Negli scorsi giorni lo Stockholm Resilience Centre – un progetto di ricerca congiunta tra l’Università di Stoccolma e il Beijer Institute of Ecological Economics dell’Accademia Reale Svedese delle Scienze – ha certificato quello che la ricerca scientifica prevede da anni: la Terra ha superato il suo primo punto di non ritorno climatico. Con un riscaldamento medio globale di circa 1,4 °C, le barriere coralline tropicali hanno superato la soglia di stabilità termica stimata intorno a 1,2 °C. Da questo momento, vaste aree non si riprenderanno, anche se la temperatura globale dovesse stabilizzarsi. È il primo tipping point planetario osservato: un salto di stato irreversibile, non graduale.
La terribile notizia arriva a pochi giorni dall’avvio della Cop30 di Belém: la Conferenza annuale sui cambiamenti climatici indetta dall’Onu avrà al centro dell’agenda, dall’11 al 24 novembre, la finanza climatica e l’osservazione dei contributi nazionali sulla riduzione delle emissioni, a 10 anni di distanza dagli accordi di Parigi. Ma ciò che emerge dai risultati dello Stockholm Resilience Centre lascia pochi dubbi: la crisi climatica si avvia a diventare un collasso, dove al massimo la caduta può essere attenuata ma non arrestata.
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Un fallimento della politica
Il collasso dei coralli non è un evento naturale, ma un prodotto politico e finanziario che continua a sostenere l’economia fossile. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, nel 2022, i sussidi complessivi ai combustibili fossili hanno raggiunto i 7.000 miliardi di dollari, pari al 7,1% del PIL mondiale. Una cifra che dimostra come le politiche pubbliche continuino a socializzare i costi ambientali e sanitari e privatizzare i profitti.
Parallelamente, oltre 3.000 gigawatt di impianti rinnovabili restano bloccati in attesa di connessione alla rete, per mancanza di infrastrutture adeguate e procedure autorizzative lente, come denuncia l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA). E mentre si discute di obiettivi climatici, il Carbon Majors Database mostra che solo 36 imprese, perlopiù a controllo statale, sono responsabili di oltre metà delle emissioni globali da fossili e cemento. Pochi attori economici, quindi, determinano la traiettoria del riscaldamento globale.
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“Prima la sicurezza”
La pandemia e la guerra in Ucraina hanno riallineato le priorità governative di USA, Cina, Russia e Europa: prezzi bassi e forniture stabili hanno prevalso sulla riduzione delle emissioni. Una nuova sicurezza energetica militarizzata (non dimentichiamo il 5% del PIL sugli armamenti entro il 2035), che lega la politica climatica all’economia di guerra. Il fossile è diventato di nuovo strumento di potere geopolitico, con investimenti pubblici e privati che rafforzano filiere estrattive: gasdotti, terminali di GNL (impianti di rigassificazione di gas naturale liquefatto), trivellazioni offshore, rotte strategiche per il petrolio e i minerali critici.

Dietro la retorica della “transizione ordinata” e quindi un passaggio obbligato a nuove forme di produzione energetica e di consumo, si consolida un paradigma estrattivista: le stesse logiche che hanno devastato ecosistemi e comunità vengono replicate nei nuovi mercati dell’energia, dal gas alle materie prime per batterie e rinnovabili. In nome di questa “stabilità politica”, che non è altro che il nuovo paradigma del capitalismo sovranista, si sacrifica la giustizia climatica e la pace ambientale, spostando semplicemente il baricentro dello sfruttamento.
Come avverte il World Energy Outlook 2024, una panoramica della IEA (l’Agenzia Internazionale dell’Energia), le politiche energetiche attuali non sono coerenti con lo scenario necessario per limitare il riscaldamento globale a 1,5 °C sopra i livelli pre-industriali. Le infrastrutture fossili in costruzione e la pianificazione produttiva globale superano di oltre il doppio i limiti compatibili con la neutralità climatica, che non è l’azzeramento delle emissioni (impossibile da raggiungere), ma l’equilibrio tra le emissioni di gas serra prodotte dall’attività antropica e quelle assorbite dall’ambiente in un dato periodo di tempo.
