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sabato, Novembre 30, 2024

Bistecca in salsa greenwashing: come l’industria degli allevamenti nasconde il suo impatto ambientale

Dalla pubblicità ingannevole alle pressioni delle lobby, così l’industria della carne cerca di nascondere sotto il tappeto il proprio impatto

Lorenzo Bertolesi
Lorenzo Bertolesi
Autore e attivista con base a Milano. Ha una laurea in filosofia con una tesi (vincitrice di una borsa di studio) nell'ambito "Human-animals studies". Lavora nella comunicazione digitale da anni, principalmente per diverse ONG scrivendo come ufficio stampa e occupandosi della gestione dei social, ma da tre anni è fisso a Essere Animali. Addicted di Guinness e concerti (soprattutto punk), nel tempo libero viaggia con il suo furgoncino hippie camperizzato insieme alla cagnolina Polly

Da bambino mi stupivo quando vedevo le persone fumare, nonostante sui pacchetti fosse scritto a caratteri cubitali “il fumo uccide”. Quando erano comparse queste scritte in Italia avevo poco più di 10 anni, quindi per me questa era un’informazione data per certa, incisa nella pietra da sempre e per sempre – ma mi sbagliavo.

Ero infatti rimasto colpito quando la mia insegnante ci aveva raccontato come nei decenni precedenti ci fosse stato un acceso dibattito su questo tema. E questo perché l’industria del tabacco era riuscita a falsificare risultati medici, creare studi ad hoc per dimostrare che il fumo non era dannoso – e pensavo “E questo solo per soldi?”.

Il mio ingenuo stupore non se ne è mai andato, anche se sicuramente ha ricevuto lezioni difficili. E ho reagito allo stesso modo quando erano fuoriusciti i documenti che dimostravano che Exxon già circa 20 anni fa sapeva che l’uso dei combustibili fossili avrebbe portato all’aumento della temperatura globale. “Già, questo solo per soldi?”

Forse non è solo una questione di soldi, ma anche di potere o altro, ma una cosa è certa: ci sono industrie che negli anni hanno affinato tecniche di manipolazione delle informazioni, di influenza politica e scientifica, tali da nascondere al pubblico il vero costo dei loro prodotti. La questione è molto grave, soprattutto quando, come nel caso dei combustibili fossili, questa ha un impatto negativo su tutta la società e sull’ambiente naturale.

Per questo non sono rimasto stupito – e addio alla mia ingenuità – quando ho scoperto che anche qualcun altro che sta facendo di tutto per nascondere il suo vero impatto ambientale: l’industria della carne e dei derivati animali come latte e uova.

Il greenwashing è una cosa seria

Sarebbe proprio da queste grandi maestre – le industrie dei combustibili fossili, del tabacco e dei pesticidi – che l’industria della carne avrebbe appreso tutti gli strumenti del caso, utili per presentare i propri prodotti come qualcosa di necessario e che fa bene all’ambiente – anziché distruggerlo.

Una corposa indagine condotta da DeSmog, sito di news specializzato sulla disinformazione climatica, ha analizzato come le principali aziende di carne abbiamo affinato strumenti precisi e tecniche per cambiare la narrazione dei loro prodotti. L’obiettivo non è solo mostrare che la carne e i derivati siano di fatto necessari per la sicurezza alimentare, ma che siano addirittura sostenibili e che tutelino il rispetto degli animali – che, ricordiamolo, comunque vengono macellati. E questo sì, solo per soldi: perché queste strategie di manipolazione si basano sulla possibilità di far aumentare sempre di più la produzione globale di carne nel mondo – contrariamente a tutte le raccomandazioni che vengono fatte da sempre più studi scientifici sul tema.

A partire dall’analisi di centinaia di documenti, DeSmog ha stilato alcune tecniche che più di altre sono usate dall’industria: minimizzare, screditare, sponsorizzare e innovare (ricordatevele, torneranno per tutto l’articolo). Vediamole.

  • Minimizzare: ridimensionare sempre l’impatto ambientale degli allevamenti, facendo invece leva sui presunti benefici economici e nutrizionali della carne.
  • Screditare: sottolineare i dubbi sull’efficacia delle alternative alla carne nel contrastare la crisi climatica, promuovendo invece la carne come parte di una dieta sana ed equilibrata.
  • Sponsorizzare: promuovere i presunti benefici della carne per la salute, trascurando l’impatto ambientale del settore del bestiame.
  • Innovare: esagerare l’efficacia delle innovazioni nel ridurre l’impatto ambientale della produzione di carne.

