschivi colpiscono in gran parte l’Europa meridionale, ma sempre più anche l’Europa centrale e persino settentrionale. Dal 1980, 712 persone hanno perso la vita in tutta Europa a causa dell’impatto diretto degli incendi. La stagione degli incendi del 2022 è stata la seconda peggiore dal 2000, con oltre 5.000 chilometri quadrati (il doppio dell’area del Lussemburgo) bruciati durante i mesi estivi (giugno, luglio, agosto) e un’area record di siti di protezione naturale Natura 2000 colpiti. Nello scenario del cambiamento climatico ad alte emissioni – scrive ancora l’Agenzia Europea per l’Ambiente – il sud dell’Europa, in particolare la penisola iberica, sperimenterà un marcato aumento del numero di giorni con un elevato pericolo di incendio. Il numero di persone che vivono vicino a terre selvagge ed esposte a livelli di pericolo di incendio da alto a estremo per almeno 10 giorni all’anno aumenterebbe di 15 milioni (+24%) nello scenario di riscaldamento globale di 3°C”.
Con l’arrivo dell’estate, poi, giunge pure, come già si è potuto notare in questi giorni, la proliferazione delle zanzare. Alcune specie portatrici di malattie sono già diffuse da tempo in Europa (come le zecche), mentre con altre stiamo imparando da poco a fare i conti (come la zanzara tigre, che ha diffuso in questo periodo una febbre particolarmente ostica). “Un clima più caldo – sostiene ancora l’EEA – significa che sia le specie endemiche che invasive possono diffondersi più a nord o essere presenti ad altitudini più elevate rispetto al passato. Si prevede che l’idoneità climatica per la zanzara tigre aumenterà in gran parte dell’Europa, specialmente nell’Europa occidentale, che potrebbe diventare un punto caldo per la zanzara entro la fine del secolo. La malaria potrebbe riemergere anche in Europa a causa della diffusa presenza della specie di zanzara Anopheles che può veicolare la malattia. L’aumento delle precipitazioni e la presenza di acqua stagnante crea più habitat per le zanzare e temperature più calde aumentano il tasso di punture di zanzare e lo sviluppo del parassita Plasmodium che causa la malaria”.
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L’importanza dell’adattamento
Alle calamità che abbiamo descritto, come è noto, si oppongono tra i 27 Stati membri i diversi sistemi di protezione civile. Ma, come spiega l’EEA, questo non basta. “La preparazione al cambiamento climatico a lungo termine richiede una preparazione sistematica della società – si legge ancora – La preparazione europea ai cambiamenti climatici è guidata dal quadro politico dell’UE, principalmente la strategia dell’UE sull’adattamento ai cambiamenti climatici e la legge dell’UE sul clima, e dalle politiche nazionali. Tuttavia, l’attuazione pratica delle misure avviene spesso a livello subnazionale. Pertanto, l’impegno degli enti locali e regionali per l’adattamento è fondamentale”.
Se è vero che tutti i 27 Stati membri dell’Unione europea prevedono politiche nazionali di adattamento – oltre a Islanda, Liechtenstein, Norvegia, Svizzera e Turchia – la vera differenza è nell’applicazione di tali politiche a livello locale, nonché piani specifici di adattamento per settori. In questo senso l’Italia è fortemente in ritardo, come ha mostrato purtroppo anche la tragedia avvenuta in Emilia Romagna. Il nostro Paese, infatti, attende ancora la versione definitiva del nuovo Piano nazionale di adattamento, attualmente ancora nella fase della Valutazione di Impatto Ambientale.
Il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica ha avviato infatti lo scorso 16 febbraio la fase di consultazione pubblica: da allora, però, nessuna novità è giunta, soltanto qualche promessa vaga del ministro Fratin, ma non una data precisa. Un vero peccato, specie se si pensa che la Strategia nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (SNAC) fu approvata a giugno 2015, da quel che ancora si chiamava ministero dell’ dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare. Nel frattempo da allora si sono susseguite ben 7 COP, cioè le Conferenze per le Parti, gli incontri annuali sul clima che si tengono sotto l’egida delle Nazioni Unite: dalla storica Cop21 di Parigi, che si impegnava a a mantenere l’innalzamento della temperatura sotto i 2° e – se possibile – sotto 1,5° rispetto ai livelli pre-industriali, fino alla prossima Cop28 a Dubai. Alla luce dell’ennesima estate torrida che ci attende, sarebbe convenuto arrivare con qualche strumento in più.
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