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domenica, Dicembre 22, 2024

10 anni fa il referendum che ha fermato, finora, il nucleare e provato ad estromettere privati e profitti dalla gestione dell’acqua

25 milioni di persone il 12 e 13 giugno 2011 votarono sì ai quattro referendum su acqua, nucleare, legittimo impedimento. Come andarono le cose? Cosa ne è oggi di quei voti?

Daniele Di Stefano
Daniele Di Stefano
Giornalista ambientale, un passato nell’associazionismo e nella ricerca non profit, collabora con diverse testate

Quattro schede: una rossa, una gialla, una grigia e una verde. Oltre 25 milioni di persone al voto – nonostante i ripetuti tentativi di sabotare la consultazione – per affermare l’acqua pubblica, contro il ritorno del nucleare e contro il legittimo impedimento. Siamo al 12 e 13 giugno di 10 anni fa, era il 2011, e il 54,8% degli aventi diritto si reca alle urne, certificato elettorale e documento alla mano, per far pesare la propria volontà su quattro specifici passaggi normativi.

Prima di entrare nel dettaglio delle norme, ricordiamo che stiamo scrivendo di uno degli ultimi grandi appuntamenti referendari che hannosuperato l’asticella del 50% +1: quelli costituzionali del 2016 (riforma Renzi-Boschi, 65% circa dei votanti) e 2020 (taglio dei parlamentari, 54% votanti) non prevedono infatti un minimo di votanti, mentre quello (ancora 2016) sulle concessioni per i giacimenti di idrocarburi ha portato al voto meno di un terzo degli aventi diritto (31%). Bisogna tornare indietro al 1995 per vedere il quorum raggiunto.

Scheda rossa. Acqua pubblica

Nato, come il quesito successivo, da un’iniziativa civica promossa dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua, questo quesito proponeva l’abrogazione di parte una norma (12 commi dell’art. 23 bis della Legge n. 133/2008) approvata dal governo Berlusconi che stabiliva come modalità ordinarie di gestione del servizio idrico l’affidamento a soggetti privati attraverso gara o l’affidamento a società a capitale misto pubblico-privato, all’interno delle quali il privato detenesse almeno il 40%. La norma inoltre prevedeva che le società miste collocate in Borsa, per mantenere l’affidamento del servizio, avrebbero dovuto diminuire la quota di capitale pubblico al 30%. Insomma il governo Berlusconi ha di fatto obbligato il passaggio a un gestore privata o mista pubblico-privato che ha dato il là alla mobilitazione popolare da cui nasce il referendum.

Scheda gialla. Acqua e profitto

Prevedeva l’abrogazione di parte dell’articolo 154 del Codice Ambiente (decreto legislativo n. 152/2006) che disponeva che la tariffa per il servizio idrico fosse determinata tenendo conto dell’“adeguatezza della remunerazione del capitale investito”. Insomma chi ha votato sì ha scelto di svincolare la gestione dell’acqua dal profitto.

Scheda grigia. Nucleare

Il quesito proponeva l’abrogazione delle nuove norme (decreto legge 25 giugno 2008, n. 112) inrodotte dal governo Berlusconi che consentivano la produzione nel territorio nazionale di energia nucleare. Nello specifico il quesito chiedeva di cancellare dal decreto legge “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria” la frase “realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare” che, dopo l’addio al nucleare sancito dal referendum del 1987, apriva la possibilità del ritorno in Italia dell’energia dell’atomo. Promosso dall’Italia dei Valori, la campagna elettorale venne affidata al Comitato “vota SI per fermare il nucleare” composto da una parte rilevante del mondo dell’associazionismo italiano, non solo ambientalista.

Scheda verde. Legittimo impedimento

Il quesito puntava a cancellare una delle diverse, e famigerate, leggi ad personam dell’allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi. Promosso dall’Italia dei Valori.

I tentativi – infruttuosi – di sabotare i referendum

L’11 marzo 2011 a Fukushima in Giappone, a causa di un terremoto e del conseguente maremoto, quattro esplosioni distruggono la centrale nucleare. Tutte le tv del mondo seguono la tragedia alimentando la diffidenza verso l’energia atomica. In Italia il quorum e la vittoria del sì al referendum sembrano a portata di mano. Il governo se ne rende conto e cerca di far saltare la consultazione: prova a farlo cambiando le norme oggetto del voto senza però fare marcia indietro sul ritorno al nucleare. Per evitare la consultazione, infatti, vengono approvati due decreti legge, uno per una moratoria sul nucleare, il secondo per uno stop in attesa “nuove evidenze scientifiche” sulla sicurezza delle centrali. I due decreti, però, non fanno altro che alimentare il partito del sì: l’Ufficio centrale per il referendum (presso la Cassazione) conferma infatti la consultazione.

I tentativi, più o meno regolari, non si fermano e procedono anche nelle giornate del voto.

Nella mattinata del 13 giugno, infatti, il ministro dell’Interno Roberto Maroni annuncia il raggiungimento del quorum. L’opposizione e i referendari gridano allo scandalo e acusano il ministro di grave scorrettezza: dietro le sue parole, dicono, c’è l’invito a non andare a votare con l’obiettivo di far saltare il quorum.

I festeggiamenti

I dati ufficiali raccontano di un 95,3% di sì contro la privatizzazione dell’acqua; 95,8 contro i profitti sull’acqua; 94,1% di sì contro il nucleare e 94,6 contro il legittimo impedimento. Prima ancora che vengono ufficializzati i risultati, quando il quorum appare certo al di là delle parole di Maroni, il dato schiacciante delle urne scende in piazza – a Roma in piazza Bocca della Verità – dove fino a notte fonda vanno in scena i festeggiamenti, tra musica e slogan – ono dei più efficaci è “Berlusconi colpito al Quorum”.

