“La proposta del nuovo inceneritore di Roma è assolutamente scandalosa su tutti i fronti. Se la consideriamo in termini di sostenibilità, stiamo tornando indietro di 25 anni. Dal punto di vista della gestione razionale dei rifiuti, è uno spreco. Dal punto di vista ambientale, produrrà tonnellate di ceneri altamente tossiche difficili da smaltire. E dal punto di vista economico, non ha assolutamente senso”.
Non vede nulla di positivo Paul Connett, professore emerito di chimica ambientale alla St. Lawrence University di New York, nel progetto annunciato dal comune di Roma. Del resto da una vita, come attivista e fondatore della rete mondiale Rifiuti Zero, Connett evidenzia i limiti ambientali e strategici dell’incenerimento.
Il motivo, come ricorda in questa intervista rilasciata ad EconomiaCircolare.com, è semplice – “persino un bambino lo capirebbe”, afferma – e va cercato nel senso stesso dell’incenerimento: uno spreco di risorse e un ostacolo verso quella strategia Rifiuti Zero preconizzata da Connett nel suo celebre libro: una società dove i rifiuti non sono visti come un problema da eliminare, ma una preziosa risorsa o, semplicemente, non vengono prodotti. Connett non è neppure interessato al dibattito sulla modernità dell’impianto e sulle tecnologie all’avanguardia promesse per l’inceneritore di Roma: per lui bruciare i rifiuti a prescindere non è la soluzione del problema, ma anzi, ne creerà di nuovi.
Professor Connett, la sua è una critica “di principio” agli inceneritori?
Il nostro compito nel Ventunesimo secolo non è distruggere i materiali scartati, ma smettere di produrre materiali che si vogliono distruggere: se un bene non può essere riciclato, riutilizzato o compostato, semplicemente non deve essere prodotto. Il messaggio dei “rifiuti zero” è l’unico da inviare a cittadini e industria. Invece, quello veicolato dal comune di Roma è: se un rifiuto non possiamo riciclarlo, riutilizzarlo o compostarlo, allora lo bruceremo. È la soluzione meno creativa di fronte alle sfide della gestione dei rifiuti. È una tecnologia obsoleta. Crea seri problemi ambientali. Infine, è una cattiva idea dal punto di vista economico.
Il contratto di finanziamento dell’inceneritore è put or pay e durerà 33 anni. Questo, in pratica, significa che il comune di Roma, una volta firmato il contratto, si impegnerà a consegnare 600.000 tonnellate all’anno di rifiuti pagando tra i 200 e i 300 euro a tonnellata. Se nel mentre si riuscirà ad aumentare il riciclo e il riutilizzo o fare più compostaggio, poco importa: Roma dovrà comunque pagare per 600.000 tonnellate di rifiuti all’anno. Mi stupisce che nessun economista al comune di Roma abbia fatto notare che si tratta di una follia.
È stata questa tipologia di contratti che ha mandato in bancarotta molte città negli Stati Uniti: tra il 1985 e il 1995 è stata bloccata la costruzione di oltre 300 inceneritori proprio per ragioni economiche. Roma pagherà una penale altissima per aver fatto la scelta sbagliata, mentre servirebbero incentivi economici per l’industria e il commercio, in modo da sostenerli nel percorso verso una maggiore sostenibilità, invece di andare in una direzione completamente sbagliata, tornando indietro di oltre 25 anni, senza pensare minimamente al futuro.
Spesso si cita il caso dell’inceneritore di Copenaghen, con tanto di pista di sci sul tetto. Eppure sono sempre di più coloro che mettono in guardia dal fermarsi alla superficie nelle valutazioni sull’effettiva efficacia del modello danese.
Il primo aspetto da tenere in considerazione, e questo vale anche per Roma, è che circa un terzo del materiale che viene bruciato negli inceneritori si trasforma in una cenere tossica. La Danimarca ha bruciato più rifiuti di qualsiasi altro Paese europeo per alimentare inceneritori come quello di Copenaghen. E per liberarsi dell’enorme quantità di ceneri tossiche è costretta a esportarle in altre nazioni. Gli amministratori di Roma dovrebbero quindi, innanzitutto, rispondere a questa domanda: se bruceranno circa 600.000 tonnellate di rifiuti all’anno, cosa vogliono fare con le 200.000 tonnellate di ceneri tossiche risultanti? Dove andranno a finire? Con quali costi? E ci sono comunità in Italia disposte ad accettarle?
