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giovedì, Dicembre 26, 2024

3,7 miliardi di euro di prodotti elettronici invenduti sono stati distrutti in Europa nel 2022

Un’analisi pubblicata sul sito dello European Environmental Bureau analizza una pratica che “dilaga i tutta Europa”: la distruzione dell’invenduto, soprattutto quello elettronico, ma anche quello tessile

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Redazione EconomiaCircolare.com

Avete ordinato su internet un ferro da stiro e lo avete rispedito indietro perché nel frattempo avete scoperto che ne riceverete uno in regalo a Natale? Avete comprato su Amazon una videogioco ma non è quello che desideravate e lo avere reso? Bene. Dovete allora sapere che spesso, difficile dire quanto spesso, i prodotti dell’e-commerce resi, così come quelli invenduti rimasti nei magazzini dei negozi fisici, diventano rifiuti senza essere mai stati utilizzati. E vendono distrutti.

Il mese scorso, un’analisi pubblicata su Meta il news channel dello European Environmental Bureau (“Trashy tech: europe’s dirty secret of destroying unsold electronics”: Tecnologia spazzatura: lo sporco segreto dell’Europa che distrugge l’elettronica invenduta) e firmata da Sonja Leyvraz e Bich Dao di EEB torna a denunciare quello che viene definita “una delle pratiche di mercato più dannose per l’ambiente”. Proprio le dinamiche economiche e di mercato sono dietro questa scelte assurda dal punto di vista della sostenibilità ambientale, dello spreco di risorse ed energia (quelle necessarie per estrarre le materie prime, per realizzare il microonde e il videogioco, per imballarli, per trasportarli fino ai negozi o nelle nostre case e poi per distruggerli).

I numeri disponibili

Non esistono numeri ufficiali a riguardo. Nessuna imprese può essere orgogliosa di questa pratica: quindi ci dobbiamo accontentare di stime. “Nel 2022, tonnellate di prodotti elettronici nuovi e invenduti, con un valore stimato di 3,7 miliardi di euro, sono stati distrutti in Europa a causa di un eccesso di scorte, resi, obsolescenza o imperfezioni estetiche, invece di essere rivenduti o donati”, scrivono Leyvraz e Dao.

L’emittente internazionale tedesca Deutsche Welle nel 2020 citava dati francesi e tedeschi relativi all’intera famiglia dei beni di consumo, non solo quelli elettronici: “Non esistono stime a livello europeo sulla quantità di beni di consumo distrutti ogni anno, ma i governi francese e tedesco hanno recentemente citato stime molto diverse, come 630 milioni di euro in Francia nel 2014 e 7 miliardi di euro in Germania nel 2010”. La scala difforme dei dati lascia purtroppo il fenomeno in un limbo di incertezza che non giova alla battaglia di abbattere questo mostro prodotto dall’overproduzione capitalistica.

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I casi: dalla A di Amazon alla Z di Zara

In un documento del 2021 (Prohibiting the Destruction of Unsold Goods) EEB scrive: “Esempi di marchi legati alla distruzione su larga scala di merci invendute sono Amazon, Burberry, H&M e Zara. Oltre a questi, molti altri marchi e aziende sono finiti sui media con l’accusa di aver distrutto volontariamente i prodotti invenduti”.

Ad Amazon, in particolare in Spagna e Italia, Sonja Leyvraz e Bich Dao dedicano una maggiore attenzione.

In Italia, raccontano (citando anche l’inchiesta condotta da Rosario Daniele Guzzo, Elisabetta Muratori, Roberto Pisano e vincitrice del Premio Mani Tese per il Giornalismo Investigativo e Sociale 2019) Amazon ha distrutto fino a 100.000 prodotti invenduti al mese nel 2020, compresa l’elettronica. Spiegano che l’azienda nel tempo ha più che quadruplicato il prezzo di stoccaggio, spingendo i venditori esterni a eliminare rapidamente le scorte in eccesso: “Per sbarazzarsi della merce invenduta, l’azienda offre ai venditori due servizi: la restituzione per 0,25 euro per articolo o la distruzione per la misera cifra di 0,10 euro per articolo”. Tuttavia, sottolineano, “è improbabile che l’impatto di queste politiche venga alla luce, in quanto sono state riportate clausole di stretta riservatezza per le società di gestione dei rifiuti e per i dipendenti”.

In Spagna, “solo nell’area di Madrid vengono distrutti ogni giorno cinque rimorchi di prodotti, la maggior parte dei quali di elettronica”, fanno sapere. “Per i prodotti che arrivano ad Amazon con danni minori (anche all’imballaggio) o cavi mancanti, il costo della distruzione verrebbe soppesato rispetto al costo del reimballaggio o della riparazione per la rivendita o la restituzione al produttore: una battaglia difficile da vincere quando alcune sedi offrono il servizio di distruzione dei prodotti gratuitamente”.

