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mercoledì, Dicembre 25, 2024

Serge Latouche: “Vi spiego perché dobbiamo abbandonare l’economia”

Dall’incompatibilità dell’economia con l’ecologia alla decolonizzazione dell’immaginario alla fuoriuscita dall’economia stessa (che “non è qualcosa di universale e naturale”) passando per il debito e i bitcoin. E, ovviamente, per l’economia circolare. A colloquio con il padre nobile del movimento della decrescita

Emanuele Profumi
Emanuele Profumi
Emanuele Profumi, è dottore di ricerca in filosofia politica e giornalista free lance. Collabora con diverse università italiane ed europee. Ha scritto e pubblicato per riviste italiane (es: Micromega, Left, La Nuova Ecologia) e straniere (es: Le Monde Diplomatique) ed è stato anche corrispondente estero per alcuni giornali e riviste italiani (Londra, Parigi, Atene, Messico). In Italia ha già pubblicato una trilogia di reportage narrativi (le "Inchieste politiche") sul tema del cambiamento sociale e politico: sul Cile (Prospero, 2020), sulla Colombia (Exorma, 2016) e sul Brasile (Aracne, 2012). È professore di "Storia della pace in Epoca Contemporanea" presso l'Università di Pisa e "Scienza della politica" presso l'Università della Tuscia (Viterbo), e scrive e pubblica saggi filosofici. L'ultimo libro di filosofia è una curatela realizzata insieme all'importante filosofo italiano Alfonso Maurizio Iacono (Ripensare la politica. Immagini del possibile e dell'alterità. Ets 2019).

Serge Latouche è senza dubbio il padre nobile del movimento della decrescita, di cui si parla ormai da diversi decenni con sempre maggiore interesse. Nonostante le sue precarie condizioni di salute, siamo riusciti a farlo intervenire nel nostro dibattito sull’alternativa economica al modello attuale, insostenibile dal punto di vista ecologico. Con il suo caratteristico temperamento composto e rispettoso, il suo volto acuto, a metà strada tra Corto Maltese e Sean Connery, ha spiegato e EconomiaCircolare.com perché l’unica soluzione davanti alla crisi ecologica è abbandonare definitivamente l’economia.

Iniziamo con una domanda ineludibile: cosa pensa dell’economia circolare? La possiamo considerare come parte del progetto della decrescita?

Conosco l’economia circolare da diversi anni ormai, da quando la regista Madame Cosima Dannoritzer stava girando un film di un certo successo, “Made to break”, in cui veniamo intervistati io e Michael Braungart, autore della bibbia dell’economia circolare, “Cradle to cradle”. L’idea di un’economia che non funziona più in modo lineare, bensì circolare, è perfettamente in sintonia con il progetto della decrescita. È uno strumento per ridurre l’impronta ecologica.

L’economia incentrata sul riciclo, però, ha un suo significato solo dentro questa prospettiva, mentre se la consideriamo al di fuori della decrescita è una truffa. Lo dico perché, sia a Bruxelles, sia in Francia, questo tipo di economia si usa proprio per non affrontare la necessità della decrescita. Si dice infatti: “Con l’economia circolare si può crescere all’infinito”. Ma quest’idea è una truffa. Basti considerare la cosa più ovvia: nel processo circolare non si può riciclare tutto, perché ciò che si perde maggiormente a livello economico, è l’energia; che non solo sparisce in qualsiasi processo produttivo ma che, se si usa il petrolio, non si potrà proprio più recuperare: non è rinnovabile né riciclabile. Inoltre, va considerato anche che le risorse rinnovabili possono essere riciclate sino ad un certo punto, e mai totalmente. E solo grazie ad una grande quantità di energia. Oggi, per esempio, la cosiddetta economia digitale consuma le cosiddette “terre rare”, cariche di metalli rarissimi. Sono molto limitati e difficili da lavorare, perché ci vuole un’enorme quantità di energia e di acqua. Per produrre delle tonnellate di questi prodotti si devono manipolare migliaia di tonnellate di terra. Si genera, così, uno spreco e un consumo incredibile. Il riciclaggio di questo materiale è in proporzione meno del 10% di quanto prodotto inizialmente, ed è molto difficile e molto costoso.

Insomma, cos’è l’economia circolare? Il fatto di poter riciclare il massimo, il più possibile. Ecco perché riciclare rientra in una delle 8 R che definiscono cos’è la decrescita, ed ecco anche perché la sua filosofia economica va bene all’interno di questo progetto ma se sviluppata al di fuori di esso, al contrario, diventa una truffa, ossia un’operazione di “greenwashing”.

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Cosa pensa allora del Pnrr, che fa esplicito riferimento all’economia circolare?

