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Prima ancora di nascere, il “Tavolo permanente per il partenariato economico, sociale e territoriale” del Pnrr è già un’occasione mancata.
Lo scorso 28 settembre, molti mesi dopo il suo primo annuncio ufficiale, il premier Mario Draghi ha detto che “a breve” verrà definito questo organo di governance. L’unico, nei fatti, a contemplare la presenza della società civile organizzata nel Piano di allocazione delle risorse europee.
Attorno al Tavolo ci saranno praticamente tutti coloro che si pensa rappresentino le istituzioni più rilevanti della società italiana: rappresentanti di non bene specificate “parti sociali”, il “sistema dell’università e della ricerca”, membri della “società civile”, della “cittadinanza attiva” e degli “enti locali”, oltreché ovviamente del governo, delle regioni e niente di meno che di “Roma capitale”. Staremo a vedere cosa ne uscirà fuori. Staremo a vedere, appunto, come sempre.
Totale mancanza di partecipazione
Già, infatti la musica che si suona, da parte di questo come dei governi precedenti, non cambia. Sino ad oggi non c’è stato modo di invertire la rotta nella gestione e nella progettazione pubblica. Infatti, ciò che sin dall’inizio è stato certo, purtroppo, è che il Tavolo resterà uno strumento meramente consultivo. Ovvero, avrà un potere estremamente limitato sull’indirizzo e sulle modalità di gestione dei fondi. Nel caso lo si ritenesse necessario, eventualmente, la Cabina di regia del Pnrr, vero luogo politico decisionale degli investimenti, potrà anche consultare singolarmente gli attori sociali che partecipano al Tavolo. Confermando così, per chi non l’avesse ancora capito, la logica top-down che segna profondamente tutto l’impianto degli investimenti.
Pochi si sarebbero aspettatati che il governo accettasse e assumesse le critiche che da questa rivista, così come da diverse autorevoli fonti della società civile organizzata, sono state mosse subito a questa logica sbagliata, per nulla circolare. Da un lato, avremmo peccato di superbia nel ritenerci tanto influenti ma anche di estrema ingenuità, dall’altro, nel sopravvalutare la capacità di attenzione del governo sui processi di partecipazione democratica. Se, in un primo momento, abbiamo visto una totale mancanza di democraticità nell’individuare le priorità di spesa del Pnrr, ormai questa emerge con tutta la sua evidenza negli strumenti adottati per la sua realizzazione.
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La circolarità come nuovo paradigma di organizzazione sociale
Come sa chi ha seguito il dibattito che abbiamo aperto pubblicamente sul Pnrr, tutto ciò è stato lo spunto per riflettere ad alta voce sulla crisi della politica (Petrucciani), sull’intimo legame tra questione ecologica e questione democratica (Sclavi, Casillo), e sulle possibilità democratiche che abbiamo per cambiare il paradigma con cui è organizzato il potere politico oggi (Allegretti, Sintomer). Tre dimensioni intrecciate tra loro, ognuna delle quali permette di comprendere l’importanza di mettere al centro della trasformazione e dell’organizzazione della società la “circolarità”, per farla uscire dall’angusto recinto dove di solito viene collocata quando si parla di ciclo dei rifiuti. Per guardare alla circolarità come al paradigma di riferimento per una nuova partecipazione alla sfera pubblica, per coniugare la vita sociale con i contesti ecologici in cui siamo immersi nella vita di tutti i giorni.
Ma quali sono le caratteristiche principali che risaltano se la consideriamo come un vero e proprio paradigma alternativo per le nostre società democratiche? Come pensare la partecipazione da questa prospettiva?
Grazie alla riflessione e alla filosofia di alcuni importanti pensatori contemporanei, possiamo avanzare una prima idea per orientarci nella realizzazione di una società democratica organizzata ecologicamente. Perché il grave errore politico che si sta per compiere con il Pnrr diventi la preistoria di un nuovo mondo.
