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sabato, Dicembre 14, 2024

Bioplastica riciclata con l’umido? Secondo Greenpeace è “greenwashing di Stato”

La denuncia in un report presentato ieri: “Altro che compost: la maggior parte finisce in discarica o a incenerimento”. La replica di Assobioplastiche e Biorepack: “Argomenti artificiosamente infondati”

Daniele Di Stefano
Daniele Di Stefano
Giornalista ambientale, un passato nell’associazionismo e nella ricerca non profit, collabora con diverse testate

La gestione italiana della plastica compostabile giunta a fine vita (che come sappiamo viene raccolta con l’umido) è un modello in Europa. Oppure no? Stando ad una nuova indagine dell’unità investigativa di Greenpeace Italia sarebbero diverse le problematiche legate alla gestione dei rifiuti derivanti da prodotti in plastica compostabile (shopper, imballaggi, stoviglie,…): la gran parte dei quali non verrebbero riciclati come crediamo ma finirebbero in discarica o a incenerimento. Tanto da spingere Giuseppe Ungherese, responsabile campagna inquinamento dell’associazione, a parlare di “greenwashing di Stato”. Una denuncia dirompente che spinge Assobioplastiche, Associazione italiana delle bioplastiche e dei materiali biodegradabili e compostabili, e Biorepack, Consorzio per il riciclo organico degli imballaggi in plastica biodegradabile e compostabile, a pubblicare un avviso a pagamento sui principali quotidiani nazionali e a parlare di “un’indagine parziale e superficiale” e di “argomenti artificiosamente infondati”

Proviamo a ricostruire.

Bioplastica nell’umido

Partiamo intanto dalle definizioni. Bioplastica, secondo Biorepack, è “un materiale, derivato da fonti rinnovabili o di origine fossile, che ha la caratteristica di essere biodegradabile e compostabile in conformità allo standard europeo armonizzato EN 13432 e/o EN 14995”. Per la legge italiana i rifiuti di bioplastica compostabile devono essere conferiti e riciclati nella raccolta differenziata dell’umido.

Proprio questa, secondo Greenpeace, sarebbe una prima anomalia. “La maggioranza dei Paesi chiede ai cittadini di non mettere nell’umido gli imballaggi e i prodotti usa e getta fatti in plastica compostabile”, spiega a Greenpeace Stefanie Siebert, Direttrice esecutiva di ECN (European Compost Network), che raccoglie le organizzazioni e gli impianti che in Europa trattano i rifiuti organici. Questo, chiarisce Greenpeace, accade per esempio in Germania, Francia, Belgio, Olanda, Regno Unito, “dove non viene chiesto ai cittadini di gettare la plastica compostabile rigida nell’umido”. La precisazione dell’associazione – “rigida – rivela che le critiche del report si appuntano non tanto sugli imballaggi leggeri ma sui manufatti rigidi come piatti, bicchieri, posate. Non ci viene detto però quanta parte dei rifiuti in bioplastica siano ridigi.

Secondo Assobioplastiche e Biorepack, invece, “la raccolta dell’umido con le bioplastiche è espressamente prevista dalle normative europee (direttiva 2008/98/CE come recentemente modificata dalla direttiva UE 851/2018). Altri Paesi come Austria, Francia, Spagna, Germania hanno adottato normative specifiche a favore delle bioplastiche”.

Le citate direttive (Articolo 22, Rifiuti organici) fissano l’obbligo della raccolta differenziata e del riciclo, stabilendo che “gli Stati membri possono consentire che i rifiuti aventi analoghe proprietà di biodegradabilità e compostabilità che rispettino le norme europee o le norme nazionali equivalenti, per imballaggi recuperabili mediante compostaggio e biodegradazione, siano raccolti insieme ai rifiuti organici”. Una possibilità, dunque.

In Italia la quantità di plastiche compostabili nella raccolta degli scarti di cucina è lievitata negli ultimi anni, spiega l’associazione ambientalista citando uno studio del Consorzio Italiano Compostatori (CIC) e di Corepla, passando dall’1,5% (2016-2017) al 3,7% (2019-2020) del totale dell’umido. Vero è che, come si legge nel report CIC-Corepla, “si tratta quasi esclusivamente di bioplastica flessibile e gli imballaggi rappresentano il 70% dei manufatti in bioplastica presenti nell’umido”.