Ho già parzialmente risposto. Esso è l’espressione di una grande operazione in cui si cerca di rispondere ai problemi ecologici senza rimettere davvero in causa il sistema. In questo senso è completamente interna alla logica del greenwashing. Naturalmente, non è sbagliato cercare di riciclare, ma così si fa finta di credere che questo sia sufficiente per ridurre o eliminare il cambiamento climatico, e anche per risolvere gli altri problemi ecologici.

Da diverse settimane stiamo proponendo un dibattito pubblico sulle alternative all’economia neoliberista e alle teorie economiche “mainstream”. Secondo lei esistono delle proposte economiche, anche teoriche, che sono degne di interesse ed estranee al modello capitalista attuale? Quali sono quelle ecologicamente sostenibili che si possono avvicinare al benessere frugale a cui fa riferimento con la decrescita?

È chiaro che esistono delle alternative economiche al neoliberismo, come ad esempio il vecchio keynesismo. Il problema è che delle alternative economiche compatibili con la sostenibilità della nostra civilizzazione non esistono. Perché? Perché qualsiasi tipo di economia (keynesiana, liberista, socialista, etc) è incompatibile con l’ecologia. Per questo insisto spesso, quando parlo di decrescita, sull’esigenza di “uscire dall’economia”. Questo è molto difficile da far capire, perché l’economia non è qualcosa di eterno, ma, per dirlo in modo grossolano, è nata nel XVIII secolo e finirà, o forse sta per finire. Tuttavia, la colonizzazione del nostro immaginario da parte dell’economicismo è talmente forte che la gente pensa che si tratta di qualcosa di universale e di naturale, e che quindi è impossibile vivere fuori dall’economia, seguendo invece una logica basata sul lavoro.

Tutte le categorie economiche sono, come diceva il nostro amico Cornelius Castoriadis, delle “significazioni immaginarie sociali”, e quindi sono istituite e non hanno nulla di naturale. Per questo la proposta della decrescita non mira ad “un’altra economia”, ma è la proposta di un’altra civiltà, che abbandona il capitalismo inteso come modernità: è una fuoriuscita dalla civiltà moderna. Per questo possiamo riprendere una parola, inizialmente usata solo da André Gorz, che è “l’ecosocialismo”. La decrescita è un progetto ecosocialista, ma nell’ecosocialismo il socialismo non va inteso come un’alternativa economica, o come “un’altra economia”, ma come la fine dell’economia. Se lo leggiamo bene, anche in Marx e nella sua epoca, c’è l’idea di fuoriuscire dall’economia, solo che, alla fine, il marxismo è stato totalmente colonizzato dall’economicismo da non riconoscerlo.

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Quindi neanche teorie come quelle di Nicholas Georgescu Roegen possono aiutarci a fuoriuscire dall’economia capitalista e dall’economicismo che la domina?

L’apporto principale e fondamentale di Georgescu Roegen è quello di aver dimostrato che sia l’economia, sia l’economia capitalista, sia la teoria economica, sono state costruite sulla base del meccanicismo newtoniano e sono state intese come qualcosa di irreversibile. La vita concreta, sia quella economica sia tutte le altre sue forme, non si svolge nel cielo astratto della matematica, come fa la teoria economica, ma nel mondo reale che subisce le leggi della fisica, e prima di tutto della termodinamica. La seconda legge della termodinamica ci dice che il tempo è irreversibile, e la legge dell’entropia ci dice che la benzina che abbiamo bruciato nel motore della macchina fa in modo che le molecole esistono ancora. Passiamo da una bassa entropia ad un’alta entropia. Ma esse non sono più riutilizzabili. Per questo il processo non è circolare, bensì, purtroppo, irreversibile. Per questo, Georgescu Roegen sta affermando che al posto della teoria tradizionale dobbiamo cercare di realizzare una bioeconomia. Un’economia che obbedisce alle leggi della vita. Ma questa non sarebbe più “l’economia”. Sarebbe già diventata una scienza sociale che è, allo stesso tempo, antropologia e sociologia. Georgescu Roegen è importante, così come la sua critica agli economisti sottomessi alla logica matematica invece di assumere una visione dialettica, ma il suo limite è che l’idea di un’altra economia non l’ha portato a rinunciare all’economia come “scienza economica”. In questo senso è molto interessante il percorso di uno dei suoi allievi, Mauro Bonaiuti. Una volta che quest’ultimo ha adottato la decrescita, poco a poco, è arrivato ad abbandonare l’idea de “l’altra economia”.