La dissolvenza del nucleare

Il sì al referendum sul nucleare sembra mettere l’Italia dalla parte giusta della storia. Sempre meno sono i GWh nucleari installati nel mondo, soprattutto se si mettono a confronto con la crescita delle rinnovabili. Secondo l’International Energy Agency (IEA), che pure affida al nucleare un ruolo importante nella decarbonizzazione dell’economia mondiale, esiste, nei Paesi ad economia avanzata con parco reattori vetusto, un caso di “dissolvenza del nucleare”: “È dimostrato che, senza azione, l’energia nucleare nelle economie avanzate potrebbe diminuire di due terzi entro il 2040”, scrive l’IEA. E per “azione” intende finanziamenti su nuove centrali. Finanziamenti non esigui, ci dicono recenti esperienze europee. Il caso del reattore pressurizzato europeo (EPR) di Flamanville (Francia) pone problemi da non da poco: doveva entrare in funzione nel 2013 ma verrà consegnato (pare) con 10 anni di ritardo. Doveva costare 3,3 miliardi ma ne costerà (pare) 12,4. Se consideriamo il calo repentino dei costi per le centrali eoliche e fotovoltaiche e per lo stoccaggio, queste cifre sembrano ancora più enormi.

Se questo non bastasse, la Commissione Europea ha bandito il nucleare dalla Tassonomia: gli investimenti nell’atomo, insomma, non possono essere considerati green e non possono rientrare né nel Green Deal né nei Recovery plan nazionali. Questo lo stato dell’arte ad oggi, nonostante le note pressioni francesi per forzare i confini della tassonomia. E se queste pressioni dovessero avere effetto, sottolinea come un mantra il ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani, cambiano le regole del gioco: il ministro infatti in alcuni interventi sembra non escludere mini reattori per l’Italia, salvo ricordare, ad un evento di SkyTg24 per la Giornata Mondiale dell’Ambiente, che “sul Nucleare abbiamo fatto due referendum e ci siamo pronunciati. Questa è l’unica cosa che conta”.

Referendum sull’aqua, per i promotori “un significato ancora attuale”

Diversa la vicenda dei due referendum sull’acqua che, a 10 anni da quello storico risultato, non hanno portato gli effetti attesi dai promotori.

Prima della consultazione la tariffa per la distribuzione dell’acqua era calcolata sulla base del capitale investito dal gestore. Dopo li referendum, Arera – l’Autorità di regolazione che stabilisce le tariffe per i gestori – ha sostituito la “remunerazione del capitale investito” con gli “oneri finanziari del gestore”, quindi il costo del denaro che il gestore investe. Metodo tariffario che ha resistito anche al ricorso dei movimenti per l’acqua pubblica.

“In piena pandemia, quella vittoria basata sulla difesa dei beni comuni e sull’affermazione dei diritti di tutt@ sui profitti di pochi, ha un significato ancora più attuale”, scrive sul manifesto il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua”. La cosiddetta ‘riforma’ del settore idrico contenuta nel Recovery Plan così come aggiornato dal governo Draghi punta ad un sostanziale obbligo alla privatizzazione, in particolare nel Mezzogiorno”. D’altronde, leggiamo ancora sul manifesto, “Draghi non ha mai dissimulato la volontà di calpestare l’esito referendario visto che solo un mese e mezzo dopo firmò insieme al Presidente della Banca Centrale Europea Trichet, la lettera all’allora Presidente del Consiglio Berlusconi in cui indicava come necessarie privatizzazioni su larga scala”.

Mentre alcuni osservatori hanno giudicano positivamente la mancata realizzazione degli obiettivi dei referendari, i movimenti per l’acqua continuano la loro battaglia, in Parlamento e in piazza, anche alla luce di studi come quello della CGIA di Mestre secondo il quale negli ultimi anni il costo delle tariffe sarebbe aumentato molto più del costo della vita, mentre gli investimenti “scendevano dal 58% al 40% sul margine operativo lordo”.

Acqua bene comune, in Parlamento

Erede della proposta di iniziativa popolare che i movimenti per l’acqua pubblica presentarono già nel 2007 con 400 mila firme è il disegno di legge “Disposizioni in materia di gestione pubblica e partecipativa del ciclo integrale delle acque” (52), prima firmataria Federica Daga (M5S), esaminato in commissione Ambiente della Camera dei deputati ne 2018 e 2019: il testo prevede di liquidare gli azionisti privati e trasformare la natura di tutte le società, attualmente di diritto privato, in enti di diritto pubblico. Non ci sarebbero, quindi, più società private o miste.

Acqua bene comune, in piazza

“A 10 anni dalla vittoria referendaria l’acqua è ancora sotto attacco”, recita una nota del Forum italiano per l’acqua. Che attacca, oggi come allora, il primo ministro: “Draghi sta provando con il PNRR a portare avanti le stesse privatizzazioni di allora, la finanza globale è sempre più spregiudicata nel fare profitto su questo bene comune mentre la crisi climatica impone una sempre più urgente inversione di rotta per la sua conservazione. In questo anno è stato ancora più chiaro che l’acqua è la prima cura e che senza diritti fondamentali la nostra società è sempre più fragile”. Per questo l’invito è a tornare in piazza – a Roma, 12 giugno ore 15,30 a Piazza dell’Esquilino – “per gridare che l’acqua bene comune si difende, oggi come ieri!”

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