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lunedì, Dicembre 9, 2024

Bioplastiche, il grande inganno? L’inchiesta di Time svela il reale apporto delle alternative alla plastica

Un’inchiesta giornalistica di Time e del Pulitzer Center’s Ocean Reporting Network getta ombre sulle plastiche alternative. Sono migliori delle plastiche tradizionali, ma non risolvono il problema dell’inquinamento perché non sono davvero così biodegradabili. E contribuiscono ugualmente alle emissioni

Tiziano Rugi
Tiziano Rugi
Giornalista, collaboratore di EconomiaCircolare.com, si è occupato per anni di cronaca locale per il quotidiano Il Tirreno Ha collaborato con La Repubblica, l’agenzia stampa Adnkronos e la rivista musicale Il Mucchio Selvaggio. Attualmente scrive per il blog minima&moralia, dove si occupa di recensioni di libri. Ha collaborato con la casa editrice il Saggiatore e con Round Robin editrice, per la quale ha scritto il libro "Bergamo anno zero"

Le alternative alla plastica non sono la panacea al problema all’inquinamento e alle emissioni di CO2 causati dalla plastica convenzionale. Non è incoraggiante il quadro che emerge dall’inchiesta di Time sul reale apporto di utensili biodegradabili, involucri compostabili, bottiglie in plastica vegetale e piatti in fibra compressa. Ci sono ostacoli talmente grandi da arrivare alla conclusione che sacchetti di plastica compostabili e posate monouso biodegradabili potrebbero causare all’ambiente gli stessi danni della plastica.

Se teoricamente sono migliori, nella realtà rischiano di restare nell’ambiente al pari della plastica, perché manca l’infrastruttura per garantire che si biodegradino o compostino. Inoltre, la maggior parte delle plastiche a base vegetale sono, a livello molecolare, identiche alle sorelle di origine fossile e durano altrettanto a lungo nell’ambiente. Altri sostituti, invece, richiedono parecchi dei soliti additivi chimici tossici delle plastiche convenzionali per mantenerli impermeabili, flessibili e resistenti.

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Biodegradabile e compostabile: facciamo chiarezza

I termini “biodegradabile” e “compostabile” sono spesso interpretati erroneamente, nel senso che i prodotti si degradino nell’ambiente in modo naturale, il che è raramente vero. Per soddisfare lo standard di compostabilità, il 90% di un adesivo PLU, o di una forchetta in bioplastica, per esempio, deve decomporsi tra i sei e i ventiquattro mesi, in condizioni di calore e umidità attentamente regolati.

Ma se si getta una forchetta biodegradabile nell’ambiente, potrebbe resistere quasi quanto le tipiche posate di plastica. In uno studio del 2019, i ricercatori hanno lasciato sacchetti di plastica compostabili sepolti nel terreno o immersi in acqua di mare per tre anni. Dopo questo periodo, alcuni dei sacchetti erano abbastanza intatti da poter trasportare lo stesso carico di generi alimentari. Ciò significa che, senza un sistema globale di raccolta e trattamento, gli imballaggi biodegradabili non sono particolarmente migliori per l’ambiente.

Inoltre, in un impianto di compostaggio, i batteri usano l’ossigeno per scomporre i materiali organici in carbonio. Invece, nell’ambiente a basso contenuto di ossigeno di una discarica, il materiale decomposto crea metano, un gas a effetto serra venticinque volte più potente del carbonio. Quindi è fondamentale che le plastiche alternative non finiscano in discarica, altrimenti i danni sarebbero persino maggiori dal lato emissioni. Eppure, arrivare a questo risultato non è semplice come sembra.

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Il problema del riciclo

Il polietilene tereftalato, la plastica PET utilizzata per la maggior parte delle bottiglie o di altri imballaggi monouso, è prodotto usando combustibili fossili, ma, con un processo simile alla trasformazione del mais in etanolo, può essere prodotto anche dalle piante. Le versioni a base vegetale e a base fossile sono chimicamente indistinguibili, ed entrambe possono essere riciclate.

Questa bioplasatica non può finire tuttavia nel bidone dell’umido come altre tipologie di bioplastiche, ma c’è il pericolo che la maggior parte dei consumatori non lo sappia. Per la stessa ragione, consumatori meno avveduti, possono gettare sacchetti compostabili nei cassonetti della plastica, perché questi imballaggi sono molto simili a quelli in polietilene. Una soluzione potrebbe essere rendere obbligatorie etichette ancora più chiare e fare maggiore informazione, ma al momento questa realtà sta causando un mare di problemi.

Se la plastica finisce nel compost, l’impianto non può venderla, con un notevole danno economico. E quando gli imballaggi compostabili finiscono in un impianto di riciclaggio, possono intasare i macchinari o, a seconda di come vengono prodotti, contaminare il successivo lotto di plastica riciclata. Perciò molte aziende negli Stati Uniti si rifiutano di accettare le bioplastiche nei loro impianti di riciclo. Questo, però, significa una sola cosa. il Paese sta producendo un numero di imballaggi, piatti e contenitori da asporto compostabili di gran lunga superiore alle capacità di trattamento.

