Dal 26 febbraio è online il nuovo questionario consultivo per l’aggiornamento del PNIEC, il Piano Nazionale integrato Energia e Clima. La consultazione, realizzata dal Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica con il supporto del Gestore dei Servizi Energetici, resterà aperta fino al 31 marzo ed è rivolta a istituzioni, privati, associazioni e portatori di interesse.
Il testo individua 21 quesiti sui diversi temi del PNIEC: si va da una valutazione generale sulla proposta di Piano, presentata a giugno 2023 alla Commissione europea, all’individuazione degli strumenti per l’efficienza e la riduzione delle emissioni nei settori degli edifici, dei trasporti e dell’agricoltura. Tra gli altri argomenti oggetto della consultazione ci sono le rinnovabili, l’idrogeno, il biometano, la sicurezza energetica, le azioni per mercati e consumatori, la “just transition”, i sussidi ambientalmente dannosi e la filiera del CCS, la tecnologia nota come Carbon Capture Storage (ci torneremo). Si tratta di domande a risposta aperta.
Il testo completo della proposta di Piano Nazionale Integrato Energia e Clima è consultabile al seguente link. Dopo le osservazioni della Commissione Europea, giunte a dicembre 2023, la scadenza per l’aggiornamento e la versione definitiva del PNIEC è il 30 giugno. Per quella data il governo, si spera, dovrà tenere conto degli orientamenti emersi nel questionario, che si inserisce nel quadro di un processo di informazione, partecipazione e condivisione a vari livelli e che comprende anche strumenti di consultazione sul testo più strutturati, come la Valutazione Ambientale Strategica (VAS), e canali istituzionali come la Conferenza Unificata. L’importanza del testo è fondamentale: in assenza di una legge sul clima, diventa il PNIEC lo strumento principale per la definizione delle misure per il raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni al 2030.
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Il PNIEC tra ambizione e realismo e il parere di due ex ministri
Sul sito del MASE il ministro Gilberto Pichetto Fratin ha ripetuto uno dei ritornelli preferiti dal governo Meloni, per cui le ambizioni ambientali devono fare i conti con un approccio realistico. Una falsa dicotomia, perché puntare alle zero emissioni nel più breve tempo possibile significa non solo la salvezza del mondo ma anche uno sviluppo economico, sociale e culturale. Una tesi, quella del ministro Fratin, respinta in maniera abbastanza diretta nella giornata del 27 febbraio anche dal suo predecessore Sergio Costa. Il quale, nell’attuale veste di vicepresidente della Camera dei Deputati, ha organizzato – insieme al think tank per il clima ECCO – una giornata di confronto sul PNIEC presso la Sala della Regina a Palazzo Montecitorio.
“Non possiamo più chiederci se fare la transizione ma come – ha dichiarato Costa – Il mondo sta andando nettamente nella direzione della transizione, o ci attrezziamo adeguatamente per affrontare questa sfida o siamo fuori dal mondo. Negli ultimi 40 anni in Italia il cambiamento climatico è costato 210 miliardi di euro. Solo dal 2017 al 2022 il conto per l’Italia è ammontato a 42,8 miliardi, di cui 17 soltanto nel 2022. I costi dell’inazione sono ben maggiori dei costi dell’azione. Dobbiamo unire le forze per produrre un piano di sviluppo che sia in grado di accompagnare il sistema industriale, i lavoratori, la società tutta all’interno di un processo ineluttabile. La sostenibilità sociale non si consegue fuggendo dalla realtà, ma si persegue attraverso politiche mirate in grado proteggere realmente le persone. Le crisi di questi anni dimostrano che l’unica vera sicurezza energetica passa per la transizione. La dipendenza dalle fonti fossili come il gas espone a rischi geopolitici sempre maggiori in un contesto di crescenti tensioni internazionali”.
Ancora più critico, poi, è stato Enrico Giovannini, anche lui ex ministro (alle Infrastrutture e alla Mobilità Sostenibile, accezione cancellata dall’attuale titolare Matteo Salvini) e attualmente direttore scientifico di ASviS, l’alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile. “Sul clima c’è una falsa contrapposizione tra ideologia e pragmatismo – ha detto – E mi chiedo: col sistema dell’autonomia differenziata il PNIEC sarà più o meno operativo? Nel passato abbiamo fatto degli errori su questi temi (il riferimento è all’autonomia delle Regioni, sancita con la riforma costituzionale del 2001, ad esempio sul tema dell’energia, ndr). L’attuazione del PNIEC rischia di essere il vero problema. Posso dirvi che nelle interlocuzioni che ho avuto nessuno crede che riusciremo a raggiungere gli obiettivi delineati dal PNIEC. La legge per il clima è un passaggio cruciale, perché rende apolitica la trattazione di questa tematica: rinnovo la richiesta al Parlamento, che dice di essere sempre schiacciato dalle esigenze del governo, ma bisogna fare un passo in più”.