L’obiettivo di tutte queste strategie viene poi messo in pratica in modo capillare: dall’informazione al grande pubblico fino al lavoro di lobby politica. Manipolare le informazioni, distorcere la realtà e fare pressione affinché della carne non si veda nulla di negativo. Questo – ricordiamolo – per continuare a produrre sempre di più, rifilando ai consumatori favole di un prodotto sostenibile, necessario e benefico, per chi lo mangia e il Pianeta.

Tutto questo è un’invenzione? Purtroppo no. Vediamo nel concreto alcuni casi – smascherati – che mostrano come agisce davvero l’industria della carne.

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Pubblicità ingannevole: carne di maiale a “basso impatto ambientale”

Nella sua essenza il greenwashing è una menzogna – un’azienda dice che un prodotto è sostenibile, peccato che non sia così. Svelare questo inganno è di primaria importanza, per questo ciò che è successo in Danimarca è molto interessante.

La Danish Crown, il più grande produttore europeo di carne di maiale, aveva iniziato a vendere la sua carne con un adesivo rosa in cui la presentava come “a impatto climatico controllato” (climate-controlled pork).

Un’affermazione che ha fatto subito storcere il naso a chiunque sappia quanto costa all’ambiente la produzione di carne di maiale – è la terza fonte proteica più inquinante per l’ambiente, dopo la carne bovina e il latte vaccino. Questa etichettatura fa ancora più rabbia sapendo che ogni anno la Danish Crown macella circa 19 milioni di maiali e che solo nel 2021 ha emesso circa un terzo di tutte le emissioni totali della Danimarca.

In che senso quindi la carne era a “clima controllato”? Semplicemente non lo era.

Grazie all’azione legale intentata da diverse organizzazioni ambientaliste e animaliste, il caso è finito in tribunale. E qui l’Alta Corte Danese ha condannato l’azienda per pubblicità ingannevole. La certificazione sulle confezioni non proveniva da nessuna valutazione ambientale fatta da enti indipendenti – bensì era un’affermazione fatta dalla Danish Crown stessa. Un po’ come darsi una pacca sulla spalla da soli e dire “Bravo!”

Il tribunale ha stabilito che questa etichetta fosse una piena violazione delle leggi sul marketing, perché era in grado di distorcere in modo significativo il comportamento delle persone alla ricerca di cibi sostenibili.

Insomma, a causa di questa condanna l’azienda ha dovuto pubblicamente ammettere di aver ingannato i consumatori. La domanda che mi sono fatto è stata: ma senza questa sentenza, come sarebbero andate le cose?

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Foto: Canva

Manipolazione dei dati scientifici: le accuse alla FAO

Negli ultimi mesi la FAO è stata al centro dell’attenzione perché accusata – prima da un’inchiesta di ex dipendenti e poi da alcuni ricercatori – di aver favorito in passato, ma ancora ora, gli interessi dell’industria della carne.

La FAO, in quanto agenzia delle Nazioni Unite, gioca un ruolo fondamentale nella promozione delle politiche alimentari globali e i suoi input sulla transizione verso un sistema alimentare più sostenibile hanno molta autorevolezza. Per questo è particolarmente preoccupante che il suo lavoro – fatto di raccolta di dati, analisi, coordinamento e proposta di politiche – sia fortemente influenzato da questi interessi: come possiamo sperare che questa transizione avvenga realmente?

Partiamo però dall’inizio. Nel 2006, circa una ventina di anni fa, la FAO aveva svelato il vero peso ecologico della produzione di carne, latticini e derivati animali in un report che aveva fatto storia – “Livestock’s Long Shadow”. Per la prima volta, infatti, gli allevamenti venivano analizzati come un’industria chiave nel causare la crisi climatica: il rapporto aveva calcolato  che ben il 18% delle emissioni globali di gas serra era frutto di queste strutture.
Negli anni seguenti però la FAO ha ridotto progressivamente questa percentuale arrivando a dichiarare l’allevamento responsabile nel suo complesso dell’11,2% delle emissioni globali – che comunque, non sono poche.

