Lo scorso 23 ottobre è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto del Ministero della transizione ecologica (MiTE) riguardante le misure per incentivare la vendita di prodotti sfusi o alla spina. Il contributo arriva fino a 5mila euro per i negozianti in possesso dei requisiti. Ora, come rende noto il sito del Ministero, è possibile presentare le istanze per le imprese che nel 2020 hanno promosso la vendita di prodotti sfusi o alla spina. Sarà necessario registrarsi, a partire dal 23 novembre, attraverso la piattaforma informatica disponibile a questo link: https://padigitale.invitalia.it.
Come ormai necessario per qualsiasi pratica pubblica, occorre essere in possesso di un’identità Spid. Sono invece 60 i giorni disponibili per inviare la richiesta del contributo. La misura del MiTe si rivolge sia agli esercizi commerciali di vicinato, ovvero quelli esclusivamente destinati alla vendita di prodotti sfusi o alla spina, e alle medie/grandi strutture di vendita, vale a dire gli esercizi commerciali preesistenti che al proprio interno hanno destinato spazi dedicati alla vendita di prodotti alimentari e detergenti sfusi o alla spina.
Si tratta di un decreto atteso da tempo, che va verso la strada della premialità alle pratiche circolari. Dunque, tutto bene? Andiamo a vedere.
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Quando c’era il Decreto Clima
È da poco terminata la Cop26 e si continua a parlare di clima, visti anche gli eventi meteorologici estremi di questi giorni. Lo faceva anche il cosiddetto Decreto Clima del 2019 (più precisamente la legge n°141 del 13 dicembre 2019) che al suo interno aveva già previsto le prime “misure per l’incentivazione di prodotti sfusi o alla spina”. Più precisamente si trattava di disposizioni che facevano riferimento alla disposizioni previste dal regolamento della Commissione europea, risalente addirittura al 18 dicembre 2013, e relativo all’applicazione degli articoli 107 e 108 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea agli aiuti “de minimis”, cioè i contributi a fondo perduto concessi senza violare la libertà di concorrenza.
Ai tempi del Decreto Clima il ministero della Transizione si chiamava ancora Ministero dell’Ambiente e, soprattutto, in questi due anni e mezzo è sopraggiunta pure una pandemia. Insomma: alla promozione di pratiche contro gli imballaggi ci si è arrivati con molta, molta calma. Intanto i prodotti sfusi e alla spina hanno cominciato a diffondersi sempre di più, anche senza incentivi governativi. Secondo Sfusitalia, il motore di ricerca che mappa i negozi alla spina nel Paese, attualmente sono 725 gli esercizi commerciali esclusivamente destinati a questa pratica circolare.
Senza contare poi che la misura prevista dal governo, soprattutto se questa dovesse essere rinnovata, potrebbe convincere la Grande Distribuzione Organizzata (GDO), finora piuttosto riluttante (per usare un eufemismo), a inserire più prodotti senza imballaggi.
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Come funziona il contributo?
Abbiamo detto che il contributo prevede un rimborso pari alla spesa sostenuta fino a un importo massimo di 5mila euro, corrisposto secondo l’ordine di presentazione delle domande ammissibili: per gli anni 2020 e 2021 saranno disponibili 20 milioni di euro, sino ad esaurimento delle risorse. È facile immaginare che, vista l’apertura anche ai grandi negozi, ciò succederà piuttosto rapidamente. Il contributo sarà garantito in cambio dell’impegno, come recita il decreto del 23 ottobre, a “mantenere l’attività di vendita di prodotti sfusi per un periodo non inferiore a tre anni dalla data di concessione”. Inoltre “l’esercente può promuovere il riutilizzo dello stesso contenitore per gli acquisti successivi al primo attraverso il sistema cauzionale”.
