venerdì, Dicembre 5, 2025

Anche alla COP30 la “mucca nella stanza” è rimasta invisibile

Ad una settimana dalla chiusura dei negoziati della COP30 sul clima, un bilancio su quanto (non) è stato fatto per il necessario cambiamento degli stili alimentari verso diete sostenibili

Lorenzo Bertolesi
Lorenzo Bertolesi
Autore e attivista con base a Milano. Ha una laurea in filosofia con una tesi (vincitrice di una borsa di studio) nell'ambito "Human-animals studies". Lavora nella comunicazione digitale da anni, principalmente per diverse ONG come ufficio stampa, copywriter e occupandosi della gestione dei social. Ora è un freelance che, insieme al collettivo Biquette, si occupa di comunicazione digitale per progetti ad impatto sociale. Addicted di Guinness e concerti (soprattutto punk), nel tempo libero viaggia con il suo furgoncino hippie camperizzato insieme alla cagnolina Polly

La COP30  ha deluso molto, in particolare perché non è riuscita a pubblicare la tanto attesa road maps di uscita dai combustibili fossili. Ancora più deludente è stato quanto è successo sul tema dei sistemi alimentari, in particolare quando parliamo di allevamenti e riduzione delle emissioni inquinanti.

Una vecchia storia. Perché alla fine tutte le pressioni delle lobby dell’agribusiness sono riuscite a non far intervenire per cambiare rotta sul modo in cui produciamo il cibo e ridurre il suo impatto ambientale.

Cosa ha deciso la COP30 sui sistemi alimentari 

Nel testo finale concordato a Belém il tema cibo appare solo in riferimento alla produzione alimentare resiliente al clima, quando si parla di adattamento. Viene cioè nominato quindi solo una volta.

Non è stata presa nessuna misura vincolate per ridurre l’impronta climatica dei nostri sistemi alimentari – nonostante la comunità scientifica sottolinei l’impossibilità di rimanere sotto la soglia di 1,5 gradi senza intervenire sull’agricoltura. 

Questo non significa che di cibo e agricoltura non si sia parlato. Ma c’è stato moltissimo fermento sul tema. Diverse ONG hanno provato ad organizzare eventi che parlassero di soluzioni sistemiche, come promuovere l’agroecologia, il sostegno ai piccoli agricoltori e il diritto al cibo. Anche le proteste di piazzafinalmente tornate alle COP – hanno parlato di cibo: gruppi di giovani, comunità indigene e attivisti climatici hanno marciato chiedendo anche una Food System Justice e denunciando l’influenza delle grandi aziende sui negoziati. Leggendo le molte notizie e comunicati che sono usciti durante le giornate della COP ci poteva essere infatti qualche speranza. Per esempio l’European Environmental Bureau, insieme ad altre organizzazioni, ha diffuso comunicati durissimi sulla necessità di affrontare di petto la questione del nostro sistema alimentare legate al metano.

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Qualcosa di interessante, anche se non vincolante

Il principale canale formale per discutere di agricoltura, il programma ONU noto come Sharm el-Sheikh Joint Work on Implementation of Climate Action on Agriculture and Food Security, avviato alla COP27, si è bloccato a Belém: i colloqui tra i paesi non hanno prodotto nessun risultato concreto e le discussioni sono state rinviate a giugno 2026. Anche il testo provvisorio prodotto riflette diverse problematiche e contraddizioni. Da un lato sono valorizzati approcci come l’agroecologia, l’integrazione dei saperi indigeni e la resilienza dei piccoli agricoltori, ma dall’altro sono state inserite soluzioni molto controverse, come l’agricoltura di precisione (uso di big data, sensori e intelligenza artificiale), gli offset di carbonio e l’intensificazione tecnologica delle coltivazioni. Insomma, alcune delle classiche “false soluzioni”, cioè innovazioni tecnologie che permettono di continuare con pratiche insostenibili evitando trasformazioni strutturali.

