La lotta dell’Unione europea al greenwashing rischia di andare incontro a un’imprevista battuta d’arresto. Bruxelles negli ultimi anni ha lavorato per costruire un’impalcatura coerente a sostegno della finanza sostenibile: una serie di leggi affinché gli investitori siano messi in condizioni di sapere quanto verdi sono i loro investimenti e disclosure obbligatorie per banche, aziende e fondi di investimento, in modo da evitare che attività e investimenti vengano spacciati come verdi quando non lo sono.
Eppure, adesso, la Commissione potrebbe fare marcia indietro per quanto riguarda l’articolo 9 del regolamento SFDR (Sustainable Finance Disclosure Regulation), ovvero la direttiva che regola le disclosure obbligatorie per le banche e i gestori dei fondi di investimento. Non si tratta di un articolo marginale: è quello che regola la classe dei fondi di investimento green al 100%. Eliminarlo in blocco significherebbe togliere la misura più audace e capitolare davanti alle pressioni del mondo della finanza.
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I tre livelli di investimenti green
In base al regolamento SFDR, entrato in vigore nel 2021, i gestori dei fondi di investimento devono rendere pubbliche e dimostrare le credenziali di sostenibilità dei fondi di investimento nel loro portafoglio. Questi fondi sono classificati in tre categorie. Nell’articolo 9 del regolamento rientrano i fondi di investimenti “verde scuro” (dark green), quelli che mirano alla sostenibilità e alla decarbonizzazione. Nell’articolo 8 rientrano i fondi “verde chiaro” (light green), dove viene registrato l’avanzamento rispetto a uno o più obiettivi ambientali, sociali e di governance ma il denaro è investito anche in altre attività e, infine, fondi dell’articolo 6, che non hanno obiettivi specifici relativi agli investimenti sostenibili.
Nel gennaio del 2023 sono entrati in vigore gli standard tecnici di regolamentazione, o RTS, del Livello 2 della SFDR, che richiedono ai gestori dei fondi di divulgare maggiori informazioni sugli approcci ESG dei loro fondi, sui rischi di sostenibilità e sul loro impatto, all’interno dei documenti pre-contrattuali e nelle relazioni periodiche. In particolare, i fondi che si dichiarano articolo 9 possono avere all’interno solo investimenti sostenibili.
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I fondi di investimento fuori dall’articolo 9
Il rafforzamento dei criteri Ue ha costretto molti gestori di fondi, tra cui BNP Paribas, Blackrock, Amundi e Pictet a rimuovere l’etichetta green da 175 miliardi di euro di fondi investiti in soli tre mesi, riducendo le dimensioni del patrimonio dei fondi articolo 9 di quasi il 40%. In seguito a questi declassamenti la quota di fondi articolo 9 sul totale del mercato dei fondi dell’Unione europea è scesa dal 5,2% al 3,3%, mentre la quota dei fondi articolo 8 è passata al 52,2%, dal 48,3%.
Insomma, i fondi non erano, in realtà, così sostenibili come assicurato dai gestori. La loro giustificazione è stata che si è trattato di una decisione “preventiva”, ma allo stesso tempo hanno bloccato gli acquisti di investimenti green, sostenendo che la colpa è di Bruxelles e dell’ambiguità sui requisiti per verificare se gli investimenti effettivamente “non provochino danni significativi” all’ambiente o quanto contribuiscano al contrasto del riscaldamento globale.
Nessuna sorpresa perché l’attività di lobbying si fonda sul ribaltamento della prospettiva e l’uso fuorviante delle parole: l’esempio più semplice è l’utilizzo di gas naturale invece di gas fossile per indicare il metano. E quindi non sarebbe l’effettiva assenza di investimenti realmente green a far fallire il progetto dell’Unione europea di una finanza più sostenibile, ma gli stessi criteri di Bruxelles che restringono la platea di questi investimenti.
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La Commissione europea può fare marcia indietro
Il problema è che, secondo fonti finanziarie citate dal Financial Times, quotidiano generalmente critico sull’attività normativa dell’Unione europea negli ambiti finanziari, all’interno della Commissione ci sarebbero interlocutori convinti della necessità di eliminare l’articolo 9 dal regolamento SFDR. Cosa in realtà impossibile, perché la Commissione non può modificare il testo del regolamento.
Sarebbe necessario un cambiamento legale che solo il Parlamento europeo e il Consiglio europeo possono fare su stimolo della Commissione, ma è possibile che possa iniziare un percorso di revisione del regolamento SFDR dopo le prossime elezioni parlamentari tra un anno. La Commissione europea per il momento non ha comunicato nessuna risposta ufficiale alla domanda rivolta dai giornalisti sul destino dell’articolo 9.
Definizioni più precise: ma per combattere il greenwashing
Sicuramente una definizione più precisa dell’etichetta green degli investimenti ESG che vada oltre al principio del Do not significant harm e della lotta al cambiamento climatico sarebbe auspicabile: ma in senso opposto, per contrastare più efficacemente il greenwashing. Un fondo light green contiene, infatti, investimenti sostenibili e altri che non lo sono. Di fatto alcuni titoli e obbligazioni di società non sostenibili vengono “puliti” e inclusi nella categoria green, sebbene di colore chiaro: ma non è detto tutti gli investitori conoscano le classificazioni della SFDR e quindi potrebbero pensare di investire il loro denaro in maniera più sostenibile di quanto in realtà fanno.
Bruxelles ha promesso un ulteriore chiarimento il prossimo mese riguardo all’articolo 9. I gestori dei fondi di investimento, naturalmente, propendono per l’alleggerimento delle regole in modo da poter vendere un numero maggiore di fondi con l’etichetta green. Nel caso, tuttavia, l’interpretazione restasse quella più restrittiva, la maggior parte dei fondi non rientrerebbe nella categoria dark green.
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È importate affiancare la direttiva CSRD
Il regolamento SFDR è stato approvato prima della tassonomia verde, ma è proprio dalla tassonomia che possono essere estratte le definizioni più precise sull’investimento sostenibile. Tuttavia, proprio l’approvazione scaglionata nel tempo di normative legate alla finanza sostenibile ha contribuito all’incertezza ed è difficile contestare i gestori dei fondi di investimento quando criticano questo aspetto.
Per definire i loro fondi secondo gli articoli della SFDR devono, infatti, raccogliere tutti i dati ESG richiesti, come le emissioni di gas serra, i divari retributivi di genere e l’utilizzo dell’acqua, per le singole azioni e obbligazioni contenute nel fondo. Per farlo devono sapere, tuttavia, quale è il livello di allineamento delle controparti, ovvero le imprese. Per tante società di piccole e medie dimensioni, anche quotate in borsa, gli obblighi di divulgazione cominceranno però solo nel 2025, con l’approvazione della direttiva CSRD.
Per il momento, ad esclusione delle grandi aziende regolate dalla direttiva NFRD, le valutazioni si basano principalmente su divulgazioni volontarie e dati che i fondi richiedono direttamente alle aziende. Inevitabilmente ci sono problemi nella raccolta dei dati e quindi nella successiva definizione dei fondi: non è fermando tuttavia il processo, ma andando avanti, che questi problemi saranno risolti.
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