“In un momento cruciale del percorso siamo ancora in posizione di stallo. Il nuovo testo rivela che restano profonde divergenze su questioni fondamentali”. Silvia Pettinicchio, Global Strategy Director di Plastic Free Onlus, risponde alle domande da Ginevra, dove insieme a Lorenzo Zitignani, direttore generale dell’associazione, e Luca De Gaetano, fondatore e presidente, segue i lavori per il trattato ONU sull’inquinamento da plastica.
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Uno dei temi più caldi e dibattuti durante gli incontri nei due anni e mezzo di trattative, e in questa seconda parte della quinta sessione (INC-5.2) riguarda l’inserimento nel testo del trattato di limiti alla produzione della plastica. Silvia Pettinicchio, Plastic Free Onlus sostiene la richiesta di un tetto alla produzione: come si possono convincere i Paesi produttori di plastica, che stanno facendo di tutto per evitarlo?
La richiesta di un tetto globale alla produzione di plastica è una misura necessaria e urgente. Per convincere i Paesi produttori di plastica e fonti fossili serve un approccio pragmatico e multilivello. Siamo convinti che non basta fare appello alla responsabilità ambientale: bisogna dimostrare che la transizione è anche un’opportunità economica. Parliamo di creare nuovi mercati per materiali alternativi, investire in innovazione e tecnologie di riciclo avanzato, diversificare le economie oggi troppo dipendenti dal petrolio e dal gas.
In parallelo, occorre costruire meccanismi di supporto internazionale: incentivi economici, trasferimento tecnologico e partenariati industriali che facilitino il cambiamento senza lasciare indietro nessuno, la famosa e necessaria just transition. È un processo che richiede negoziazione e fiducia reciproca che non sempre ci sono, ma il dato scientifico è chiaro: se non fermiamo a monte la produzione, sarà impossibile gestire il problema a valle. Il tetto alla produzione non è una punizione, ma una condizione di sopravvivenza per il pianeta e un’occasione per guidare un’economia più resiliente e circolare.

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Pur facendo l’UE parte della High Ambition Coalition (che lavora per “porre fine all’inquinamento da plastica”) la commissaria Jessika Roswall ha parlato di “ridurre” l’inquinamento. La posizione europea le sembra netta? Oppure stiamo assistendo all’ennesima retromarcia sui temi ambientali?
La commissaria Jessika Roswall non ha ancora partecipato ai lavori; quindi, è difficile valutare il senso pieno delle sue parole. Va però ricordato che, in tutte le dichiarazioni che abbiamo ascoltato nei content group — dalla produzione alla limitazione dei prodotti più pericolosi, dagli strumenti e meccanismi finanziari fino agli aspetti legali e alla compliance — la posizione dell’Unione Europea è sempre stata chiara: sostegno a un trattato fortemente vincolante, ben finanziato da fondi pubblici e capace di essere realmente risolutivo.
Parlare di ‘ridurre’ l’inquinamento da plastica può sembrare meno ambizioso di ‘porvi fine’, ma ciò che conta è la sostanza del negoziato. Ad oggi, nei tavoli tecnici, l’UE ha dimostrato di essere dalla parte di misure strutturali e non di compromessi al ribasso. La vera sfida sarà mantenere questa coerenza fino alla firma finale, resistendo alle pressioni di chi vuole annacquare gli obiettivi.
Alcuni Paesi della High Ambition Coalition (il gruppo delle nazioni più motivate e convinte della necessità di un trattato forte) hanno ottimi propositi ma nel frattempo esportano i propri rifiuti in plastica verso Turchia, Malesia, Vietnam, Thailandia, dove vere garanzie di un trattamento efficace e sostenibile non ci sono. E dove spesso questi rifiuti vengono abbandonati o bruciati all’aria aperta. Questa è ancora economia circolare secondo lei?
Se chiudessimo un occhio sull’esportazione dei nostri rifiuti verso Paesi come Turchia, Malesia, Vietnam o Thailandia ma non solo, dove le garanzie di trattamento sostenibile sono deboli o inesistenti, non potremmo parlare di vera economia circolare. Si tratterebbe, piuttosto, di un trasferimento del problema da Nord a Sud del mondo.