Accanto ai negoziati formali si sono però moltiplicate molte iniziative volontarie.
La prima è la campagna UNEP “Food Waste Breakthrough”, con l’obiettivo di dimezzare lo spreco alimentare entro il 2030, diretta più che altro ai consumatori.  Un’altra importante è la Dichiarazione di Belém su Fame, Povertà e Azione Climatica, sottoscritta da 44 paesi. La dichiarazione riconosce l’impatto del cambiamento climatico sull’insicurezza alimentare e chiede maggiori investimenti per rafforzare la resilienza delle comunità rurali.

Più audace e innovativa è stata l’azione della TAPP Coalition, una coalizione formata da 28 paesi, tra cui molte nazioni africane e piccole isole del Pacifico. Questa alleanza ha proposto di introdurre strumenti fiscali per far pagare alla carne e ai latticini il loro impatto ambientale, come tasse sul consumo interno o dazi climatici sulle importazioni. L’idea è di reinvestire il 20–50% di queste entrate nel nuovo fondo ONU per “loss and damage”, aiutando i paesi più vulnerabili a fronteggiare i danni climatici. La coalizione ha inoltre chiesto di istituire un nuovo quadro negoziale specifico sui sistemi alimentari all’interno delle future COP.

Personalmente credo che qui ci sia una delle cose più interessanti uscite alla COP30, un segnale positivo che anche alcuni Stati stiano prendendo seriamente questi temi come prioritari. Purtroppo fa rabbia che queste proposte alla fine non siano arrivate nel testo finale.

Il Brasile ha avuto un ruolo di primo piano con due iniziative. La prima, chiamata RAIZ (Resilient Agriculture Investment for Net-Zero Land Degradation), è nata per promuovere il ripristino dei suoli agricoli degradati nel Sud globale, attraendo finanziamenti pubblici e privati. Il progetto si ispira a politiche agricole brasiliane già esistenti e punta a mobilitare fino a 90 miliardi di dollari, con l’obiettivo di rigenerare milioni di ettari e migliorare la sicurezza alimentare. La seconda è FIRST (Farmer’s Initiative for Resilient and Sustainable Transformations), lanciata da una coalizione di paesi del Sud del mondo, con il sostegno di FAO e UNEP. Questo programma si concentra sulla riduzione delle emissioni agricole di metano e protossido di azoto, due gas serra potentissimi prodotti dagli allevamenti e dai fertilizzanti chimici. FIRST prevede supporto tecnico, formazione e strumenti finanziari per aiutare gli agricoltori a intraprendere la transizione, con una particolare attenzione agli agricoltori familiari e ai piccoli produttori, anche se sappiamo che le grandi dell’agribusiness non stanno prendendo impegni concreti sul metano.

Iniziative interessanti, ma la loro efficacia dipenderà dalla volontà politica dei governi e dalla capacità di metterle in pratica.


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Cosa si è deciso sul metano che proviene dalla produzione di carne?

Ancora una volta nessun impegno vincolante sulla produzione di carne e derivati e sul metano che questa causa – sul perché sia un problema ne abbiamo parlato tante volte, se volete approfondire. Anche alla COP30 quindi la “mucca nella stanza” è rimasta invisibile.

Nessuna riduzione degli animali allevati, nessun obbligo sulla riduzione di carne nelle diete globali, soprattutto degli Stati che ne consumano di più. Anzi, molte strategie discusse si sono concentrate su mitigazioni tecniche e incrementi di efficienza produttiva, evitando di affrontare direttamente il nodo dei modelli alimentari basati su proteine animali. 

Il rapporto ONU presentato in conferenza ha riconosciuto che esistono molte strade da percorrere. Parlano di migliorare la gestione dei reflui zootecnici, cambiare la dieta del bestiame (per esempio inserendo additivi anti-metano), selezionare razze meno “emissive”, ridurre la deforestazione per pascoli, fino a pratiche agroecologiche che aumentino il sequestro di carbonio nei suoli. Come avevamo anticipato l’industria aveva preparato un piano di comunicazione volto a sponsorizzare proprio queste soluzioni per ridurre l’impatto della produzione di carne, che però non comporta nessun cambio sistemico. E possiamo dire che ha avuto il suo effetto. Addirittura JBS, che ricordiamo essere il più grande produttore di carne al mondo, ha guidato un gruppo di lavoro sui sistemi alimentari, elaborando proposte politiche che hanno sottoposto ai governi durante la COP30. Ovviamente l’idea alla base è quella che abbiamo appena elencato: aumentare la produzione di cibo attraverso innovazioni tecnologiche.

