È tipico dello sviluppo umano generare un dibattito acceso tra sostenitori e detrattori del “nuovo”, specie in merito alle trasformazioni dovute alla tecnologia. Ne è un esempio la disputa tra apocalittici e integrati, codificata da Umberto Eco negli anni ’60, sulla comunicazione e la cultura di massa quali conseguenze dell’invenzione della televisione prima, e dei nuovi media poi. Un altro terreno di confronto è il web, considerato da alcuni il nuovo mezzo capace di liberare e connettere gli uomini in un unico villaggio globale, oppure additato da altri come uno strumento di entropia, colpevole di allontanare gli uomini dai propri simili nonché dalla realtà.
Più natura o più tecnologia?
Analoghe contrapposizioni caratterizzano il dibattito sull’uso della tecnologia per risolvere la crisi ambientale. Che il pianeta si stia velocemente trasformando per causa dell’uomo è un fatto assodato. Non a caso chiamiamo l’attuale epoca geologica: “antropocene”. L’azione dell’uomo per limitare i danni creati al pianeta, tuttavia, può dispiegarsi in approcci contrapposti. Per alcuni, l’uomo dovrebbe arretrare rispetto alle leggi della natura, o meglio tornare più a contatto con essa, rallentare la sua corsa tecnologica, valorizzare le conoscenze tradizionali, prendere esempio dalle popolazioni indigene, strettamente connesse con la madre terra e rispettose dei suoi tempi e regole. Altri si dicono convinti che sarà la tecnologie e il suo uso intelligente da parte dell’uomo che ci salverà.
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L’ottimismo di Griffith: elettrificare tutto
Un entusiasta della tecnologia può dirsi senz’altro Saul Griffith, ingegnere, inventore e imprenditore australiano, che con il suo testo “Electrify Everything” ribalta la narrativa secondo cui servirebbe – soprattutto per i paesi più ricchi – una riduzione dell’uso delle risorse del pianeta per contrastare i cambiamenti climatici. Nella sua visione dell’abbondanza il mondo potrebbe alimentarsi completamente con elettricità a emissioni zero già intorno al 2037. Basterebbe utilizzare subito e con più velocità le tecnologie, di cui già disponiamo, per passare dai combustibili fossili alle energie pulite come sole, vento, acqua e, soprattutto, nucleare, capaci di liberarci anche dalla minaccia energetica che oggi sottende la drammatica aggressione militare russa. Per tale ragione, Griffith non ritiene necessario rallentare la crescita e diminuire i consumi, ma piuttosto sostituirli con le disponibili versioni elettrificate. Nel prossimo futuro ci saranno per tutti case con tetti a pannelli solari, cucine elettriche e macchine come Tesla in garage.
Questo scenario comporta l’aumento esponenziale dell’uso, per esempio, di batterie e accumulatori di energia, che a loro volta hanno bisogno di materie prime, come le terre rare, per essere prodotte. Qui sembra annidarsi il punto più debole di questa teoria. Un aumento dell’uso dei materiali, unito alle conseguenze ambientali della loro estrazione e trasformazione, nonché dei rifiuti generati, potrebbe incrementare la pressione sulle risorse e generare nuovi problemi ambientali e sociali, come l’inquinamento da metalli pesanti, la distruzione degli habitat o l’esaurimento delle risorse minerarie.
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Tra tecno-fobia e NIMBYsmo
Dunque la prima obiezione è che anche le tecnologie hanno un peso rilevante sull’ambiente. Ma non si tratta solo di questo. Secondo quanto rileva una ricerca della Fondazione per la Sostenibilità Digitale, il mondo tecnologico e quello ambientalista non sono comunicanti e, anzi, si annida in un certo ambientalismo un pensiero “tecno-fobo” e “tecno-diffidente” – come lo definisce Chiara Severgnini sul Corriere della Sera (23 febbraio) – teso a respingere ogni soluzione non “naturale”.
Ermete Realacci di Fondazione Symbola parla di una “cultura del blocco” che si contrappone a quella del fare. Un concetto apparentato col quello che gli anglofoni definiscono NIMBYism (Not in My Back Yard) secondo il quale: l’eolico non va bene perché deturpa il paesaggio e le coste, il fotovoltaico provocherà il problema dello smaltimento dei pannelli solari e così via. Eppure, molte delle iniziative per risparmiare energia e materie prime, per ridurre l’uso delle fonti fossili e gli sprechi, per promuovere l’economia circolare, non fanno un passo senza l’innovazione tecnologica, di cui bisognerebbe poter prevedere l’impatto a lungo termine.
Il realismo di Cingolani: “Sapiens” è un parassita del proprio ecosistema
Consideriamo l’invenzione dell’auto elettrica che dovrebbe liberarci dal problema dell’inquinamento da traffico urbano. Se calcoliamo solo il suo ciclo di vita dal concessionario allo smaltimento è sicuramente più verde dell’auto a benzina. Tuttavia, se prendiamo in considerazione il suo impatto dall’estrazione delle materie prime come l’ossido di litio per le batterie, allora diventa più verde solo dopo aver percorso 150.000 kilometri. È proprio questo l’esempio citato da Roberto Cingolani che, in qualità di Chief Technology & Innovation Officer di Leonardo, a dicembre 2020 – prima di diventare il ministro della transizione ecologica – dava una interessante lezione per la Siena Advanced School on Sustainable Development, proprio dal titolo: “Tecnologies”. Le sue riflessioni non sembrano lasciare troppo spazio alla fiducia in un uomo che “non rispetta l’ecosistema” e si comporta come “un parassita”.
L’analisi di Cingolani parte dall’unicità del rapporto dell’uomo con la natura, capace di migliorare le proprie condizioni di vita, moltiplicare la sua presenza e allungare la sua permanenza sulla terra, grazie a rivoluzionarie invenzioni. Peccato che sono queste stesse invenzioni a modificare e distruggere l’ecosistema abitato da “sapiens”. Il suo impatto oltre ad aver certamente ridotto la biodiversità, provocato nuove malattie, un inquinamento irreversibile e conseguenze sulle risorse idriche, ha creato ingiustizie sociali globali.
Secondo Cingolani le nuove tecnologie non fanno altro che mettere delle “pezze” ai problemi e agli sbilanciamenti del sistema creati in precedenza da altre innovazioni tecnologiche. È quello che viene definito il paradosso del progresso: per arricchire se stesso l’uomo genera dei debiti economici e ambientali. Con l’avvento dell’intelligenza artificiale diventeranno presto debiti anche cognitivi, preconizza il ministro. Così oltre all’ecologia della natura potrebbe nascere un nuovo tipo di ecologia che riguarderà la nostra mente.
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La strada giusta del progresso
La fiducia nell’innovazione e nel progresso, dunque, deve tenere conto dei possibili effetti indesiderati. La strada giusta sembra passare per la consapevolezza dei limiti dell’uomo. Un uomo che ha saputo conquistare lo spazio, migliorare le sue condizioni di vita, ma non calcolare le conseguenze di certi modelli di sviluppo o rimediare alle sue ingiustizie. Se da un lato la sfida sarà aumentare le conoscenze e competenze per mettere a punto tecnologie davvero durevoli per l’ambiente, dall’altro sembra imprescindibile scegliere un modello di convivenza più equo e collaborativo per “progredire” nella giusta direzione. Pensare alle innovative armi appena esibite nel conflitto ucraino, o all’aumento delle spese militari in molti paesi, non infonde troppa fiducia.
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