Sicuramente vedere un inceneritore travestito da pendio di una montagna con pista da sci è un’ottima pubblicità, ma in realtà è un insulto al pianeta Terra. Si spende un’enorme quantità di denaro per distruggere le risorse del futuro e lo si vuole far passare come una scelta sostenibile. Quello che ha fatto la Danimarca è un’operazione figlia della mentalità del secolo scorso, quando l’unico problema era trovare un modo per liberarsi dei rifiuti. Ma oggi la domanda a cui rispondere è un’altra: come possiamo recuperare le nostre risorse scartate e gestirle in modo da non privare le generazioni future di una parte, se non di tutto, il loro valore?
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Roma però ha una situazione drammatica nella gestione dei rifiuti, con i cassonetti sommersi dall’immondizia: come si può migliorare la situazione per i cittadini in tempi brevi?
Sì, su questo non c’è dubbio. Bisogna però riconoscere che il 50% dei rifiuti urbani di Roma è organico, quindi la cosa più semplice da fare sarebbe costruire impianti di digestione anaerobica. Questa sarebbe la tecnologia da prendere in considerazione: sfortunatamente Roma perde tempo dietro al progetto di un inceneritore quando avrebbe potuto già individuare i luoghi in cui costruire impianti di digestione anaerobica o di compostaggio, molto meno pericolosi per le comunità locali e più semplici da realizzare, come dimostra l’esempio offerto da molte altre nazioni.
Naturalmente, l’altro pilastro è continuare a investire nella raccolta differenziata, che coinvolge circa il 20% del flusso totale dei rifiuti. L’Ama sta facendo un buon lavoro in tema di riciclo, a cui andrebbe aggiunto un impegno maggiore per il riutilizzo. Sebbene questo non incida in modo significativo nella riduzione della mole dei rifiuti, è un volume piccolo ma di grande valore in ottica di economia circolare e tantissimi cittadini apprezzerebbero la possibilità di acquistare oggetti usati.
In Italia abbiamo comunità che stanno già raggiungendo l’80% di riciclo, riutilizzo, compostaggio. Una misura che nel frattempo il comune di Roma dovrebbe seriamente valutare è il pay as you throw, in cui ai cittadini si addebita una tariffa in base alla quantità di rifiuti che presentano per la raccolta al comune. Sicuramente ciò che andrebbe fatto subito è vietare la plastica monouso. Gran parte dei rifiuti che finiscono nelle discariche è plastica utilizzata per pochi minuti e che resterà nell’ambiente per migliaia di anni. Facendo un grafico a torta, se l’80% dei rifiuti viene coperto da riciclo, riutilizzo e compostaggio, una misura del genere agirebbe efficacemente sul restante 20% che è riconducibile quasi interamente alla plastica monouso.
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Anche per questo tipo di operazioni serviranno però cospicui finanziamenti…
La corsa agli inceneritori negli Stati Uniti è finita quando le comunità locali si sono accorte che non potevano spendere quelle cifre per distruggere dei rifiuti e hanno scoperto che risparmiavano a recuperarli, con un investimento a bassa tecnologia e capitale ridotto, sicuramente non paragonabile ai costosissimi inceneritori, e col vantaggio ulteriore di creare nuovi posti di lavoro e opportunità per tante piccole imprese del luogo.
L’unico vero investimento da fare è educare la cittadinanza alla raccolta differenziata in modo da rendere l’organico pulito per ottenere il compost da destinarle all’agricoltura attraverso la digestione anaerobica e lasciare i materiali riutilizzabili e riciclabili non contaminati da sostanze maleodoranti, pronti per essere recuperati.