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Sulla trasparenza il PNIEC pecca ancora
Il 18 dicembre la Commissione Europea aveva bocciato la bozza del PNIEC in merito alla trasparenza. Nel testo formulato dalla Commissione si legge che “il progetto di PNIEC aggiornato è stato aperto alla consultazione pubblica attraverso una piattaforma online. Un’ampia gamma di gruppi di interesse è stata individuata e incoraggiata a partecipare, comprese le parti sociali e il pubblico in generale. Ma non viene menzionato l’impegno del pubblico a prepararsi e partecipare in modo efficace, né è chiaro il tipo e la qualità delle informazioni fornite ai partecipanti. Il progetto del PNIEC contiene una sintesi chiara ma sintetica delle opinioni del pubblico, e non fornisce informazioni su quali categorie di stakeholder hanno espresso quali opinioni. Inoltre la sintesi non spiega come le opinioni espresse siano state considerate e affrontate, o perché non siano state prese in considerazione. Il piano prevede che una valutazione ambientale strategica del progetto PNEC aggiornato inizierà dopo la sua presentazione alla Commissione europea. La bozza del piano e una sua sintesi non tecnica verrebbero messi a disposizione degli attori competenti e dei cittadini interessati affinché possano esprimere le loro opinioni. Il piano non contiene ulteriori informazioni sulle tempistiche, né su come questo processo confluirà nella preparazione del piano finale”.
Dopo la segnalazione della Commissione Europea il governo ha provato a correre ai ripari. Ma i passi in avanti non sembrano risolvere del tutto le mancanze fin qui registrate. Ne è convinta Lucie Greyl, attivista di A Sud e portavoce di Giudizio Universale, la campagna nazionale che ha lanciato nel 2021 la prima causa legale climatica italiana e trascinato lo Stato in tribunale con l’accusa di non fare abbastanza per fermare il cambiamento climatico. A breve il tribunale civile di Roma dovrebbe pronunciarsi sulla richiesta presentata da oltre 200 ricorrenti, tra cui 17 minori e 24 associazioni.
“In questa nuova fase della consultazione pubblica sono state inserite delle domande aperte e non le domande a quiz, per cui si possono formulare risposte più articolate – commenta Lucie Greyl – Detto ciò la scadenza di un mese e la modalità del questionario per pronunciarsi su questioni così vitali come le strategie energetiche e climatiche è molto limitante e inadeguato. Come si è perso tempo stringendo in meno di un mese la consultazione per l’elaborazione della bozza inviata alla Commissione europea il 30 giugno 2023, anche questa seconda fase sarebbe dovuto iniziare prima e con modalità partecipative articolate e trasparenti, così come segnalato al Comitato di Controllo della Convenzione Aarhus. La visibilità è un tema fondamentale: al momento la consultazione è visibile sul sito del GSE ma non su quella del ministero, che comunque ha una pagina dedicata al tema clima e energia e fino a questo momento non ha inserito il lancio della consultazione neppure nella sezione dedicata agli aggiornamenti. Più in generale si sarebbero dovuti prevedere dei processi consultivi più articolati. Non si capisce, poi, in che modo saranno trattate le informazioni raccolte e in che misura saranno riportate nel piano. Così come non è chiaro quali siano stati finora gli incontri con stakeholders: chi sono? in che maniera sono stati consultati? cosa hanno proposto e cosa è stato recepito delle informazioni scambiate? Si tratta di una questione fondamentale, soprattutto se pensiamo al ruolo delle società partecipate come Eni e al fatto che la bozza del PNIEC elaborata dal governo sembra modellata su molte esigenze del settore fossile, ad esempio sulle tesi dell’Italia come hub del gas e della ccs, nonché sull’eccessiva importanza data ai biocarburanti”.
Ci sarà spazio per modifiche così sostanziali al PNIEC? In attesa di una risposta, quel che è certo è che tali modifiche sarebbero fondamentali. A gennaio un report elaborato dall’European Climate Neutrality Observatory ha analizzato le bozze dei 27 PNIEC presentati dagli Stati membri alla Commissione. E ha bocciato l’Italia, sostenendo che il nostro Paese presenta il maggiore gap di trasparenza.
