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giovedì, Dicembre 26, 2024

Vendita prodotti sfusi, Francia e Spagna apripista: ora i supermercati devono farlo per legge

Una legge impone ai supermercati francesi e spagnoli di destinare il 20% degli spazi alla vendita di prodotti sfusi. Contro l’eccessiva produzione di imballaggi. Potrebbe essere una soluzione anche in Italia, dove però ancora non se ne parla. Non tutti i segnali in arrivo dalla Francia, però, sono positivi e c’è il timore di inversioni di rotta nel futuro

Tiziano Rugi
Tiziano Rugi
Giornalista, collaboratore di EconomiaCircolare.com, si è occupato per anni di cronaca locale per il quotidiano Il Tirreno Ha collaborato con La Repubblica, l’agenzia stampa Adnkronos e la rivista musicale Il Mucchio Selvaggio. Attualmente scrive per il blog minima&moralia, dove si occupa di recensioni di libri. Ha collaborato con la casa editrice il Saggiatore e con Round Robin editrice, per la quale ha scritto il libro "Bergamo anno zero"

Nei supermercati francesi capita sempre più spesso di vedere prodotti venduti sfusi: saponi, detersivi, cereali, legumi o cibo per animali e naturalmente vino e aceto. Ci sono angoli in cui si trovano venduti sfusi anche prodotti dei grandi marchi, dagli yogurt Danone alle birre Heineken fino alle caramelle M&M. È una scelta frutto di accordi tra le catene della grande distribuzione e i produttori, ma dal 2030 diventerà un obbligo vero e proprio. La legge AGEC (Loi Anti-gaspillage pour une économie circulaire) approvata in Francia nel 2019, tra le altre misure, prevede infatti che il 20% della superficie di vendita dei negozi oltre i 400 mq sia destinato a prodotti sfusi.

Lo stesso succederà in Spagna. A fine del 2022 è diventato legge il Regio Decreto sugli imballaggi, dove c’è una norma analoga. Nel Regno Unito una legge ad hoc manca, ma i supermercati si stanno volontariamente adeguando. La vendita al dettaglio e sfusa nei piccoli negozi specializzati è decollata da tempo e da un lato la grande distribuzione si adatta alla domanda consapevole e sostenibile di una fetta di consumatori, dall’altro si prepara perché, nel caso dei Paesi Ue, dovrebbe essere quella la direzione richiesta da Bruxelles: la proposta di riforma del Regolamento imballaggi incoraggia la vendita di prodotti sfusi come strumento per ridurre i rifiuti da imballaggio.

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La vendita di prodotti sfusi riduce imballaggi e gas serra

Del resto è inevitabile intervenire. La vendita di prodotti impacchettati genera un’enorme quantità di imballaggi e quindi rifiuti, soprattutto in plastica. Il direttore dello sviluppo sostenibile di Carrefour, Bertrand Swiderski, ha calcolato un risparmio di 2000 tonnellate di plastica all’anno con l’aumento della vendita sfusa. Per avere un’idea, il supermercato francese Casino ha eliminato 13 tonnellate di plastica semplicemente sostituendo le confezioni delle banane con il nastro adesivo.

Secondo uno studio di Eumonia e Zero Waste Europe, solo un piccolo punto vendita di prodotti sfusi risparmia in media 1026 Kg all’anno di imballaggi. È facile immaginare cosa succederebbe in proporzione nella grande distribuzione. Su scala europea nel 2023 vorrebbe dire 5576 tonnellate di imballaggi in meno. E non c’è solo l’aspetto legato alla plastica in circolazione. Si tradurrebbe in una diminuzione di 6046 tonnellate di CO2 equivalenti nello scenario peggiore e fino a 28,19 tonnellate nello scenario migliore.

È presto però per trarre conclusioni affrettate

Eppure proprio il caso della Francia dimostra quanto il 2030 sia lontano e le battute d’arresto siano dietro l’angolo. La legge AGEC prevedeva, ad esempio, che dal primo gennaio 2023 frutta e verdura fresca “non trasformata” venisse venduta senza confezioni in plastica al di sotto di lotti di peso pari o superiore a 1,5 chilogrammi. Ebbene, poco prima dell’entrata in vigore della norma, il Consiglio di Stato ha revocato il decreto e l’iter legislativo riparte da zero.

“Stiamo lottando perché la misura non venga annacquata da un fiume di eccezioni, ma l’esito è tutto fuorché certo”, spiega Juliette Franquet, direttrice dell’associazione Zero Waste France. Il rischio è di assistere a uno scenario simile anche per lo sfuso. “Abbiamo accolto positivamente la legge francese sulla vendita di prodotti sfusi nei supermercati”, è la premessa di Franquet. Sul futuro, però, si addensano le incertezze: “Tra i produttori di plastica monouso, i grandi marchi e i supermercati serpeggia un malcontento che potrebbe sfociare in attività di lobby e causare ritardi o ridurre l’efficacia della misura”.