Complessità, responsabilità, potere
Come dobbiamo intendere, quindi, la partecipazione come circolarità? Come ci insegna l’ormai centenario “filosofo della complessità” Edgar Morin, qualsiasi logica ecologica che si rispetti deve tener presente il continuo rimandarsi tra i diversi livelli dell’organizzazione della vita organica. Ricorsività e circolarità, in altri termini, definiscono in profondità le dinamiche vitali dell’eco-organizzazione del vivente. Diversità-complessità-spontaneità-organizzazione, in particolare, costituiscono le dimensioni cardinali di un ciclo necessario e virtuoso grazie al quale qualsiasi organismo vivente è in grado contemporaneamente di conservarsi e di cambiare.
Ecco allora che, grazie a Morin, possiamo vedere un primo aspetto del paradigma della circolarità intesa come partecipazione: come accade per gli organismi viventi, anche nell’organizzazione umana, dal livello del piccolo gruppo a quello della società e del mondo, il nostro modo di associarci deve permettere complesse reti di trasformazione-conservazione che rispondano, da un lato, alla necessità di farci carico della nostra imperfezione costitutiva (le nostre enormi mancanze e fragilità che, come specie animale, esprimiamo in termini di incapacità e insufficienze di ogni tipo), e, dall’altro lato, di investire nella centralità che l’autonomia umana ha se vogliamo cambiare (possibilità che nelle società democratiche non deve essere solo difesa ma va valorizzata, pena la sua scomparsa).
Partecipare alla vita sociale in modo circolare significa collocarci nella complessità tipica dell’eco-organizzazione, che non può fare a meno di strutturare la diversità e la spontaneità creativa che segna il vivente, e quindi anche la nostra specie, all’interno di un’organizzazione dinamica ed aperta. “La riorganizzazione permanente è contemporaneamente una riproduzione permanente di ordine” scrive Morin ne “Il pensiero ecologico” (Hopefulmonster, Firenze 1988). Ed aggiunge: “la virtù suprema dell’eco-organizzazione non è la stabilità, bensì la capacità di costruire stabilità nuove. L’eco-organizzazione è capace di evolvere sotto l’irruzione perturbatrice del nuovo, e questa sua capacità evolutiva è ciò che consente alla vita non soltanto di sopravvivere ma anche di svilupparsi, o meglio di svilupparsi per sopravvivere”.
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Tuttavia, se la complessa circolarità tra trasformazione e organizzazione non viene messa al centro delle nostre azioni e delle nostre istituzioni, è impossibile sviluppare il cuore di questo movimento circolare: l’autonomia umana. Ma come possiamo pensare l’autonomia come partecipazione circolare? Ecco che ci viene in soccorso uno dei pensatori che maggiormente ha approfondito le possibilità dell’autonomia umana nel secolo scorso: Cornelius Castoriadis. Amico stretto di Morin, questo filosofo ha sostenuto l’idea che la specie umana è prima di tutto una specie sommamente creativa per via della sua sproporzionata capacità immaginativa, sia a livello individuale sia a livello collettivo. La creazione umana non è, quindi, qualcosa che riguarda solamente il lato estetico dell’esistenza, ma la stessa condizione dell’esistenza. È un processo complesso dove non è possibile, in ultima istanza, imputare a qualcuno o a qualcosa il primato della novità nell’organizzazione sociale. L’autonomia è quella capacità individuale e collettiva di darci le nostre regole sapendo di farlo.
In questo senso, se il motore della trasformazione circolare è la valorizzazione dell’autonomia umana, allora ciò significa che partecipare all’organizzazione sociale significa sapere che la stiamo contemporaneamente riorganizzando e conservando. Per darci continuamente le nostre norme dobbiamo sapere, prima di tutto, che lo stiamo facendo, per non arrestare la vitale circolarità organizzativa. Ma cosa significa esserne consapevoli se non che ci si assume la responsabilità delle nostre scelte e delle regole che noi stessi ci diamo ogni volta in un contesto mutevole? E come si traduce questa responsabilità, se non, come sostiene lo stesso Castoriadis, permettendo che le istituzioni sociali vengano decise da tutti e che tutti possano partecipare al potere politico?