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Mi sembra di capire che bisogna abbandonare il termine economia e, al contempo, la teoria economica, per ritrovare, in fondo, il senso originario del termine: l’oikos. Un pensiero su come si riorganizzano gli interessi, i bisogni e i desideri. Per farlo bisogna abbandonare la disciplina della teoria economica. Quindi quando lei si riferisce all’idea che le risposte economiche, politiche, giuridiche, devono essere legate al posto, al luogo specifico in cui uno si trova, e non possono essere generalizzate, si riferisce al fatto che ci debba essere “un’autonomia delle culture” rispetto al problema della società capitalista, e quindi dell’imposizione di una certa economia a livello globale. Ma, se questo è vero, come la mettiamo con il sistema finanziario e, più in generale, con il sistema economico globale? Come riusciamo ad affrontarlo e sostituirlo in qualche modo, o proprio a farlo venire meno, senza che vi sia una risposta da generare a livello globale? Restano dei problemi, come la catastrofe ecologica in corso, che vanno affrontati a livello planetario: non pensa che bisognerebbe dare una risposta globale anche dal punto di vista “economico”?

Come sai, la parola d’ordine dell’ecologia politica della prima generazione era: “Pensare globalmente, agire localmente”. Questo era giusto, perché negli anni ‘60-’70, quando è nata l’ecologia politica, era impossibile concepire un’azione a livello planetario, e il mondo era diviso tra primo mondo, secondo mondo e terzo mondo. Oggi si vede che, dal punto di vista economico, il mondo è diventato unico e che il più grosso problema ambientalista è il cambiamento climatico, che non si può risolvere a livello locale. Lo si può fare solo a livello globale. Allora la parola d’ordine “pensare localmente e agire globalmente” ha una sua verità. Oggi, in sostanza, bisogna prenderle entrambe: “Pensare localmente e agire globalmente” e “pensare globalmente, agire localmente”.

Questo ci fa capire perché ho detto che il progetto della decrescita non è lo stesso in Senegal o in Portogallo, nel Nord e nel Sud del pianeta. Una volta liberata dalla gabbia di piombo dell’economicismo ritroviamo la diversità. E si deve ritrovare la diversità culturale di altri mondi, non creare un altro mondo, come diceva il Subcomandante Marcos. Quindi vanno considerati due tempi diversi. Oggi viviamo nell’epoca in cui abbiamo un tempo unico dal punto di vista economico, e dobbiamo uscire da questo mondo. Per questo dobbiamo essere solidali, come umanità. In primo luogo, dobbiamo uscire dall’imperialismo dell’economicismo. Una volta che ci siamo liberati, è bene che si ricostruisca ogni gruppo umano in modo autonomo, anche se resta il legame che tutti i gruppi avranno a livello globale. Ma ciò non implica uno Stato mondiale, bensì un loro modo diverso e autonomo di organizzarsi, per creare una società sostenibile, delle società diverse tra loro. Mondi diversi. Questa è la mia prospettiva: il “Pluriverso”; l’idea del teologo indo-catalano Pannikar, è centrale.

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Certo. Ma come si può decostruire l’economia globale? È come se lei indicasse che la via da percorrere è quella che parte dal locale, senza però trattare il livello globale.

A livello locale ci sono diverse esperienze comunitarie. Alcune usano la moneta locale, hanno dei circuiti specifici. Possiamo anche ricordare le “Transition towns” inglesi e l’autorganizzazione locale. Ma questo discorso, ovviamente, ha dei limiti. Perché ciò sarà possibile principalmente solo quando il sistema finanziario globale sarà crollato, e personalmente sono convinto che crollerà da solo.

Considera anche che le altre istituzioni globali, come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, crolleranno o dovrebbero crollare, giusto?

Sì.

Perché, al di là delle grandi multinazionali, sono queste le istituzioni che reggono il sistema giuridico-politico-economico dell’attuale globalizzazione.

Sì. Ma questo sistema, che sembra così forte, in realtà ha una fragilità incredibile. Può crollare da un giorno all’altro, perché tutto questo sarà obbligato ad affrontare molti problemi. Oggi si è sempre più consapevoli di questo. Noi non lavoriamo per domani, dato che già oggi viviamo una forma di collasso del sistema. Noi lavoriamo per dopodomani, quando speriamo che il collasso non generi forme radicalmente dispotiche per l’umanità.

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Le criptovalute, che dal bitcoin in poi sono molto diffuse ormai, sono a tutti gli effetti delle monete globali. Nel caso in cui non le considerasse interne al progetto della decrescita, come potrebbero scomparire?

Su questo non sono molto esperto o competente. Penso che il bitcoin sia una truffa. Ma se prendiamo il sistema delle monete parallele, locali, quando esse non sono orientate alla speculazione e servono per fare funzionare localmente delle piccole società, allora un sistema virtuale può anche essere utile e permettere di organizzarci meglio. Ma di sicuro non come il bitcoin, che è solo il prodotto dello sviluppo della predazione capitalista.

