Una mostra presso il Museo Archeologico Nazionale di Firenze (“170.000 anni fa a Poggetti Vecchi. I Neanderthal e la sfida del clima”, inaugurata per celebrare i 70 anni dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria-IIPP e aperta al pubblico fino al 12 gennaio) racconta per la prima volta la scoperta, in Toscana, di un eccezionale sito preistorico. Si tratta di un insediamento che risale a 170.000 anni fa ma che – nonostante le differenze tra noi e i Neanderthal, ma visti anche i numerosi punti di contatto evolutivi – può aiutarci a gestire quella che viene indicata come la crisi delle crisi che la specie umana deve affrontare, quella climatica innescata dall’uso dei combustibili fossili. Ne parliamo con il professor Andrea Cardarelli, docente di Archeologia preistorica e protostorica alla Sapienza di Roma e presidente dell’IIPP, eccellenza della ricerca che conta fra i suoi soci 66 musei, 47 tra soprintendenze e parchi archeologici e 32 dipartimenti universitari associati.
Professor Cardarelli, viviamo una fase storica molto complicata: avremo le tecnologie per combattere la crisi climatica, sappiamo cosa dobbiamo fare, ma non stiamo facendo. La mostra di Firenze, e alcuni dei seminari che si sono tenuti a ottobre nella tre giorni di celebrazione dei 70 anni dell’Istituto di preistoria e protostoria, alludono a un possibile insegnamento che potrebbe arrivare al superbo sapiens contemporaneo dalla preistoria. Ci racconti.
In primo luogo bisogna tenere conto del fatto che la preistoria rappresenta, considerando solo Homo Sapiens, il 90% della storia dell’umanità.
In questi ultimi decenni, forse in quest’ultimo secolo, abbiamo pensato di essere immuni ai problemi climatici. Mentre appunto per il 90% dello stare dell’Homo sapiens sulla Terra le comunità umane erano più fortemente legate alla natura, avevano un rapporto più diretto con la natura.
Anche solamente da questo punto di vista potrebbe essere utile conoscere come le comunità umane si sono comportate in relazione alle modificazioni ambientali e climatiche di allora.
Il cambiamento climatico allora è stato in senso opposto, non verso temperature più alte ma verso le glaciazioni, giusto?
Dipende, perché ci sono stati periodi glaciali ma anche periodi interglaciali, che duravano anche decine di migliaia di anni. E le reazioni sono state varie, non sempre l’homo sapiens ha subito i cambiamenti.
Ci racconti come hanno reagito i nostri antenati?
Le comunità della preistoria e della protostoria – che è la parte più recente, alcune migliaia di anni da oggi, l’età dei metalli per intenderci – hanno saputo avere anche risposte resilienti.
La più eclatante di tutte è la domesticazione delle piante e degli animali. Le glaciazioni sono finite, stiamo parlando di circa 12 mila anni fa. Mentre ad esempio in Europa, anche in Italia, con la fine delle glaciazioni la situazione migliora notevolmente, con risorse (acqua, boschi, animali) molto diffuse, in altre zone del Pianeta si sono create delle situazioni critiche, a causa in particolare dell’inaridimento legato ai cambiamenti del clima: ad esempio nel Vicino Oriente le risorse necessarie alla sussistenza, alla vita, si sono concentrate in alcune aree specifiche. Animali, piante e uomini si sono ovviamente concentrati anch’essi in queste aree specifiche, determinando quindi una più elevata concentrazione demografica delle comunità umane. La caccia e la raccolta non erano più sufficienti, come lo erano stati per millenni, a sfamare tutte quelle persone, e per le comunità umane è stato necessario trovare una soluzione per il cibo: allora, con un processo che non è stato immediato ma è durato anche un millennio, hanno scoperto la possibilità di domesticare piante (frumento e orzo in particolare) e animali (caprovini, bovini e suini). Per questo l’agricoltura e l’allevamento sono ‘nati’ nel Vicino Oriente. In realtà, quindi, molto spesso i fattori di crisi portano a soluzioni resilienti.
E mentre in Europa per millenni troviamo solo villaggi, composti da centinaia di persone, nel vicino oriente la concentrazione delle risorse determina uno sviluppo estremamente veloce verso la formazione delle città. E poi progressivamente sono arrivate altre innovazioni, come l’inizio della produzione di metalli e poi la formazione degli Stati, come appunto in Mesopotamia o in Egitto, che già tra la fine del quarto e l’inizio del terzo millennio a.C. sono già delle società urbanizzate. Tutto questo mentre da noi fino al primo millennio a.C. non ci sono città, non ci sono Stati, ma solo villaggi con qualche centinaio o al massimo uno o due migliaia di persone.