“L’autotrasformazione della società riguarda il fare sociale, e quindi anche politico, nel senso profondo del termine, degli uomini nella società, e null’altro. Il fare pensante e il pensiero politico – il pensare la società come facentesi – ne sono una componente essenziale” (L’istituzione immaginaria della società, Ed. du Seuil, Parigi 1975), amava ripetere in diversi modi Castoriadis. La responsabilità è al cuore della nostra capacità di trasformarci, là dove siamo consapevoli della circolarità profonda che si dà nella nostra partecipazione a questa stessa trasformazione. Circolarità tra noi e il contesto di regole in cui decidiamo di vivere, di cambiare e di conservare.
Ma proprio questa circolarità ne richiama immediatamente un’altra. La sfera pubblica, così intesa, è quindi il rimando continuo tra individuo e collettività. A differenza di quello che affermano alcune posizioni liberali, il potere sociale è prima di tutto il rimando continuo tra i singoli e il contesto sociale. Come ricordava Hannah Adrendt prima di Castoriadis, il singolo può affermarsi pubblicamente nella sfera politica, che non è il luogo dell’intimità soggettiva o affettiva, né semplicemente della decisione sociale, ma proprio della costruzione dell’identità umana. Questo rimando circolare tra individuo e collettività è ancora più chiaro quando analizziamo uno degli aspetti costitutivi della società umana e in particolare della sfera politica propriamente detta: il potere.
Per Arendt, il potere è la capacità di fare insieme agli altri, e deriva dal fatto stesso della convivenza, del vivere insieme. L’unica sua vera legittimazione è proprio questa capacità comune. Nel momento in cui non ci troviamo in questo ambito dove la partecipazione è profondamente circolare, perché senza permettere agli altri di avere potere e di parteciparvi, noi stessi non riusciremo a sviluppare la nostra capacità di potere, di modificarci così come di organizzarci. Finiremmo per agire in modo violento, rompendo la circolarità intrinseca che la dimensione del potere conserva necessariamente. Partecipare circolarmente al potere significa farlo in modo nonviolento. “Il potere e la violenza sono opposti; dove l’una governa in modo assoluto, l’altro è assente. La violenza compare dove il potere è scosso, ma lasciata a se stessa finisce per far scomparire il potere. La violenza può distruggere il potere; è assolutamente incapace di crearlo” (Sulla violenza, Guanda, Parma 1996), afferma senza ambiguità la filosofa tedesca.
Così, grazie a questi tre pensatori, possiamo provvisoriamente arrivare ad una prima considerazione circa la circolarità come partecipazione: la complessità dell’eco-organizzazione umana implica la responsabilità portata dal nostro agire autonomo e comporta un potere nonviolento che permette a tutti di partecipare a tutti i livelli dell’ordinamento sociale e politico.
La duplice circolarità organizzativa
Una volta chiarito il perimetro ideale all’interno del quale poter definire la circolarità come partecipazione all’organizzazione sociale, è bene fare una distinzione ulteriore, grazie a questa domanda: quali sono i processi circolari nelle organizzazioni sociali?
Ad un primo sguardo, possiamo sostenere che, anche sulla base di quanto afferma la teoria dell’organizzazione a livello sociologico (Mary Jo Hatch, Ann L. Cunliffe, Il Mulino, Bologna 2013), il paradigma della circolarità non rientra nei modelli organizzativi sin qui conosciuti (modernista, simbolico, postmoderno), anche perché non si riferisce solo alle organizzazioni sociali, ma anche e più generalmente all’organizzazione della società come tale. Ossia, gli aspetti costitutivi della circolarità che abbiamo appena ricordato grazie alla storia del pensiero contemporaneo ne fanno sostanzialmente un paradigma di tipo politico, se per politica intendiamo la consapevole pratica di riorganizzazione complessiva della società che si lega a doppio vincolo con la prospettiva democratica.
In questo senso, il potere circolare va pensato almeno ad un duplice livello: sia sul piano dell’autorganizzazione interna delle diverse forme di associazione umana, per affermare una partecipazione circolare tra tutti coloro che costituiscono quelle associazioni, sia sul piano territoriale, dove la circolarità tra il potere politico propriamente detto e la società passa generalmente attraverso pratiche e istituzioni pubbliche. Ma come pensare concretamente questo tipo di potere partecipativo?