In sostanza la politica adottata da una grande città con circa 850.000 abitanti e un’alta densità abitativa come San Francisco: eppure lì sono riusciti a ridurre il flusso dei rifiuti dell’80%. Mettendo in pratica ciò che Roma si rifiuta di fare, ovvero la raccolta porta a porta dei rifiuti organici da inviare in un grosso impianto di compostaggio costruito fuori del centro abitato. Come risultato, oggi in California ci sono duecento vigneti che utilizzano il compost proveniente dai rifiuti organici dei ristoranti e degli alberghi di San Francisco.
Roma, però, di abitanti ne ha oltre tre milioni e mezzo. È sicuro che il maggior numero di persone non possa incidere negativamente?
In base alla mia esperienza, formata in 69 Paesi diversi, l’ostacolo non sono mai i cittadini. Il problema è la cattiva leadership politica. Una volta proposta una soluzione efficace e comprensibile, i cittadini collaboreranno. Nella città in cui vivo, Brighton, nel Regno Unito, lungo la strada principale, nel raggio di poche centinaia di metri, ci sono dodici negozi dell’usato. In questi negozi è possibile trovare mobili, vestiti, libri, dischi, gioielli, qualsiasi cosa. Ogni giorno le persone donano oggetti e ogni giorno altre vanno lì e li acquistano. Semplicemente i cittadini lo fanno perché gli permette di risparmiare, a fronte del preoccupante aumento del costo della vita.
Un altro esempio. Negli Stati Uniti ci sono veri e propri magazzini gestiti in ottica imprenditoriale: chiunque doni un oggetto riceve in cambio buoni sconto del 20% da utilizzare per acquistare gli altri oggetti usati esposti all’interno del negozio. Una cosa del genere a Roma si potrebbe fare subito, magari supportata da incentivi alle imprese private per entrare in questo mercato o sovvenzioni per le spese di gestione e affitto dei locali. Come pensate accoglierebbero una soluzione del genere i cittadini romani? Eppure non succederà, perché quegli oggetti verranno inceneriti.
Lei utilizza sempre il termine “inceneritore” e mai “termovalorizzatore”. Come mai?
Usare il termine termovalorizzatore (waste to energy in inglese) è sicuramente uno scherzo: l’incenerimento è un evidente spreco di energia. L’economia lineare consiste nell’estrazione di materie prime, nella loro spedizione in tutto il mondo, nella fabbricazione di prodotti, nel loro consumo e poi, in un tempo relativamente breve, nel gettarli via diventando rifiuto. Questo processo assorbe un’enorme quantità di energia, che viene incorporata negli oggetti che usiamo quotidianamente. Quando noi li inceneriamo, quasi nulla di quell’energia incorporata torna a noi.
Con il riciclo, invece, si elimina l’energia utilizzata per l’estrazione e il trasporto. Con il riutilizzo, si elimina l’energia utilizzata per l’estrazione, il trasporto e la produzione e con il compostaggio si risparmia, ad esempio, nella produzione di nuovi fertilizzanti. Se vogliamo parlare di energia, tramite il riutilizzo, il riciclo e il compostaggio si risparmia fino a quattro volte di più rispetto all’incenerimento, che è una tecnologia dunque totalmente inefficiente sotto questo punto di vista. Per qualche centesimo in più di energia ottenuta a livello locale, si spreca tantissima energia a livello globale, perché si continua ad alimentare il modello dell’economia lineare.
Quando sarà possibile immaginare una società a rifiuti zero?
In molte comunità locali in Italia, tra uno-due anni sarà possibile ridurre il flusso di rifiuti del 60-70% una volta che si sarà ulteriormente investito nella raccolta differenziata, nel riciclo e nel compostaggio. Invece, con un inceneritore, che è un impianto enorme e complesso, servono almeno due anni per costruirlo, ma si arriverà almeno a quattro-cinque anni, tra processo di autorizzazione e cause legali della cittadinanza, prima di bruciare il primo chilogrammo di spazzatura. Quindi, se vogliamo avere a una società a rifiuti zero, è evidente come la scelta più rapida sia quella che va nella direzione dell’economia circolare e degli impianti di digestione anaerobica. L’incenerimento non è neppure una scorciatoia, come ci raccontano.
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