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La verità dei fatti: il carbonio è carbonio

C’è, inoltre, una scomoda verità che emerge dall’inchiesta di Time. Molti prodotti compostabili sono ancora parzialmente ricavati da combustibili fossili. Esiste la tecnologia per realizzare plastica completamente compostabile e a base vegetale, ma farlo è molto più costoso delle plastiche convenzionali e non sempre è una soluzione efficace, soprattutto se la bioplastica viene utilizzata per confezionare alimenti acidi, liquidi o che richiedono una conservazione a lungo termine.

Ciò che conta nella plastica biodegradabile è la configurazione delle lunghe catene polimeriche che compongono la plastica, indipendentemente dalla fonte di carbonio: inserendo molecole di ossigeno al posto giusto con l’aiuto di un additivo chimico, si apre la strada ai microbi che accelerano la decomposizione. Quindi è possibile miscelare plastiche di origine vegetale e di origine fossile per creare un prodotto compostabile con minori costi di produzione e migliori prestazioni: in questo modo si contribuisce a diminuire l’inquinamento da plastica, ma non si risolve il problema delle emissioni di carbonio.

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L’inquinamento degli oceani: l’elefante nella cristalleria

Come le plastiche convenzionali, sia le versioni a base vegetale che quelle biodegradabili, indipendentemente dalla loro origine, necessitano comunque di additivi chimici per contribuire alla durata, alla resistenza al fuoco, all’impermeabilità e alla resistenza dei colori. I piatti, le ciotole e le tazze in fibra compressa e carta sono spesso rivestiti con una pellicola di plastica. Questi additivi potrebbero essere tossici per la salute umana e pericolosi per l’ambiente, ma ancora ci sono pochi studi. Alcuni ricercatori, inoltre, stanno cercando di capire come il processo di disgregazione delle plastiche biodegradabili possa influire sull’ecosistema marino.

Pesci e crostacei scambiano i frammenti per prede al pari delle plastiche, mentre le sostanze chimiche rilasciate nel processo di disgregazione potrebbero avere conseguenze impreviste su varie forme di vita oceanica, compresi i coralli. Se, da un lato, è innegabile che i materiali biodegradabili contribuiscano a ridurre l’impatto dei rifiuti di plastica nell’oceano, bisogna quindi essere sicuri che questi materiali e le sostanze chimiche che contengono abbiano un impatto minimo o nullo sugli organismi e sugli ecosistemi.

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Nuove possibilità e problemi produttivi

Uno dei più promettenti sostituti della plastica sono i poliidrossialcanoati, o PHA, che si ottengono facendo fermentare gli zuccheri vegetali provenienti da barbabietole, mais e altri scarti vegetali, o anche dal biogas delle discariche, in un processo simile alla produzione di birra. Al pari di altri polimeri naturali come la seta o la cellulosa, i prodotti in PHA si degradano in componenti non tossici nel giro di pochi mesi. Possono anche essere sminuzzati, fusi e trasformati in nuovi prodotti. Diversi tipi di batteri, alcuni presenti in natura, altri specificamente ingegnerizzati, vengono utilizzati al posto degli additivi chimici per creare proprietà come la flessibilità e la trasparenza.

Secondo i chimici specializzati, la maggior parte delle plastiche convenzionali potrebbero teoricamente essere sostituite dal PHA, ma le sue qualità biodegradabili sono più adatte agli articoli monouso. Inoltre, la produzione di PHA è attualmente costosa e richiede molto tempo: la capacità globale al giorno d’oggi è di 100.000 tonnellate all’anno, rispetto ai 430 milioni di tonnellate di plastica convenzionale prodotti nello stesso arco temporale. Infine, anche chi si occupa di produrre PHA ammette che in futuro potrebbero emergere altri inconvenienti ancora da scoprire.

Bisogna prepararsi per usare le plastiche alternative

In conclusione, le plastiche alternative potrebbero inserirsi perfettamente nelle catene di approvvigionamento esistenti, senza richiedere alcun sacrificio da parte dei consumatori Ma la produzione è limitata ed è più costosa della plastica convenzionale. In pratica, l’offerta globale di materiali alternativi non è sufficiente a sostituire la quantità di plastica monouso prodotta oggi. Eppure, allo stato attuale, questo potrebbe essere un bene.

Le bioplastiche non avranno un effetto benefico sull’ambiente e sulle emissioni a meno che il loro utilizzo non sia accompagnato da un aggiornamento degli attuali sistemi di raccolta dei rifiuti, dallo sviluppo di nuovi impianti di compostaggio e affiancato da una costante ricerca scientifica. Prima di effettuare un passaggio completo alle bioplastiche, le autorità devono quindi affrontare sfide diverse, che vanno dall’educazione dei cittadini alle infrastrutture per il recupero dei rifiuti fino agli incentivi economici per la fase di transizione.

Finché non siamo pronti, i nuovi materiali sposterebbero solo l’impatto ambientale in un’altra direzione, senza risolvere il problema alla base della plastica. Che è il modo in cui pensiamo i nostri beni, in maniera usa e getta. Passare dal modello lineare a un modello di economia circolare, in cui i beni sono riutilizzabili e facilmente riciclabili e non sono progettati per finire in discarica, è l’unica soluzione di lungo periodo. Tuttavia, in questo percorso, vietare gli imballaggi in plastica monouso è essenziale e qui potrebbero inserirsi le bioplastiche e altri prodotti sostitutivi, con minore impatto ambientale, climatico e sulla salute umana.

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