Circolarità interna
Se ci soffermiamo sul livello della circolarità organizzativa interna, l’autorganizzazione associativa, ad oggi abbiamo due importanti direzioni da prendere per rendere effettivo quanto abbiamo affermato a livello filosofico sulla complessità, sulla responsabilità e sul potere.
Innanzitutto la circolarità partecipativa si esprime nelle diverse dinamiche di facilitazione interna che permettono alle molteplici organizzazioni sociali (del lavoro, sindacali, politiche, etc) di avvicinarsi o di raggiungere l’autorganizzazione in modo democratico ed efficace. In Italia esiste ormai una generazione di giovani facilitatrici e una pluralità di centri di formazione relativi a questa nuova modalità di trasformazione dell’organizzazione del lavoro e della cooperazione associativa. Così come Marianella Sclavi può essere considerata una pioniera di questo tipo di pratiche in Italia (vedi intervista), Melania Bigi (vedi intervista), a sua volta, è senza dubbio uno dei volti più autorevoli di questa nuova generazione. Facilitare significa usare una pluralità di metodi e di strumenti per rendere fluidi e orizzontali la comunicazione e i processi decisionali collettivi, integrando le capacità di ognuno per affrontare problemi e progetti di trasformazione di gruppi o comunità, con la finalità esplicita di arrivare a soluzioni e decisioni realmente condivise. Frederic Laloux (Reinventare le organizzazioni, Guerini, Milano 2020) è forse il maggior teorico che, ad oggi, ha proposto un modello coerente di autorganizzazione interna di tipo circolare, dove essa viene strutturata per ridare senso e pienezza di significato al lavoro e al ruolo di ognuno, eliminando o riducendo fortemente le gerarchie interne; la continua ricerca del bene comune e del percorso condiviso, da proseguire ad ogni tappa dell’evoluzione interna del gruppo o della comunità.
In secondo luogo, complessità, responsabilità e potere tipici della partecipazione circolare nelle organizzazioni sociali si affermano anche grazie ad una pratica ancora poco sviluppata in Italia: la “consulenza filosofica”. Nata in Germania grazie all’opera di Gerd Achenbach negli anni ‘80 del secolo scorso (La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità di vita, Feltrinelli, Milano 2018), nel nostro Paese questo tipo di consulenza si è diffusa soprattutto come pratica rivolta al singolo, ed è purtroppo rimasta marginale. Eppure essa ha delle potenzialità davvero rilevanti anche sul piano collettivo, soprattutto là dove la si intende come pratica neosocratica e sulla scia dell’importante lavoro pratico neokantiano del filosofo Leonard Nelson (1882-1927). Da questa prospettiva, infatti, la filosofia diventa un’azione collettiva volta alla trasformazione del gruppo che la pratica. Questa pratica filosofica per gruppi, in sostanza, grazie alla sua evoluzione contemporanea, ci consegna una concreta possibilità di affrontare i problemi di organizzazione dei gruppi e di facilitare la loro trasformazione interna, attraverso una pluralità di interventi dialogici in cui principalmente si: 1) individua la fonte del problema, contestualizzandolo e relativizzandolo; 2) cercano possibili alternative che coinvolgano non solo i diretti interessati ma anche l’insieme dell’organizzazione.
In questo senso la circolarità partecipativa non è tanto un obiettivo o un principio da implementare, bensì un presupposto imprescindibile per affrontare i problemi comuni. Per individuare e valorizzare la responsabilità e il potere di ognuno all’interno della complessa articolazione dei ruoli e dei problemi, questa specifica filosofia del dialogo mette in campo un processo virtuoso che aiuta il cambiamento complessivo dell’organizzazione che sino a quel momento aveva generato impasse, blocchi, disagi relazionali, conflitti irrisolti e dolenti, etc.