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I motivi dietro i beni invenduti o resi che vengono distrutti 

Per i venditori, leggiamo ancora su Meta, “è più conveniente gettare via i prodotti restituiti piuttosto che rimetterli sugli scaffali (virtuali o fisici)”. Un’azienda che offre servizi di distruzione dei prodotti, riferiscono Leyvraz e Dao, afferma che spesso i prodotti, compresa l’elettronica di consumo, “vengono distrutti anche se non hanno nulla che non va, semplicemente perché è più economico e veloce rispetto all’ispezione, al reimballaggio e alla rivendita”. “La ricerca di margini di profitto in un settore ipercompetitivo – commentano – ha portato a modelli di business con pratiche distruttive integrate come misura di riduzione dei costi. La pressione a distruggere le merci proviene spesso dai mercati online che mirano a tagliare i costi agendo come intermediari tra i consumatori e i rivenditori”.

Tra le altre ragioni, la pratica di disfarsi del bene è probabilmente incoraggiata dal fatto che “le piattaforme online non sono ancora soggette agli stessi requisiti ambientali e di consumo degli altri venditori e produttori dell’UE”. Unaltro studio EEB afferma che  “si teme che il settore del commercio elettronico abbia alterato la parità di condizioni nel settore della vendita al dettaglio, con prove sempre più evidenti che alcune aziende di e-commerce (intenzionalmente o meno) sfruttano le lacune normative che conferiscono vantaggi economici rispetto alle vie di vendita tradizionali. […] Questo fenomeno è particolarmente evidente quando i produttori di Paesi terzi spediscono i prodotti direttamente ai consumatori dell’UE, senza nominare un operatore economico all’interno dell’UE che sarebbe responsabile per i prodotti non conformi. La mancanza di chiarezza giuridica sui ruoli e le difficoltà di intraprendere un’azione legale contro le aziende dei Paesi terzi, lasciano aperta questa lacuna legislativa”.

Altro motivo che porta a disfarsi dei beni non venduti è legato alle aspettative di noi consumatori, alla concorrenza spietata e ai costi di magazzino. Leggiamo ancora su Meta che “secondo uno studio svedese sulla distruzione di prodotti elettronici e tessili invenduti, per soddisfare le richieste dei consumatori in pochi giorni, un’aspettativa normalizzata nel mercato odierno, gli acquisti in massa e le scorte eccessive portano alla distruzione dei prodotti per gestire le scorte e migliorare il margine di profitto”.

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Un assurdo spreco a più livelli

A chi ha un minimo di sensibilità ambientale, leggere storie del genere produce senza dubbio turbamento se non rabbia: sono evidente infatti le conseguenze legate alla materia e all’energia estratte, prodotte e consumate senza motivo. Ma lo speco, riflettono Leyvraz e Dao, agisce a vari livelli: “In primo luogo, molti beni sono perfettamente funzionanti e potrebbero essere utilizzati; in secondo luogo, l’intera impronta ambientale dei dispositivi, comprese le preziose risorse che contengono, va sprecata; infine, si perde un’opportunità per il crescente settore europeo del riutilizzo e della riparazione”.

“La soluzione deve arrivare dall’Europa”

“Un malcostume che riguarda tutta l’UE ha bisogno di una regolamentazione a livello europeo”, scrivono i due autori. Che ricordano i tentativi dei governi belga, francese e tedesco di bloccare la pratica a livello nazionale. Ma vendere nel mercato unico europeo significa che i trasgressori possono semplicemente spostare la loro pratica dal Paese con restrizioni a quello confinante, dove le restrizioni non ci sono. “Nel caso della Germania e del Belgio, continuano ad arrivare notizie di distruzione di merci invendute”.

L’auspicio di EEB è che il regolamento Ecodesign (L’Ecodesign for Sustainable Products Regulation – ESPR) vietasse la pratica. Purtroppo, però, le sacrosante richieste delle associazioni ambientaliste sono state accolte solo in parte. All’inizio di dicembre, infatti, il Parlamento e il Consiglio Ue hanno raggiunto un accordo provvisorio sul regolamento Ecodesign, in cui viene sì introdotto il divieto di distruggere i prodotti invenduti, ma questo divieto riguarderà solo l’abbigliamento e le calzature. Si legge nella nota stampa del Parlamento e del Consiglio che “gli operatori economici che distruggono i beni invenduti dovranno comunicare annualmente le quantità di prodotti scartati e le relative motivazioni. I negoziatori hanno concordato di vietare specificamente la distruzione di abbigliamento, accessori di abbigliamento e calzature invenduti, due anni dopo l’entrata in vigore della legge (sei anni per le medie imprese)”. In futuro, prosegue la nota, “la Commissione potrebbe aggiungere altre categorie all’elenco dei prodotti invenduti per i quali dovrebbe essere introdotto un divieto di distruzione”. C’è da augurarsi che lo faccia in fretta.

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