Anche la diplomazia climatica si muove a rilento. La COP28 ha introdotto per la prima volta il richiamo a una “transitioning away from fossil fuels”, ma senza scadenze vincolanti né meccanismi di attuazione. La COP29 ha tentato di rilanciare la finanza climatica, ma i risultati restano insufficienti rispetto ai bisogni dei Paesi vulnerabili. Tutte le attenzioni si concentrano ora sulla COP30, che si terrà a Belém, in Brasile, dal 10 al 25 novembre. È la prima conferenza ospitata nel cuore dell’Amazzonia e avrà come tema centrale la giustizia climatica e la protezione delle foreste tropicali.
Ma è cruciale che all’interno di questo appuntamento trovi spazio anche una discussione strutturale sui tipping points climatici. Finora, la loro assenza dal linguaggio negoziale dell’ONU ha impedito di affrontare la crisi per ciò che è: un sistema di soglie e collassi interconnessi, non un semplice aumento lineare delle temperature.
I coralli come termometro del sistema terrestre
Le barriere coralline non sono un dettaglio tropicale. Ospitano un quarto della biodiversità marina e forniscono servizi ecosistemici da cui dipendono quasi un miliardo di persone – protezione costiera, pesca, turismo, sicurezza alimentare.
La loro perdita non è solo un dramma ecologico, ma un rischio economico sistemico.
Il Global Tipping Points Report 2025 prevede che il superamento della soglia del riscaldamento medio globale delle barriere coralline tropicali possa innescare un sistema a cascata di altri punti critici, come il collasso della foresta amazzonica, la dissoluzione delle calotte glaciali e il rallentamento della AMOC (Atlantic Meridional Overturning Circulation), la corrente oceanica che regola il clima europeo.
“La finestra per agire si sta chiudendo rapidamente”, avverte Tim Lenton, direttore del Global Systems Institute dell’Università di Exeter. “Ogni ritardo politico aumenta la probabilità di nuovi scatti irreversibili del sistema Terra.”
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Tipping point positivi: accelerare la transizione
Ci sono però anche segnali incoraggianti. In settori come fotovoltaico, eolico, veicoli elettrici, batterie e pompe di calore, i costi in calo e la crescita della domanda hanno innescato circuiti auto-rinforzanti: sono i cosiddetti tipping point positivi.
Come sottolinea Lenton, “possiamo ridurre drasticamente le emissioni di gas serra e deviare il mondo dai punti di non ritorno catastrofici, ma dobbiamo muoverci più in fretta”.

Si può ancora fare qualcosa?
Laura Pereira dello Stockholm Resilience Centre ricorda che “non possiamo affrontare la crisi climatica perpetuando gli stessi sistemi di ingiustizia e oppressione che l’hanno causata in primo luogo”. La transizione, per funzionare, deve essere socialmente giusta: finanziariamente accessibile, partecipata e redistributiva. Servono però leve pubbliche precise: standard di efficienza edile e nella produzione auto; appalti verdi, vale a dire una strategia di acquisto pubblico che privilegia prodotti e servizi eco-sostenibili; contratti per differenza, uno strumento finanziario, usato in particolare nel settore energetico rinnovabile, per garantire un prezzo minimo (o massimo) ai produttori, quindi ad esempio se un’azienda che produce energia solare sigla un Contratto Per Differenza con il governo a un prezzo di riferimento di €50/MWh e il prezzo di mercato scende a €40/MWh, lo Stato paga all’azienda €10/MWh aggiuntivi.
Se il mercato sale a €60/MWh, l’azienda paga allo Stato €10/MWh. Altra azione necessaria è la progressiva eliminazione dei sussidi fossili da parte dello Stato. Serve inoltre rafforzare la finanza climatica a sostegno dei Paesi del Sud globale e rendere vincolanti gli impegni presi durante le conferenze sul clima. Chimere? Probabile.
Il collasso delle barriere coralline è un segnale concreto di come la fisica del clima stia avanzando più rapidamente della politica. Ogni ritardo istituzionale si traduce in un aumento del rischio sistemico. La Cop30 di Belém sarà un momento decisivo per capire se la diplomazia internazionale è pronta a riconoscere, anche nel linguaggio operativo, la realtà dei punti di non ritorno climatici.
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