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Circolarità esterna
Quando si pensa alla partecipazione territoriale, invece, è inevitabile fare riferimento alle maggiori pratiche sviluppate nell’ambito della cosiddetta “democrazia partecipata”. Nessuna forma di progettazione partecipata può fare a meno di questo tipo di possibilità democratiche, per questo possiamo anche chiamare questo tipo di circolarità “progettuale”. Una partecipazione comune alla sfera pubblica che ne rispetti la complessità, che permetta l’assunzione di responsabilità dei soggetti che vi partecipano e che si sorregga sul “potere di tutti”, è possibile solo se la cosiddetta “governance locale” si lega profondamente alla partecipazione civica. Il che significa, in poche parole, che la partecipazione civica nei contesti locali non si risolva in processi che escludono i cittadini dalla riflessione e dalla proposta vincolante sui progetti che li vedono direttamente coinvolti. L’obiettivo generale della circolarità progettuale, perciò, è quello di rendere effettivo il processo di co-decisione tra la molteplicità degli attori coinvolti nel progetto da realizzare, articolarlo in modo tale da non chiuderlo solo alla dimensione micro-locale, ma aprirlo a scelte a loro volta circolari (relative, per esempio, ai beni comuni, alla giustizia distributiva e all’inclusione sociale).
Ai bilanci partecipativi e al dibattito pubblico abbiamo già fatto riferimento su questa rivista, grazie agli interventi di Yves Sintomer e di Ilaria Casillo.
Il bilancio partecipativo che si riferisce all’esperienza ormai antica e ben radicata di Porto Alegre in Brasile, è un dispositivo complesso che permette ai cittadini non eletti di partecipare alla definizione e alla ripartizione di una parte delle finanze pubbliche. La circolarità partecipativa si realizza facendo discutere pubblicamente tutti gli attori coinvolti sui fondi pubblici da investire sul territorio dell’intera città. Assemblee, riunioni, incontri, forum, costituiscono il percorso di deliberazione e proposta che chiama in causa continuamente i diversi attori sociali, istituzionali e non istituzionali. In modo da creare un ciclo virtuoso di riflessione, proposta e decisione che dura un anno intero.
Il dibattito pubblico, invece, è un processo di discussione pubblica su progetti e/o su leggi che si vogliono implementare sul territorio che coinvolge i cittadini in una chiara dinamica di dialogo sociale multilevel, che rispetti i tempi adatti per la riflessione, la proposta e la decisione da prendere in una prospettiva comune e condivisa che prende vita anche grazie a grandi assemblee pubbliche. A volte può prendere anche la forma dell’assemblea cittadina, dove si individua un campione rappresentativo della popolazione capace di esprimersi in modo da tenere presente la pluralità del tessuto sociale del territorio preso in esame. In Francia, per esempio, è stato sperimentato anche su territori vasti, come quello dell’intero territorio nazionale.
Altri strumenti che permettono di parlare di partecipazione circolare, e quindi di democrazia di prossimità, sono quelli che rafforzano l’autonomia della società civile e di migliorare la comunicazione tra i cittadini e i decisori politici. Esempi virtuoso sono, a questo proposito, i sondaggi deliberativi, dove si investe sulla formazione di un’opinione pubblica informata sulle leggi e sui progetti da realizzare, nonché sul modo di farlo, e si chiede ufficialmente che si esprima per orientare in modo più o meno vincolante la decisione dei rappresentanti politici che devono decidere in merito. Così come, anche, le giurie cittadine, costituite sulla falsa riga delle giurie popolari che conosciamo a livello giuridico. Queste giurie sono composte da un micro-campione scelto o estratto a sorte sulla base di uno specifico territorio considerato. A limite, rientrano anche in quest’ottica i tavoli plurali di progettazione partecipata (che possono essere, come sempre, solo consultivi o anche propositivi e deliberativi), dove fare incontrare cittadini, imprese e governo locale, per rendere trasparente l’azione lobbistica e farvi partecipare anche la popolazione priva di potere negoziale.
Tuttavia, sulla falsa riga del partenariato pubblico/privato, sebbene di tipo partecipativo, questo tipo di intervento circolare riconosce scarsa autonomia ai cittadini e si inquadra in una logica lobbistica che è lontana da quella che segna la “circolarità territoriale”. Tavoli di questo tipo sono da considerare misure di frontiera, una sorta di compromesso estremo con quanto segna oggi il panorama politico e sociale di tipo “verticale”, gerarchico-burocratico.
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