Una buona idea per far capire quanto è inquinante e duratura la plastica? Ce l’ha avuta Enzo Suma, guida naturalistica pugliese, che ha lanciato la provocazione di un museo degli oggetti in plastica raccolti sulla spiaggia. Si chiama Archeoplastica, a suggerire l’idea di reperti archeologici restituiti dai fondali, come fossero i resti di un antico galeone. Invece si tratta di comuni contenitori di lozioni abbronzanti, detersivi, coppette gelato e così via, datati dagli anni ‘60 ai ‘90.
Semplificando, una collezione dei nostri consumi scriteriati e incuranti dell’ambiente risalenti fino a 60 anni fa. E proprio questi oggetti riescono a suscitare interesse curiosità e attenzione, stimolando la riflessione sul gigantesco tema del “marin litter” (rifiuti marini) e dell’inquinamento da microplastiche nel mare.
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Contenitori in plastica come anfore antiche
A partire dall’idea di Enzo Suma – grazie ad un crowdfunding e alla sua perseveranza di “appassionato cercatore”, arrivato oggi ad archiviare più di 500 pezzi – Archeoplastica è diventato un vero e proprio museo virtuale con una attenta catalogazione e descrizione dei reperti visionabili in 3D, oltre che un blog e un contenitore di informazioni scientifiche sull’inquinamento marino.
Il progetto non è solo sul web ma si declina in attività di educazione ambientale nelle scuole, in allestimento di mostre itineranti in varie suggestive location per ora circoscritte ai confini regionali, in appuntamenti di raccolta dei rifiuti nelle belle spiagge salentine che attirano centinaia di persone. A volte toccare le corde giuste, per esempio con un ricordo dell’infanzia, come un vecchio pallone del campionato mondiale “Italia ‘90” o un ormai introvabile dispenser di caramelle a forma di papero, può valere più di mille dati scientifici.
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Il potere evocativo dei consumi
È questa costatazione che ha acceso la lampadina di Enzo Suma, kite surfer e assiduo frequentatore del mare anche d’inverno, al ritrovamento del primo “reperto” di cui ha condiviso una fotografia tra i suoi contatti social.
“Sembra che le persone – racconta l’ideatore del progetto e fondatore dell’associazione Millenari di Puglia – siano più impressionate dal potere evocativo di un contenitore di lozione abbronzante quasi integro con il prezzo in lire, che dalle informazioni sulla persistenza nell’ambiente dei materiali che richiedono migliaia di anni per scomparire”.
Si stima che una bottiglia di plastica ci metta circa 450 anni per degradarsi in mare, senza tener conto che la sua decomposizione determina la frammentazione in microparticelle che continuano a provocare un impatto sull’ecosistema marino, nonché sulla nostra salute.
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Unep: accelerare la transizione per combattere la plastica nel mare
È dello scorso ottobre l’incontrovertibile giudizio dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente sulla necessità di una drastica riduzione della plastica per affrontare la crisi ambientale globale.
“From Pollution to Solution: a global assessment of marine litter and plastic pollution” esamina l’entità e la gravità dei rifiuti nel mare e dell’inquinamento da plastica che risulta essere la frazione più grande (85%), più dannosa e più persistente di tutti i rifiuti marini. L’Unep afferma che solo una transizione accelerata dai combustibili fossili alle energie rinnovabili, la rimozione dei sussidi e il passaggio ad approcci circolari può contribuire a ridurre l’inquinamento da plastica nella scala necessaria.
A questo monito si affiancano i dati di Plastic Pac – un programma volontario adottato da aziende, ONG e autorità governative americane nell’ambito del Plastics Pact Network lanciato dalla Ellen MacArthur Foundation – secondo i quali la maggior parte dei rifiuti trovati sulle spiagge e nelle acque di tutto il mondo è di fatto non riciclabile.
Tenuto conto di questi dati, Archeoplastica sembra ancora più illuminante. Se continuiamo a utilizzare materiali che non siamo neanche in grado di riciclare, non ci resterà che diventare tutti collezionisti di rifiuti.
Tra tartarughe, fratini e ulivi centenari
L’iniziativa di Enzo è riuscita a mobilitare l’interesse e la curiosità di moltissime persone. La sua storia è arrivata al Tg1, alla trasmissione televisiva Geo, fino alla rivista d’arte Artribune. Gli ultimi anni dedicati alla ricerca dei reperti di plastica, che Enzo racconta con candida naturalezza, sono ricchi di originali aneddoti ma anche di meticoloso impegno. Ci parla di un misterioso contenitore a forma di gobbo di cui non si riesce a identificare l’originario prodotto, fino a menzionare le sue personali “collezioni” degli oggetti più ricorrenti: accendini e puntali di ombrelloni.
A muoverlo è una sincera passione per la ricerca e per la natura. In questi giorni è impegnato nel salvataggio delle tartarughe spiaggiate, mentre da marzo sarà la volta del monitoraggio dei nidi del fratino, un piccolo uccello che nidifica a terra lungo la costa considerato a rischio estinzione. Tutte opere volontarie che si affiancano alla sua attività di guida escursionista nel territorio dell’alto Salento e della Valle d’Itria, nonché di esploratore alla ricerca dei grandi e spettacolari ulivi millenari della Puglia. Gli chiediamo, oltre a tutti i progetti di cui ci ha parlato, quali siano le sue scelte quotidiane per lasciare un’impronta più leggera sul pianeta.
“Faccio cose semplici – risponde – uso buste di tela, bevo l’acqua del rubinetto, quando sono in giro porto una borraccia e uso uno spazzolino di bambù”.
Una volta apprezzati i reperti su Archeoplastica, riflettuto sulla resistenza e longevità di ciò che consumiamo e buttiamo, non ci resta che prendere il buon esempio e fare qualcosa.
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