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I risultati dell’indagine

“Nonostante le rassicuranti certificazioni UNI EN 13432 e UNI EN 14995, anche nell’ipotesi di un loro ‘corretto’ conferimento – leggiamo nel report di Greenpeace – la maggior parte dei rifiuti organici in Italia finisce in impianti che non sono in grado di trattare efficacemente i materiali in plastica compostabile, che finiscono in inceneritore o in discarica, in barba alla loro presunta ‘sostenibilità’”. Greenpeace ricorda come diversi impianti in tutta Italia da anni segnalano alle autorità la difficoltà nel gestire il flusso. In particolare “tutti gli impianti contattati da Greenpeace Italia segnalano problematiche nel trattare i prodotti usa e getta in plastica compostabile”. L’associazione non indica quanti e quali impianti siano stati contattati (nel report si citano testimonianze di Alia Servizi Ambientali SpA in Toscana, impianti Montello in provincia di Bergamo, Eco Center in Alto Adige). Tuttavia cita a sostengo documenti e dichiarazioni di Utilitalia, la federazione che riunisce le aziende operanti nei servizi pubblici della gestione di rifiuti, acqua, ambiente, energia elettrica e gas: “Gli impianti oggi esistenti – si legge in La gestione e il recupero delle bioplastiche, a cura di Utilitalia –  sono stati progettati per trattare prevalentemente rifiuti biodegradabili di cucine e mense o di giardini e parchi; non certo bioplastiche”. È una questione di tempi: la bioplastica rigida ha tempi di degradazione maggiori di quelli dell’umido, soprattutto in impianti non modernissimi. Spiega poi il direttore Utilitalia Luca Mariotto: “È difficile quantificare quanti siano, in Italia, gli impianti in grado di trattare efficacemente le plastiche compostabili: sicuramente meno della metà, ma la legge di questo non ha tenuto conto. Così si è ampliato il disallineamento tra quanto stabilisce la legge, quel che è un risultato di laboratorio, quel che crede il consumatore e quel che avviene realmente negli impianti”.

Per smontare le tesi di Greenpeace, Assobioplastiche e Biorepack portano un documento del Consorzio italiano compostatori (CIC): “L’impiantistica dedicata al riciclo dei rifiuti organici si conferma come una filiera qualificata ed efficiente nella gestione degli imballaggi in plastica biodegradabile e compostabile”. Si parla, dunque, di imballaggi e non di altri manufatti.

Nell’avviso a pagamento leggiamo anche un passaggio che, mentre replica all’allarme di Greenpeace sui problemi nella gestione delle bioplastiche, mette in luce  problemi più ampi nella gestione dell’umido: “Occorre piuttosto interrogarsi su quegli impianti che seguono cicli di riciclo organico troppo brevi, hanno un umido troppo inquinato da materiali non compostabili (e quindi finiscono per scartare anche matrici compostabili) così come sugli impianti cha hanno scientemente deciso, per massimizzare la produzione di biogas, di selezionare solo alcune matrici da trattare, scartando tutto il resto (sia umido che bioplastiche)”.

Questione di digestione anaerobica

Greenpeace ricorda come, stando ai dati del Catasto rifiuti di ISPRA, gli impianti che trattano la maggioranza dei rifiuti organici domestici (il 63%) non sono quelli di compostaggio, ma quelli per la digestione anaerobica (in cui i batteri che decompongono le sostanze lavorano in assenza di ossigeno). “Peccato – sottolinea Greenpeace – che sia proprio quest’ultima tipologia di impianti ad avere i maggiori problemi a trattare la ‘plastica green’”. Citando a riguardo ancora Utilitalia che segnala come “i trattamenti di sola digestione anaerobica risultano praticamente inefficaci rispetto all’adeguata degradazione di questo tipo di materiali”. A supporto vendono chiamati anche accademici come Sergio Ulgiati, chimico e professore di Analisi del ciclo di vita e Certificazione ambientale presso l’Università Parthenope di Napoli: “I problemi maggiori sono negli impianti integrati e anaerobici: strutturalmente gli impianti anaerobici e misti non sono in grado di degradare la plastica compostabile”. Peraltro ancora Utilitalia ci ricorda che lo standard UNI EN per la compostabilità “richiede la sola valutazione della biodegradabilità in presenza di ossigeno, mentre non è necessario testare il comportamento in condizioni anaerobiche”. La risposta di Assobioplastiche e Biorepack passa ancora per documenti del CIC: “La quasi totalità degli impianti […] accetta e gestisce senza alcun problema la presenza di manufatti in plastica compostabile, sia nel caso di processi biologici di solo compostaggio che nei processi integrati digestione/compostaggio”. In questo caso i compostatori parlano non solo di imballaggi ma anche di manufatti nel loro complesso (quindi potenzialmente anche di piatti e bicchieri, ad esempio), ma certificano anche che gli impianti che in Italia li gestiscono correttamente non sono la totalità.