A cosa è dovuto questo ribasso? Errori di calcolo? Nuove tecniche di riduzione delle emissioni? No, è il frutto del lavoro di pressione della lobby della carne. A confermalo è stata una corposa inchiesta del Guardian in cui ben 20 ex lavoratori di questa organizzazione hanno denunciato, in forma anonima, di essere stati sabotati e censurati per un decennio dopo aver pubblicato il report nel 2006.

Secondo quanto raccontato al Guardian, un esercito di lobbisti aveva iniziato a presidiare i vertici della FAO dopo il report citato, esercitando una grande influenza sulle pubblicazioni e sui fondi per la ricerca. Gli ex funzionari parlano di forti pressioni, censura, di tentativi di soffocare e reprimere le proprio ricerche. Il risultato? Ricerche e pubblicazioni cancellate, o riscritte e diluite nei passaggi che avevano come focus proprio gli allevamenti.

La preoccupazione più grande di molti studiosi non è stata però il sabotaggio della loro carriera, bensì l’impatto dannoso di questi allevamenti: se l’attuale stima della FAO è appunto dell’11% circa, altri studiosi dicono che le emissioni di gas serra derivanti dai prodotti animali sono comprese tra il 16,5% e il 28,1%.

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La risposta di alcuni ricercatori

Come poter controbattere a un’istituzione come la FAO? Ci hanno provato due accademici, con una lettera di accusa. Paul Behrens – professore associato presso l’Università di Leiden – e Matthew Hayek – professore presso la New York University – hanno scritto una lettera accusando la FAO di aver “fortemente distorto” i dati dei loro studi (che hanno un ruolo chiave nella definizione dell’impatto degli allevamenti), solo per difendere l’industria della carne.

Durante la COP28 infatti la FAO aveva pubblicato un rapporto dedicato all’impatto degli allevamenti sulla crisi climatica e sul potenziale dell’alimentazione vegetale nel ridurre le emissioni nocive. Questo testo è stato elogiato dai lobbisti dell’industria della carne, definito come “musica per le nostre orecchie” — e ora capiamo il motivo.

Nel rapporto sono citati vari studi scientifici, tra cui quelli dei professori Paul Behrens e Matthew Kayek. Gli errori della FAO, secondo gli studiosi, avrebbero portato a sottostimare il potenziale di riduzione delle emissioni derivante dalla diminuzione dell’allevamento fino a un fattore tra 6 e 40 volte. Parliamo di cifre immense, che nascono da un uso intenzionale – e omissivo – di dati fondamentali.

Alcuni miti da conoscere – per sfatarli

In un interessante articolo su queste tematiche il giornalista Joe Fassler ha identificato alcuni dei falsi miti che l’industria della carne diffonde per convincere consumatrici e consumatori sui benefici del consumo di questo alimento e sul fatto che non ci sia da preoccuparsi dell’impatto ambientale – come dicevo parlando delle tecniche identificate da DeSmog, sponsorizzare e minimizzare.

Attraverso l’analisi di articoli, editoriali, blogpost, video e schede informative di settori legati all’industria della carne sono emersi almeno 3 falsi miti che difendono la produzione di carne bovina – in questo caso negli USA, ma che sono arrivati anche qui. Secondo questa lettura distorta, non solo ridurre la produzione non serve per mitigare le emissioni ma anzi, potrebbe danneggiare il progresso ambientale.

Uno dei miti più interessanti è: perché occuparci del cibo quando i primi responsabili della crisi climatica sono i combustibili fossili? Se da un lato è vero che è necessario intervenire urgentemente sull’industria fossile, ciò non ci impedisce di impegnarci anche su altri fronti – e anzi, non giustifica il tenere in vita un’industria dannosa. Tra l’altro questa argomentazione è stata anche smentita da un autorevole studio di Science, secondo cui ridurre il consumo di carne sarebbe l’unico modo per rispettare gli accordi di Parigi. Un altro studio ha mostrato il potenziale che avremmo se nei prossimi 15 anni eliminassimo tutti gli allevamenti intensivi a favore di un’alimentazione vegetale: l’effetto sarebbe un congelamento di 30 anni della CO2 in atmosfera – questo ci darebbe tempo per intervenire anche sulle altre fonti di inquinamento.