All’art.3 del decreto c’è poi forse il punto che più farà discutere. “Per accedere al contributo – si legge – sono considerate ammissibili le spese sostenute per l’adeguamento dei locali, quali la progettazione e la realizzazione del punto vendita o dello spazio dedicato, per l’acquisto di attrezzature funzionali alla vendita di prodotti sfusi compreso l’arredamento o allestimento del punto vendita o dello spazio dedicato, nonché per le iniziative di informazione, di comunicazione e di pubblicità dell’iniziativa”. Una misura che sostanzialmente, pur non dichiarandolo, sembra agevolare più i colossi che i piccoli esercenti.
Non è chiaro, poi, perché per le spese sostenute nel 2020 ci sono soltanto 60 giorni di tempo per presentare l’istanza, mentre per le spese sostenute nel 2021 c’è tempo fino al 30 aprile 2022. A chiedere i controlli sugli interventi finanziati potrà essere, ovviamente tramite gli appositi organi di controllo, lo stesso Ministero della Transizione ecologica.
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“In Italia si continua a preferire la strada della mancia”
A dare una lettura più ampia di un contributo certamente significativo ma che poteva essere più coraggioso e meglio strutturato è Ottavia Belli, fondatrice di Sfusitalia. “È chiaro che questo contributo deve inquadrarsi nella realtà di oggi, visto che era stato concepito più di due anni e mezzo fa – afferma a EconomiaCircolare.com – Si tratta di un bonus retroattivo, e questo è molto limitante: si premia solo chi ha avuto il coraggio di investire in un settore sicuramente in grande crescita a livello europeo, in Italia un po’ meno. Anche il fatto di avere unificato i beneficiari del bonus, immagino per semplificare le procedure, lascia qualche dubbio: la piccola sfuseria di quartiere, magari una piccola bottega di 70 metri quadri, ha un potere economico diverso da un supermercato della grande distribuzione organizzata”.
Come insegnano le annose vicenda della plastic tax e della direttiva Sup, in Italia si fa ancora difficoltà a stabilire misure più coercitive relativamente agli imballaggi. Ecco perché la misura del contributo appare un (timido) tentativo di premialità che però non intacca granché il predominio dell’usa e getta. Belli fa notare che in altri Paesi, invece, le cose vanno diversamente.
“In Francia è stato inserito l’obbligo di una quota di prodotti sfusi negli scaffali, mentre in Spagna dal 2023 sarà vietata la vendita di frutta e verdura attraverso gli imballaggi di plastica. Da noi, invece, si persegue la strada del rimborso, della mancia – riflette la fondatrice di Sfusitalia – La grande sfida è invece far capire che il prodotto sfuso, al contrario di quel che si ritiene, non costa di più rispetto al prodotto imballato. Nel senso che, come ripeto spesso, è l’oggetto del confronto a essere errato: non si può paragonare la pasta “industriale” dello scaffale del supermercato a quella di qualità nei negozi sfusi. A parità di provenienza geografica e impatto sociale, perché ciò va considerato, i prodotti sfusi costano di meno”.
Cosa si potrebbe fare, dunque, per incentivare realmente l’uso dei prodotti sfusi e a rifiuti zero? “Non dimentichiamo che la priorità deve restare quella del zero waste, cioè la prima R nella scala dei rifiuti – risponde Ottavia Belli – Nei negozi o negli angoli sfusi, un settore in continua evoluzione, si assiste sempre di più a un cambio di prodotti. Nel senso che allo shampoo liquido e sfuso si comincia a preferire uno shampoo solido, che evita l’uso dell’acqua. Per un acquisto del genere, molto più virtuoso rispetto allo shampoo alla spina, il decreto del ministero non mi sembra che preveda un rimborso”. Per la fondatrice di Sfusitalia le pecche del decreto sono dovute probabilmente a un “mancato confronto con il settore” e si dovrebbe perseguire, piuttosto che la strada italica del contributo una tantum, quella della riduzione della tassazione.
“In Italia la coppetta mestruale, che è considerato un prodotto zero waste, è scesa di prezzo grazie alla cosiddetta tampon tax – spiega – Dovremmo più in generale tendere a una riduzione dell’Iva per tutti i prodotti che non creano rifiuti, perché sono urgenti e necessari per la salvaguardia del nostro habitat”.
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