Per il momento, a sentire i direttori delle principali catene di supermercati francesi, non sembrerebbe il caso. Si stanno, infatti, già muovendo in autonomia: un terzo dei 3400 punti vendita di Carrefour in Francia sono dotati di aree adibite alla vendita di generi alimentari sfusi, Monoprix ne ha allestite 370 e tutti si dicono interessati all’opportunità del “nuovo” mercato dello sfuso, che a livello globale ha registrato un fatturato pari a 1,3 miliardi di euro nel 2021.

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Pericolo greenwashing?

Ci sono, però, altrettante perplessità in vista di una rivoluzione così radicale e c’è da attendersi che aumenteranno con l’avvicinarsi dell’entrata in vigore dell’obbligo. Del resto la norma sugli imballaggi di frutta e verdura è saltata proprio per le pressioni del settore ortofrutticolo. C’è da sperare, soprattutto, che quanto sia stato fatto finora non siano solo operazioni di greenwashing. E una legge, oltre a essere approvata, deve essere fatta rispettare.

“Recentemente abbiamo denunciato irregolarità nel gruppo Danone – racconta la direttrice di Zero Waste France – perché non fa abbastanza per ridurre gli imballaggi nei suoi prodotti e non rispetta gli obblighi di vigilanza. Nel 2020, Danone ha affermato di utilizzare il 62% di plastica riciclabile e solo il 5% riutilizzabile. La plastica riciclabile, tuttavia, viene usata come giustificazione per continuare a produrre imballaggi, che infatti sono passati dalle 750.994 tonnellate nel 2020 alle 716.500 nel 2021”.

Gli stessi cittadini francesi sono i primi a non fidarsi. Secondo uno studio di Opinionway del marzo 2021, il 59% degli intervistati afferma di essere poco informato sugli sforzi dei marchi in termini di protezione ambientale, e il 51% non si fida di queste informazioni. Solo il 14% dei francesi pensa che la grande distribuzione mostri un sincero impegno per la difesa dell’ambiente, mentre per il 31% è convinto che agisca solo su stimolo degli obblighi di legge.

Gli ostacoli al cambiamento verso i prodotti sfusi sono tanti

 Gli interessi che una norma del genere va a toccare, infatti, non sono certo insignificanti. I grandi marchi, soprattutto della cosmesi, evidenziano le “difficoltà causate dalla fragilità dei prodotti cosmetici e dai rischi batteriologici” delle vendite sfuse. Afise, la federazione delle industrie di prodotti per la pulizia della casa elenca “le difficoltà pratiche” di tale misura e i “vincoli significativi” che peseranno sui negozi: informazioni ai consumatori, maggiori rischi di furto, sporcizia.

La grande distribuzione, dal canto suo, non sembra aver trovato ancora una soluzione efficace e univoca per gestire la vendita di prodotti sfusi. In alcuni supermercati francesi i clienti portano i propri contenitori che pesano prima di riempirli in modo da pagare solo il contenuto. Altri ancora impongono un quantitativo minimo per limitare il numero di buste piccole. C’è, però, il timore di notevoli perdite economiche perché non sempre i clienti lasciati a se stessi sono disciplinati e le operazioni di pesatura e l’etichettatura sono difficili da controllare.

Infine, denunciano il problema della logistica. Per offrire bagnoschiuma o cereali sfusi in un supermercato, sostengono, è l’intera filiera ad essere impattata. Non basta togliere i prodotti dalla scatola e versarli nei distributori self-service, perché la logistica è strettamente legata all’imballaggio ed è più facile trasportare il prodotto e muoverlo all’interno del supermercato se è in lattina, ad esempio, e non sfuso. Un tema reale, condiviso, nell’ottica opposta, dalle piccole “sfuserie”.

Leggi anche: È più sostenibile l’imballaggio riciclabile o quello riutilizzabile? Dipende. Lo studio dell’UNEP

Il problema della logistica è reale e si riflette sul prezzo finale

“Le catene di approvvigionamento – si legge nello studio di Eunomia e ZWE – non sono ancora completamente sviluppate per il modello di vendita senza imballaggio, il che significa che sono molto meno efficienti rispetto a quelle tradizionali per i prodotti confezionati. Questi ultimi beneficiano di economie di scala e di processi ben rodati a tutti i livelli della filiera”. Cosa che in parte manca, invece, per la vendita sfusa. E si riflette, inevitabilmente, sui costi.

“Gli imballaggi usa e getta sono effettivamente ‘sovvenzionati’ – continua il documento – perché i reali costi di fine vita, compresi i costi esterni associati agli imballaggi mal gestiti (come l’abbandono dei rifiuti) non si riflettono adeguatamente sul prezzo del prodotto. Sebbene gran parte della plastica monouso non viene riciclata, non c’è in genere alcuna ‘penalità’ associata all’immissione di tali imballaggi sul mercato, di fatto garantendo un vantaggio commerciale sleale per le merci confezionate con plastica monouso”.