Un altro importante mito da sfatare riguarda il metano. Questo gas, insieme all’ammoniaca, è uno dei principali problemi ambientali relativi agli allevamenti intensivi – soprattutto di bovini che ne emettono molte quantità attraverso la digestione. Il metano, sebbene rimanga in atmosfera circa una ventina di anni, ha un potere climalterante superiore di circa 85 volte alla CO2, che invece rimane in atmosfera per generazioni. Ed è proprio su questa finestra temporale che l’industria insiste, praticamente con la stessa argomentazione usata per i combustibili fossili: occupiamoci della CO2, non del metano. Anche perché – dicono loro – tenendo un numero stabile di animali allevati, la quantità di metano sarebbe stabile negli anni, quindi non ci sono problemi di aumento delle temperature. Chiaramente però questo argomento non ha senso: ridurre il numero di bovini allevati ridurrebbe la produzione di metano e porterebbe a un vantaggio immediato in termini di contenimento delle temperature. Insomma, minimizzare sempre.

Infine un altro argomento specifico riguarda tutte le ricerche volte a fare in modo che le mucche allevate producano meno metano – le innovazioni del futuro. Tra i celebri esempi arrivati alla cronaca troviamo l’uso di alghe marine come additivo per i mangimi, l’uso di bio-digestori per il letame o ancora l’uso di una speciale lettiera che dovrebbero usare le mucche. Queste soluzioni, ancora in fase di test, non avrebbero comunque l’efficacia di una riduzione degli animali allevati – una soluzione praticamente molto più rapida tra l’altro e che non costa milioni in ricerca scientifica. Ancora una volta questo è un tentativo di spingere ulteriormente sull’acceleratore della produzione.

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Foto: Canva

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Responsabilità e possibilità: noi o loro?

Leggendo anche solo questi casi possiamo osservare all’opera alcuni degli schemi identificati da DeSmog. C’è però un importante effetto collaterale di questa grande disinformazione. E cioè l’assorbimento di questi falsi miti da parte del pubblico, che non sempre riesce a scardinarli.

Secondo un preoccupante report pubblicato dalla fondazione Changing Markets, sui social media dilaga una disinformazione profonda su tutto ciò che riguarda carne, lattici e diete alternative e sostenibiie: in soli 14 mesi sono apparsi in oltre 1 milione di post – tra cui quelli di Donald Trump Jr., quindi persone con un interessante seguito – messaggi e informazioni falsi o fuorvianti in relazione all’impatto ambientale della carne, spesso associate a teorie di negazionismo climatico. Nel rapporto non si è riuscito a determinare se dietro queste affermazioni ci fosse l’industria della carne o meno.

Ma in questo caso specifico forse non serve la “pistola fumante”, perché il lavoro di disinformazione è stato già fatto in modo capillare.

Leggendo questo rapporto mi sono imbattuto in un’informazione con cui vorrei concludere. Una parte consistente dei post analizzati consideravano la riduzione del consumo di carne come un attacco alla propria libertà. Per questo proposte di cibi alternativi vengono considerate una minaccia della tradizione, alla possibilità di fare ciò che si vuole.

Ed è sulla dimensione individuale che vorrei aprire uno spiraglio chiave: questa narrazione è esattamente un mezzo attraverso cui le industrie inquinanti riescono a fare leva per continuare a fare i propri interessi a danno del Pianeta.

Perché l’enfasi sulla libertà personale – “voglio mangiare carne” oppure “voglio smettere di mangiare carne” – si rifà alla retorica della responsabilità individuale nel combattere grandi problemi collettivi, come la crisi climatica. Lo vediamo nel discorso sulla sostenibilità: siamo soprattutto noi cittadine e cittadini – i “consumatori” – che dobbiamo stare attenti: a come ci vestiamo, alla plastica, alle cannucce, al fast fashion. E invece no.

Perché spostare tutto il peso sulla responsabilità individuale, deresponsabilizzando le aziende – e la politica – permette a chi inquina di continuare a produrre sempre di più, facendo soldi ai danni della collettività. E mentre solo poche aziende di carne riescono a fatturare miliardi (anche attraverso fondi pubblici e privati), a pagare le conseguenze è l’intera società, gli animali e l’ambiente. Ci hanno insegnato che ognuno di noi può fare la differenza, che come in un puzzle ognuno di noi può portare una singola goccia d’acqua e che insieme riusciremo a spegnere l’incendio della crisi climatica. Quello che ci hanno tenuto nascosto è che mentre noi facciamo questi sforzi, alcune grandi aziende sono ancora impegnate a buttare benzina sul fuoco.

© Riproduzione riservata

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