Questa dinamica mette in luce una spaccatura profonda tra Paesi sviluppati e in via di sviluppo, a cui stiamo assistendo anche qui a Ginevra: i primi si presentano come campioni dell’ambizione ambientale, ma scaricano gli impatti più pesanti su comunità che non hanno le infrastrutture o le risorse per gestirli. E poi c’è il paradosso della Cina, che l’ONU classifica tra i Paesi in via di sviluppo, ma che è uno dei maggiori produttori e inquinatori al mondo per la plastica. In questa posizione, Pechino può chiedere supporto finanziario al pari di Paesi molto più poveri e realmente vittime del dumping dei rifiuti provenienti dai Paesi sviluppati.
Un trattato globale serio deve affrontare anche queste incoerenze: i rifiuti plastici vanno gestiti a monte e a casa propria, riducendo la produzione e investendo in sistemi di trattamento e riciclo sicuri e tracciabili. Delegare ad altri i nostri scarti non è circolarità: è una catena lineare mascherata, con i costi ambientali e sociali che ricadono sui più vulnerabili.
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“Alcuni Paesi possono scegliere di intraprendere dei divieti, mentre altri possono concentrarsi sul miglioramento della raccolta e del riciclaggio”, ha fatto sapere a Reuters il Dipartimento di Stato americano. Andiamo verso un trattato senza obblighi?
Le parole del Dipartimento di Stato americano si inseriscono in una posizione che, da quanto abbiamo dedotto da diversi interventi all’interno dei contact group, tende a ridurre l’obbligatorietà del trattato, privilegiando politiche nazionali rispetto a piani e standard sovranazionali.
Il rischio è evidente: senza obblighi chiari e condivisi, senza un quadro di equità e cooperazione e senza meccanismi finanziari che supportino davvero la transizione, non ci sarà alcuna fine — e difficilmente una reale riduzione — del problema.
La plastica è un inquinante globale, non conosce confini: affrontarla solo a livello nazionale equivale a combattere un incendio con secchi d’acqua isolati, mentre le fiamme si propagano. Serve un impegno vincolante e coordinato, perché la credibilità stessa del trattato si misurerà sulla sua capacità di imporre regole comuni e garantire mezzi per rispettarle.
Consensus sì consensus no: si è discusso molto di procedure. Che ne pensate? Quali sono secondo lei vantaggi e svantaggi di votare a maggioranza rispetto alla procedura dell’approvazione a maggioranza assoluta (consensus)?
Il chair del negoziato, l’ambasciatore Luis Vayas Valdivieso, durante la plenaria del primo giorno ha ribadito più volte che non ci sarà decisione finché non sarà raggiunto il consenso. Comprendiamo l’importanza di un approccio inclusivo, ma gli svantaggi sono evidenti: le posizioni sono oggi troppo distanti e il rischio concreto è quello di ottenere un trattato troppo poco vincolante e poco coraggioso.
La votazione a maggioranza potrebbe accelerare il processo e consentire a un nucleo di Paesi determinati di alzare l’asticella dell’ambizione, ma rischierebbe anche di lasciare fuori attori chiave, riducendo la portata globale delle misure.
Noi crediamo che, anche se imperfetto, un primo passo sia meglio di nessun passo. Oggi non esiste ancora nulla: un testo condiviso, per quanto inizialmente limitato, potrà essere rafforzato nelle successive COP e nei percorsi attuativi. L’essenziale è non fermarsi qui e continuare a fare pressione, negoziare, condividere dati scientifici e affrontare la crisi della plastica come ciò che è: una sfida globale che richiede risposte globali.

Chiedete un divieto per il monouso: che risultati potrebbe avere? Vi sembra praticabile?
Il divieto del monouso non è solo simbolico: avrebbe un impatto immediato e misurabile nella riduzione dei rifiuti dispersi, soprattutto nei mari e nei corsi d’acqua. Parliamo di oggetti che rappresentano una quota consistente dell’inquinamento plastico globale e che spesso hanno una vita utile di pochi minuti, ma un impatto ambientale di secoli.