Anche facendo riferimento al suo ultimo libro – “Il Tao della decrescita. Educare a equilibrio e libertà per riprenderci il futuro” (Il Margine, 2021) – come è possibile affrontare una creazione della cultura consumista che sembra quasi onnipervasiva, ossia il sistema massmediatico che si basa sulla messa al centro della finzione piuttosto che sul riconoscimento dei fatti (che è quello che accade in un contesto di guerra, dove saltano tutte le verità e si costruisce una realtà fittizia seguendo una logica puramente strumentale), e avviare quella che lei chiama una “decolonizzazione dell’immaginario”?

Chiaramente ci troviamo davanti ad un grosso problema, e dobbiamo affrontarlo. A suo tempo era un problema che si era posto anche Castoriadis: come uscire dall’immaginario in cui viviamo e creare un nuovo immaginario. Sembra una sfida titanica. Perché siamo tutti formattati e interni all’impero mediatico. Bisogna pensare, però, che anche nell’essere umano più manipolato c’è una capacità di resistenza. Fortunatamente il nostro cervello è composto da due emisferi: uno è totalmente colonizzato e l’altro resiste. Non si tratta di ottimismo. Basta guardare ai giovani, che dovrebbero essere totalmente colonizzati e invece li vediamo far nascere dei nuovi movimenti, come quelli di Greta Tunberg, che sono più resistenti e dissidenti di quelli dei loro genitori. La dissidenza è ineliminabile. Questo l’abbiamo visto anche in società dove vigeva il totalitarismo più duro. Naturalmente il nostro problema è quello di far diventare quella che oggi è una minoranza, la maggioranza. In Francia, se guardiamo alle prossime elezioni presidenziali, è emerso nel dibattito politico il tema della decrescita. Alcuni anni fa, al contrario, non se ne poteva proprio parlare. Oggi tutti i candidati alla Presidenza della Repubblica devono prendere una posizione rispetto al progetto della decrescita: è chiaramente qualcosa da discutere. È una vera novità. Il cambiamento di immaginario sarà lento. Anche se la storia, come sempre, ci riserverà delle sorprese.

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L’indebitamento è uno dei meccanismi centrali che sorreggono l’economia capitalista, e, come ricorda anche Castoriadis a cui fai giustamente riferimento, è l’espressione più chiara dell’eteronomia umana nella nostra società: la dipendenza continua da qualcun altro o da istituzioni e gruppi sempre più importanti dal punto di vista del potere economico è un tratto distintivo del capitalismo di ultima generazione. Come possiamo decolonizzarci dell’immaginario del debito e delle istituzioni che lo assumono in sé?

Questa è proprio una conseguenza della colonizzazione dell’immaginario da parte dell’economia. Si parla sempre del debito o del problema del debito, o come pagare il debito. Tutto questo è un problema di contabilità. Ad ogni debito, infatti, corrisponde un credito. Se non si pagano quelli che detengono del debito gigantesco, che corrisponde a delle somme enormi, si produce una bancarotta. Ma cosa può succedere davvero? Guardiamo meglio la questione: chi ha del credito da riscuote non ha bisogno di quel denaro, e usa il debito come uno strumento per avere del potere, per esercitare il potere su chi l’ha contratto. Parliamo, per esempio, delle poche persone che, sommate insieme, detengono il 90% della ricchezza prodotta nel mondo. Nel XVI secolo, quando Carlo V è andato in bancarotta, i crediti non sono stati pagati ai banchieri di Genova. I debiti sono stati cancellati. Anche oggi sappiamo, e penso che tutti lo sappiano, che il debito non verrà mai pagato. Il punto rimane questo: come facciamo a uscirne? Secondo me è parte del processo di fuoriuscita dall’economia: il problema è che rimaniamo all’interno della logica del mercato e del capitalismo.

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Quindi la soluzione sarebbe quella di aspettare la catastrofe economica e non pagare il debito, giusto?

Sì. Intendiamoci però: il fallimento dell’attuale sistema economico sarà una catastrofe per tutti, a livello di vita quotidiana. Ma di bancherotte nella storia ne abbiamo vissute diverse. C’è qualcosa di cui gli storici dell’economia non parlano mai: diversi anni fa, il primo ministro islandese è andato a Davos e ha affermato: “In Islanda si vive molto bene, perché abbiamo cancellato il debito, e questa è la soluzione alla crisi economica”. Ma non se n’è parlato. Si dovrebbe rileggere bene la storia, ma purtroppo gli economisti non sono degli storici.

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