Una barriera composta da gusci di molluschi che aiuta a preservare la biodiversità marina: si chiama Bioreef, e da qualche giorno è nei fondali della Sacca di Goro, tremila ettari di laguna racchiusa tra il Po di Goro e il Po di Volano, all’estremo lembo della provincia di Ferrara. È qui che il team di Cursa, Consorzio Universitario per la Ricerca Socioeconomica e per l’Ambiente, ha conferito una seconda vita ai sottoprodotti dell’acquacoltura, sperimentando un sistema innovativo che può condurre il settore verso la sostenibilità e l’economia circolare.
L’oro nero della laguna
In questa mezzaluna del Parco del Delta del Po uscire in laguna per raccogliere vongole e cozze è sinonimo di tradizione e lavoro, tanto che a Goro i molluschi li chiamano l’oro nero. In Emilia-Romagna secondo i dati del ministero delle Politiche agricole si concentra oltre il 40% della produzione nazionale di molluschi, e i 1500 acquacoltori di Goro contribuiscono a questo dato garantendo ogni anno quasi 13mila tonnellate di vongole e 7mila di mitili. Ma quest’economia locale è legata a filo diretto con il mutamento continuo dell’ambiente lagunare, un equilibrio fragile che ogni attività umana deve tenere in considerazione.
Consapevoli di questa delicatezza, per capire come difendere e migliorare l’ecosistema marino, i ricercatori dell’Università di Ferrara e il gruppo Cursa, con un progetto commissionato dal Ministero dell’Ambiente, negli ultimi due anni hanno studiato il consumo di risorse legato all’acquacoltura. “Nella sola Emilia-Romagna ci sono circa 2.500 tonnellate all’anno di gusci di vongole e di mitili che sono considerati come sottoprodotti ittici non utilizzabili per la vendita alimentare”, spiega a EconomiaCircolare.com il professor Umberto Simeoni, docente di geomorfologia all’Università di Ferrara e presidente del Cursa. “Di solito – continua Simeoni – la destinazione finale per i gusci sono gli inceneritori, per questo siamo partiti dall’idea di recuperare questi scarti, in un’ottica di economia circolare, realizzando un reef, una scogliera da ripopolare artificialmente con delle ostriche”.
Dall’artificial al Bioreef
Questo frangiflutto sostenibile ideato da Cursa, oltre a rappresentare un passo in avanti per la circolarità nell’acquacoltura, è anche un’occasione per studiare nuovi metodi di realizzazioni delle barriere artificiali. Se si pensa alla storia e all’utilizzo degli artificial reef nei mari e negli oceani, il tema della sostenibilità non è affatto marginale. Posizionare scogliere artificiali in fondo al mare per favorire il ripopolamento della fauna marina è una pratica consolidata che conta numerosi studi scientifici ma anche diversi casi controversi. “Dal 1969 al 2019 oltre 620 pubblicazioni sui reef artificiali rilevano che il 49% delle barriere sono realizzate con il cemento e quasi tutti i reef funzionano per l’insediamento della popolazione marina, soprattutto nei fondali sabbiosi e privi di cavità”, specifica Simeoni.
Una dimostrazione ci arriva da Marsiglia, dove dopo dieci anni dal posizionamento di 400 reef artificiali ci sono stati miglioramenti nelle qualità delle acque e nella biodiversità marina. Ma c’è dell’altro: dagli anni ’60 fino agli ’80 un abuso della definizione di reef artificiale, unito a una scarsa attenzione alle questioni ecologiche – soprattutto negli Stati Uniti – hanno fatto finire in fondo al mare vagoni della metropolitana, pezzi di aeroplani, automobili e navi intere. Relitti che rappresentano tutt’ora fonti di tossicità per molti ecosistemi. Per capire la gravità di questo fenomeno basta citare la vicenda di Osborne Reef in Florida: nel 1974, a largo di Sunrise Boulevard a Fort Lauderdale furono affondati 2 milioni di pneumatici usati, con l’obiettivo di creare una barriera corallina artificiale. Il risultato è stato tutt’altro. “I copertoni erano legati tra di loro con delle graffette che con il tempo si sono corrose, lasciando così liberi gli pneumatici. Con il moto ondoso nel corso degli anni i copertoni sono andati a sbattere contro i coralli, creando una serie di criticità”, racconta Simeoni.
Per le acque della Sacca di Goro, il team di Cursa ha deciso di superare l’esperienza degli artificial reef, abbandonando l’utilizzo del cemento in favore dell’oro nero della laguna ferrarese. “Utilizzare il cemento avrebbe significato produrre comunque Co2, invece con questo progetto volevamo anche tenere in considerazione il concetto di economia blu”. Il professor Simeoni fa riferimento a un termine introdotto dieci anni fa dall’economista belga Gunther Paoli, nel suo libro Blue economy. 10 anni. 100 innovazioni. 100 milioni di posti di lavoro. Secondo Paoli non bisogna soltanto limitare l’impatto delle attività produttive ma occorre studiare possibilmente i processi biologici e biomeccanici della flora e della fauna terrestre per arrivare all’eliminazione totale di emissioni dannose per l’ambiente.
La costruzione di un Bioreef
Superate una serie prove meccaniche e diverse valutazioni sulla tenuta della struttura in acqua, il primo passo per realizzare il bioreef è stato quello di inertizzare con il calore i gusci dei molluschi. Un passaggio importante che serve a eliminare la sostanza organica residuale. Dopo la cottura, i gusci sono stati triturati e vagliati, formando così una miscela. Ma come si fa a modellare una barriera senza cemento? Per risolvere questo passaggio i ricercatori si sono affidati alla saggezza degli antichi romani e alle ultime innovazioni tecnologiche. “Usiamo un legante di tipo idraulico, si tratta in pratica di calce e pozzolana e la miscela finale è composta dal 70% di gusci e dal 30% di legante. Per modellare, invece, abbiamo usato la tecnologia della stampante 3D dell’azienda Desamanera di Rovigo che ha messo a punto un sistema capace di stampare in orizzontale e in verticale, plasmando miscele diverse”, spiega dettagliatamente il prof. Simeoni. E dopo aver tratteggiato nicchie e anfratti sulla struttura, i 530 kg di Bioreef hanno preso le sembianze di una vera barriera corallina, pronta per essere occupata dalle ostriche giapponesi, una specie molto diffusa nel mediterraneo e nella Laguna di Venezia.
La scelta delle ostriche
Sono tanti i motivi che hanno individuato le ostriche come i molluschi prediletti per questo progetto. Oltre alla grande adattabilità con la laguna di Goro, le ostriche sono infatti dei filtri naturali che migliorano la qualità delle acque, sottraggono anidride carbonica, aiutano la formazione di nuovi habitat e offrono protezione ai litorali. Non da ultimo, scegliere l’ostrica porta con sé anche la possibilità di ampliare l’acquacoltura di mitili e le vongole, con un prodotto di pregio che si posiziona efficacemente sul mercato. “Abbiamo legato 100 ostriche al Bioreef con una resina speciale e al momento del rilascio dei semi, la zona in cui stiamo posizionando la struttura aiuterà a propagarli e a distribuirli nella bocca lagunare. Ora che le fasi di ricerca e costruzioni sono finite, stiamo investendo nel monitoraggio di Bioreef e della propagazione delle ostriche”.
Dunque, non resta che immergersi e osservare il contributo alla salvaguardia della biodiversità di questa nuova scogliera, modello di economia blu.
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