È una misura praticabile, come dimostrano i Paesi e le città che l’hanno già introdotta con successo. Certo, richiede alternative accessibili e una fase di transizione che accompagni imprese e consumatori al cambiamento, ma la tecnologia e le soluzioni esistono già.
Il divieto del monouso è una delle leve più semplici e concrete per ridurre la domanda complessiva di plastica e per stimolare l’innovazione in materiali e modelli di consumo più sostenibili. Non possiamo aspettarci di risolvere il problema se non iniziamo a chiudere il rubinetto delle plastiche superflue.
Negoziato dopo negoziato l’unica certezza sembra l’aumento del numero di lobbisti dell’industria petrolchimica. Cosa ne pensate? Vi è capitato di vederli in azione?
Certamente. Sul sito ufficiale dell’INC è disponibile la lista di tutti i partecipanti: l’abbiamo letta tutta — oltre 3.000 nomi — e dice molto su chi è venuto qui e con quali obiettivi.
Li abbiamo visti e ascoltati durante i lavori, e in diversi casi fanno parte delle stesse delegazioni nazionali. Questo significa che l’industria petrolchimica non è solo presente come osservatore esterno, ma partecipa attivamente alla definizione delle posizioni ufficiali di alcuni Paesi.
È legittimo che ogni settore porti la propria voce, ma è altrettanto necessario bilanciare questa presenza con una rappresentanza forte della scienza, della società civile e delle comunità più colpite dall’inquinamento. Altrimenti, il rischio è che il processo negoziale venga piegato a interessi che puntano a rallentare o annacquare le misure più ambiziose.
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Avete visto qualche rappresentante del governo italiano?
Del Governo finora non abbiamo visto alcuna partecipazione diretta, contrariamente ad altri Stati anche europei. Abbiamo però incontrato la delegazione italiana e avuto diversi scambi costruttivi. Si tratta di funzionari ministeriali, persone molto competenti e preparate, ma purtroppo sono poche: appena 8.
Se guardiamo alle delegazioni di Paesi anche molto più piccoli del nostro, troviamo decine e decine di esperti. Questo fa la differenza in un negoziato complesso come questo, dove la presenza numerica consente di seguire più tavoli di lavoro, intervenire su più contenuti e avere maggiore influenza sul testo finale. La competenza c’è, ma serve anche la massa critica per farla valere.
I lavori sono ripartiti da un nuovo testo che raccoglie i pochi progressi fatti nei primi 5 giorni di lavoro dell’INC-5.2. Per quanto contenga ancora un numero esorbitante di parentesi quadre (che racchiudono le diverse opzioni in campo), che idea ve ne siete fatta?
In un momento cruciale del percorso siamo ancora in posizione di stallo. Il nuovo testo rivela che restano profonde divergenze su questioni fondamentali. La definizione delle plastiche problematiche e prioritarie è ancora al centro di un dibattito acceso, con posizioni divergenti sulle categorie da includere e sulle tempistiche di gestione, elemento decisivo per l’efficacia dell’accordo. Sull’inclusione delle microplastiche manca un’intesa chiara, nonostante le prove scientifiche sui loro impatti ambientali e sanitari siano ormai consolidate. Anche i meccanismi di finanziamento restano un nodo irrisolto, in particolare per quanto riguarda il sostegno ai Paesi in via di sviluppo, con l’assenza di strumenti concreti per garantire risorse adeguate e trasferimenti tecnologici. A complicare ulteriormente il quadro, il forte intervento delle lobby del petrolchimico e dell’industria della plastica all’interno di alcune delegazioni sta influenzando pesantemente il dibattito, rallentando l’avanzamento verso soluzioni ambiziose. Infine, manca ancora una visione condivisa sugli obiettivi di riduzione e gestione sostenibile, con l’assenza di una tabella di marcia chiara e traguardi concreti e misurabili. Per questo come società civile, rivolgiamo un appello a tutte le delegazioni: mettete da parte interessi a breve termine e ricordate la responsabilità storica che avete in questo momento. Ogni ritardo significa più inquinamento, più danni alla salute umana e più costi per le generazioni future. Abbiate il coraggio di adottare misure vincolanti, ambiziose e basate sulla scienza, perché il tempo per agire non è domani: è adesso.
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