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I laboratori

Proprio quello dei laboratori dove si verifica la rispondenza alle norme UNI EN sulla compostabilità è un altro nodo al centro della denuncia di Greenpeace: i test usati nei laboratori per verificare la rispondenza alle norme UNI non rifletterebbero quanto accade poi negli impianti di trattamento. Ancora Utilitalia, citata nel report: “Le certificazioni fatte in laboratorio, che dovrebbero garantire che le plastiche compostabili in commercio si biodegradano, non sempre riproducono correttamente le condizioni che si trovano negli impianti”.

Una prima questione è la quantità di bioplastiche sul totale del rifiuto trattato. Spiega Greenpeace: i test di laboratorio, per misurare la compostabilità della bioplastica, ipotizzando che questa costituisca l’1% del totale del rifiuto umido. Abbiamo visto invece (studio CIC-Corepla) che nel 2020 aveva già raggiunto il 3,7% del totale.

Seconda questione, le dimensioni. Sara Daina del CSI, uno dei laboratori per i test di compostabilità e biodegradabilità, spiega che la norma richiede ai laboratori di fare i test su campioni in plastica compostabile interi se il prodotto è di piccole dimensioni (ad esempio una cialda di caffè), oppure di tagliarli in pezzi se il prodotto è di dimensioni maggiori (come piatto o bicchiere usa e getta). Tutto questo, ovviamente, nella vita reale non accade, perché nessuno di noi sa dell’esigenza di sminuzzare la bioplastica più rigida. “Nella disparità tra quel che è testato in laboratorio e quel che sono in grado di realizzare gli impianti si racchiude gran parte del problema”, spiega Ugo Bardi, chimico e docente presso l’Università di Firenze, a Greenpeace.

Non esiste alcuno scollamento”, affermano invece Assobioplastiche e Biorepack: “Le certificazioni sono al contrario un presidio fondamentale di riciclabilità”.

La vagliatura

Altro elemento centrale nell’analisi dell’associazione è la vagliatura. Parte degli impianti di compostaggio (la maggior parte, secondo Greenpeace) prevede per i rifiuti in ingresso uno o più sistemi di vagliatura che appunto ‘setacciano’ i rifiuti eleminando alcune frazioni, in particolare quelle di grandi dimensioni, presunte estranee.

“Ogni volta che vi è una vagliatura in ingresso, buona parte dei manufatti in plastica compostabile, soprattutto la rigida, finisce nello scarto. E questo scarto nel nord Italia va soprattutto a recupero energetico, nel centro-sud in discarica”, spiega ancora Luca Mariotto, direttore Utilitalia.

Di tutt’altro avviso CIC, Assobioplastiche e Biorepack: gli impianti di riciclo organico che non trattano le bioplastiche compostabili rappresentano “poche eccezioni dovute a particolati sistemi di pretrattamento”.

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Il monouso

L’obiettivo polemico di Greenpeace non sono tanto i prodotti in bioplastica in sé, quanto la sostituzione, concessa con il recepimento italiano della direttiva SUP (Single Use Plastics), del monouso in plastica tradizionale con quello in plastica compostabile. “Come emerge dalla letteratura internazionale, i maggiori benefici ambientali si ottengono abbandonando l’usa e getta, indipendentemente dalla tipologia di materiale” afferma Ungherese. Autorizzare, con il recepimento della direttiva, il monouso in bioplastica è, continua, “una scelta ancora più grave visti i problemi di trattamento di tali materiali a fine vita che emergono dall’inchiesta: siamo di fronte a un greenwashing di Stato, che si trasforma in una truffa nei confronti della collettività. Mentre il resto dell’Europa va verso soluzioni basate sulla dematerializzazione del packaging e sull’impiego di prodotti durevoli e riutilizzabili, conformemente alla gerarchia europea di gestione dei rifiuti, qui si incentiva il monouso in plastica compostabile”.

Non sono ovviamente d’accordo Assobioplastiche e Biorepack: “L’Italia, come dimostra il caso della normativa sui sacchetti incentrata proprio sul binomio riutilizzabili/compostabili, ha già ridotto il monouso di circa il 70% – passando dalle 227.000 tonnellate di sacchetti del 2007 alle 74.500 tonnellate del 2020 (dati Plastic Consult)”. Dunque, “lo stesso potrà quindi accadere con le stoviglie compostabili”. Inoltre, aggiungono, “nessun attore della filiera delle bioplastiche in Italia ha mai promosso la sostituzione 1:1 della plastica monouso con la bioplastica monouso, piuttosto si sono promossi quei prodotti (sacchetti, stoviglie, imballaggi alimentari, etc.) pensati come specifiche soluzioni ai problemi cagionati dalla presenza nell’umido di materiali non compostabili”.

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