“L’Italia ha il divario maggiore in termini di trasparenza, mancando una pianificazione dettagliata per la riduzione delle emissioni di 44 milioni di milioni di tonnellate di CO2 equivalente – ha scritto il centro studi indipendente – Esiste un rischio elevato di sovrapposizione del territorio, con un numero quattro volte maggiore di indicatori che prevedono un aumento dell’uso del suolo rispetto agli indicatori che ne prevedono una diminuzione. Il PNIEC italiano fa molto affidamento sulla tecnologia di cattura e stoccaggio del carbonio (CCS) per stabilizzare le emissioni nel settore industriale. Le misure alternative di decarbonizzazione per l’industria non sono chiaramente indicate, il che implica che la CCS potrebbe essere utilizzata non solo per ridurre le emissioni intrinseche del processo ma anche le emissioni di combustione evitabili, il che costituisce un rischio che potrebbe mantenere la dipendenza dai combustibili fossili”.
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Le opportunità che il PNIEC rischia di non valorizzare
Leggendo la bozza del Piano Nazionale Integrato Energia e Clima, consultabile sul sito del GSE, emerge che le ricette del PNIEC italiano, comunque le si voglia giudicare, manchino comunque delle indicazioni precise per raggiungere. Proprio quel che dovrebbe fare un piano. È la tesi portata avanti anche da ECCO, il think tank sul clima che sul PNIEC sta attuando un lavoro importante di riflessione e stimolo.
“L’Italia ha inviato la sua proposta di aggiornamento del PNIEC 2023 lo scorso luglio, ma si rilevano ancora elementi che minano la sua efficacia e ambizione – si legge nella nota stampa dopo l’incontro del 27 febbraio – Si registra un numero elevato di politiche e misure per il raggiungimento degli obiettivi, con brevi descrizioni e riferimenti a provvedimenti attuativi successivi. Il piano pone, quindi, l’accento sul ‘cosa’ fare, senza individuare una strategia per la sua realizzazione concreta, ovvero il ‘come’, anche sottolineato nella valutazione del piano della Commissione UE. ECCO ha costruito uno scenario sviluppato nei quattro macrosettori di generazione e uso dell’energia: elettrico, civile, industria e trasporti. ECCO suggerisce quindi un piano per l’azione contenente le linee di un approccio alternativo, con proposte concrete per accrescere l’efficacia e l’ambizione del PNIEC”.
Tuttavia a distanza di una manciata di mesi dalle proposte di ECCO la situazione non sembra essere granché cambiata, almeno stando all’intervento di Simona Fabiani, responsabile CGIL dell’area politiche per lo sviluppo, sempre durante la giornata di confronto del 27 febbraio a Montecitorio.
“Come organizzazioni sindacali abbiamo chiesto più volte al governo di essere convocati per parlare in merito alla transizione ecologica degli aspetti legati al lavoro, e non solo, ma non c’è stato nessun coinvolgimento – ha affermato Fabiani – Ora è uscita questa consultazione online ma non è certo questa la governance che ci si aspetta su un piano che sarà determinante per il Paese dal punto di vista economico e ambientale. Per quanto riguarda il lavoro, poi, non si parla mai delle conseguenze negative del cambiamento climatico. Si parla solo della transizione. Ma prima di questa ci sono gli effetti diretti e indiretti delle temperature. Le stime dell’Organizzazione Mondiale del Lavoro indicano ad esempio che solo a causa delle ondate di calore ci saranno 80 milioni di lavori che si perderanno, dall’agricoltura al turismo. E invece si parla solo dei posti di lavoro delle aziende fossili. Che certamente si perderanno, o comunque andranno convertiti, ma il saldo occupazionale rispetto alle nuove opportunità di lavoro è positivo. Come Cgil abbiamo fatto una stima partendo dai tavoli di crisi che sono aperti al ministero e che spesso sono legati alla transizione ecologica, penso ad esempio all’ex Ilva, all’automotive, eccetera. Ci sono 110mila posti di lavoro a rischio, a cui vanno aggiunti poi quelli dell’indotto. Ma questo non significa che il sindacato si oppone alla transizione. Perché questi posti di lavoro si perdono se si stanno fermi. Al momento mancano le politiche industriali e gli investimenti. Dall’adattamento climatico ai servizi pubblici fino alle energie rinnovabili, invece, sono tantissimi i posti di lavoro che si andrebbero a creare. Su alcuni temi il PNIEC è molto timido mentre esagera gli sviluppi dell’hub del gas e della CCS”.
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