Un caso è emblematico. L’associazione dei consumatori Que Choisir, ha rilevato come pasta e riso siano generalmente più costosi se venduti sfusi. E da un’indagine condotta sui consumatori francesi è emerso come per il 37% degli intervistati il prezzo maggiore sia la principale barriera all’acquisto. Andando a vedere i dati, però, in parte è un problema di percezione. Legumi, frutta secca e cereali per la colazione, infatti, sono più economici senza imballaggio e tirando le somme gli alimenti sfusi costano in media il 6% in meno rispetto ai loro equivalenti confezionati.

I piccoli negozi fanno da apripista ma lottano per sopravvivere

Questo dimostra come investire nella vendita sfusa sarebbe un vantaggio notevole anche per i consumatori, sicuramente uno stimolo in più per farla attecchire. “Il cambio di mentalità deve riguardare tutti, cittadini compresi”, ammette Ottavia Belli, fondatrice e guida della startup italiana Sfusitalia, che riunisce i negozi di vendita sfusa. Per questo motivo, una misura che potrebbe in apparenza essere vista come dannosa per le piccole attività, come l’obbligo di vendere prodotti sfusi anche nei supermercati, aumentando di fatto la concorrenza in un mercato ancora esiguo, non è percepita come una minaccia.

“Anzi, può essere uno strumento per fare adottare la nuova mentalità a un numero maggiore di persone. Del resto i piccoli negozi non riuscirebbero a soddisfare l’intera domanda e chi fa acquisti qui è spinto anche da altre motivazioni: sa di trovare prodotti biologici di qualità superiore e sostiene consapevolmente un modello di business differente dalla grande distribuzione”, spiega Belli.

I problemi sono altri. Il contraccolpo del Covid, per fare un esempio, è stato durissimo per le evidenti ricadute sulla modalità di vendita. “Non siamo economisti, ma pensiamo vada garantita una forma efficace di tutela e sostegno ai piccoli punti vendita sfusi”, sostiene Juliette Franquet di Zero Waste France. Finora sono stati loro a fare da apripista per questa pratica virtuosa. Se abbandonati a se stessi, non avendo disponibilità finanziarie minimamente paragonabili alla grande distribuzione, si permetterebbe al mercato di “cannibalizzare” proprio chi è stato pioniere in questa battaglia.

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Aumentare la vendita sarà inevitabile, ma il problema resta molto più ampio

Di tutto questo in Italia ancora si parla poco. Se nel tempo le “sfuserie” sono aumentate, gli interventi dedicati a sostenerle economicamente sono giudicati esigui e poco è stato fatto per la grande distribuzione. Il Decreto Clima permette ai clienti dei supermercati di utilizzare contenitori portati da casa ma, come emerso dall’inchiesta di Greenpeace, la possibilità non viene data in molti punti vendita. Certo, ci sono eccezioni tra i supermercati italiani come ad esempio Simply Sma e Coop, con aree dedicate alla vendita sfusa, ma al di là dei singoli comportamenti virtuosi la situazione non è paragonabile a Francia e Spagna.

Tuttavia difficilmente non potrà non diventare un tema di dibattito di politica nazionale, sia perché il problema degli imballaggi tenderà a crescere nel tempo, sia perché l’Unione europea va in quella direzione. Anche se nella proposta del Regolamento imballaggi si trovano dichiarazioni di principio sulla “necessità di promuovere la vendita di prodotti sfusi” e che “gli imballaggi siano inseriti in effettivi circuiti di riutilizzo”, senza però fissare norme più prescrittive come quelle adottate da Francia e Spagna.

Mentre nello studio di Eunomia e ZWE si sottolinea la necessità di uniformare la legislazione europea sulla vendita di prodotti sfusi: “Manca chiarezza e coerenza nell’applicazione da parte delle autorità di regolamentazione rispetto a come viene definita la vendita di prodotti sfusi e le pratiche relative all’igiene per i negozi senza imballaggio”. Il caso più palese riguarda le normative europee sui cosmetici e sui detergenti: non disciplinano la vendita di tali prodotti in modalità sfusa. Eppure, insieme a quelli per la pulizia della casa, sono tra i più venduti nei negozi.

In ultima analisi la vendita senza confezione è solo una delle misure per affrontare un problema più ampio. “L’altro pilastro è il deposito su cauzione – precisa Juliette Franquet – e poi dobbiamo renderci conto di dover diminuire la produzione di imballaggi e ripensare il packaging dei beni di consumo perché il riciclo senza riutilizzo non basta a scongiurare il pericolo di restare sommersi dalla plastica nei prossimi decenni”. È di pochi mesi fa l’avvertimento dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse). Se non si farà nulla, la produzione di plastica, e quindi di rifiuti, triplicherà rispetto ai livelli del 2019: da 460 milioni di tonnellate a oltre 1,2 miliardi di tonnellate.

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