Durante COP30 nella Ministeriale sul Metano del 18 novembre si è evitato di menzionare esplicitamente la necessità di ridurre produzione e consumo di carne, concentrandosi invece su impegni generali e partnership volontarie. Anche l’iniziativa FIRST, di cui abbiamo parlato prima, non tocca il tema sensibile della diminuzione degli animali allevarti e di un aumento delle proteine vegetali.

Un segnale interessante è arrivato con l’iniziativa FAIRR (una rete di investitori responsabili) che ha ribadito che l’allevamento intensivo rappresenta un rischio climatico e finanziario crescente e chiede alle aziende maggior trasparenza e piani di transizione. 

Lo sappiamo che la riduzione del metano è fondamentale e che gli allevamenti sono direttamente responsabili dell’emissione di questo gas, ma solo il 4% dei NDCs include obiettivi quantificati e con scadenza per la riduzione del metano agricolo. Ma com’è possibile che questo avvenga?

La risposta ha a che fare direttamente con il lavoro di lobby da parte dell’industria della carne.

L’influenza dell’industria della carne alla COP30


L’influenza dell’agribusiness a COP30 è stata come previsto molto forte. Come ha rivelato un’inchiesta di DeSmog, le industrie hanno portato ai negoziati principali oltre 300 lobbisti a Belém, per capirci più dei delegati del Canada. E solo quelli legati all’industria della carne ne contano 72, più di qualsiasi altro settore dell’agroindustria. La cosa più grave – come ha denunciato la campagna Clean the COP voluta da A Sud, EconomiaCircolare.com e Fondazione Openpolis – è che il 25% di loro entra nella COP come “delegato ufficiale” di uno Stato, non come azienda o ONG e questo dà loro più accesso e più potere nei negoziati.

Facciamo qualche nome di chi c’era. Le tre principali aziende brasiliane (JBS, MBRF e Minerva) hanno portato 13 delegati, otto dei quali dentro la delegazione governativa. C’è poi l’ABIEC, l’associazione che rappresenta quasi tutte le aziende brasiliane che esportano carne bovina, la CNA, la più potente lobby agricola del Brasile, che ha portato 30 lobbisti alla COP30. Infine c’è il Meat Institute USA, che rappresenta il 95% degli impianti americani di macellazione ed è uno dei principali oppositori delle normative climatiche negli Stati Uniti.

E non è tutto: perché oltre alla Blue Zone del vertice ufficiale (quindi dove avvenivano i negoziati della COP) i lobbisti sono attivi in vari punti della città. Avevamo già parlato dell’AgriZone, il padiglione “parallelo” dedicato all’agricoltura sostenibile, che in realtà è la vetrina dell’agribusiness. Qui si sono tenuti panel, workshop e incontri dove si è sostenuto la narrazione secondo cui innovando l’agricoltura riuscirà a impattare di meno senza ridurre la produzione, questo mentre la deforestazione e la produzione di carne continua a danneggiare l’ambiente. E in questo padiglione hanno stimato la presenza di altri 60 lobbisti dell’agricoltura industriale. Molta polemica c’è stata anche attorno a una grigliata di carne organizzata proprio in questo spazio.

Ma non è tutto. L’industria della carne alla COP30 ha portato anche influencer e creator, anche grazie a specifiche agenzie di comunicazione, per una strategia precisa: usare volti popolari per raccontare l’allevamento intensivo come “sostenibile” e normalizzare il consumo di carne durante un vertice sul clima. Video, cooking show, contenuti sponsorizzati: tutto per spostare la percezione pubblica mentre i negoziati si tengono a pochi metri di distanza.

Quello dell’industria della carne – ma in generale delle giganti delle agrobusiness – è stato quindi un attacco combinato che alla fine ha colto nel segno: nessuna menzione su progressi sistemici e chiave che obbligheranno la riduzione degli animali allevati nel mondo o un cambio di diete verso modello davvero sostenibili. 

Leggi anche: Alla COP30 sul clima un lobbista delle fossili ogni 25 delegati

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