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Anche la scoperta di Poggetti Vecchi (Grosseto), al centro della mostra di cui abbiamo parlato, ci parla di resilienza climatica.
Esattamente. Cosa succede a Poggetti Vecchi 170.000 anni fa? Stava iniziando un nuovo periodo glaciale. Analisi effettuate sulle microfaune, cioè sui molluschi che sono stati trovati nello scavo, hanno evidenziato che il clima doveva essere più freddo di 6 gradi rispetto a oggi. Si veniva da un periodo climaticamente meno rigido, c’erano animali di grossa taglia, come per esempio l’elefante antico, che si rifugia nell’area di Poggetti Vecchi perché è un’area più calda, data la presenza sorgenti termali. Questo determina una concentrazione di questi grandi pachidermi, come rivela lo scavo. Una concentrazione che attira anche gruppi di Neandertal che sfruttano questa situazione più agevole per trovare di che sfamarsi. Quello che per gli elefanti potrebbe sembrare una risorsa diventa invece una trappola, mentre per gli umani il concentrarsi anche loro in quest’area è una forma di adattamento a una situazione che sta profondamente cambiando.
L’uomo, evidentemente, sa adattarsi, sa essere resiliente. Ma a volte questo non basta, non ce la fa.
Ci dica.
Un esempio da epoche più recenti può essere uno legato alla piccola glaciazione, quella del XVI secolo dopo Cristo. In quel tempo la Groenlandia è tornata a essere un’area interamente ghiacciata, e i vichinghi, che avevano un’economia agricola, non hanno sopportato questo cambiamento: molti sono morti, altri se ne sono dovuti andare. Insomma, non sempre è andata bene.
Un esempio invece dalla protostoria italiana. In Pianura Padana, nei secoli attorno alla metà del II millennio a.C., si sviluppa un’importante civiltà e cultura, quella delle terramare: centinaia di villaggi fortificati che contenevano ognuno alcune centinaia di persone, e fino ad oltre un migliaio all’apogeo di questa civiltà. Precedentemente la pianura padana era una grande foresta, e attraverso le analisi archeobotaniche vediamo che questa foresta è stata via via eliminata: si passa da un 70-80% di copertura forestale a un 20-30%. Quello che era un paesaggio naturale diventa un paesaggio antropizzato, abitato da una società che ha molto successo, anche grazie un’agricoltura sviluppata che poteva contare su opere idrauliche per la gestione e la redistribuzione dell’apporto idrico. Era una civiltà estremamente avanzata.
Ma succede qualcosa, immagino.
Succede che a un certo punto a causa del combinato causato dello sfruttamenti dei suoli, naturalmente senza la capacità che abbiamo noi di rigenerarli, e dell’inaridimento del clima, che vediamo da tracce archeologiche molto evidenti come l’abbassamento delle falde, entrano in crisi. Si tratta di comunità estremamente specializzate dal punto di vista economico e quindi nel giro di poco tempo cominciano a avere dei problemi di sostentamento: la popolazione era molto numerosa e probabilmente non c’è più la capacità di produrre a sufficienza per sfamare tutte queste persone. Questo determina anche reazioni a catena di ambito socioeconomico, cioè di maggiore conflittualità, perché la prima cosa che viene in mente quando manca il cibo è andare a prenderlo al vicino. Va a finire che intorno al 1200-1150 a.C. questa società collassa, e assistiamo ad uno spopolamento pressoché completo della Pianura padana.
Ma non va così male per tutti. Paradossalmente, nel vicino Appennino emiliano, vediamo che invece i villaggi continuano a resistere. Perché? Perché in realtà il tipo di economia di questi villaggi, in realtà molto meno avanzata, riesce a sopportare l’impatto di una crisi climatica. La quantità di popolazione, il tipo di struttura economica e sociale è estremamente differente, più elementare se vogliamo, però in quel caso riescono a sopravvivere: le zone marginali, quelle di montagna, diventano in questo momento maggiormente resistenti o anche resilienti.
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Tutto questo cosa ci può insegnare oggi, in una situazione di emergenza climatica globale?
C’è un aspetto fondamentale di cui tenere conto. Le società preistoriche che in qualche modo hanno risposto in maniera resiliente, sono società che hanno sviluppato risposte ambientali tenendo conto dell’ecosistema in cui vivevano. È vero che oggi viviamo una crisi globale, planetaria, ma è anche vero che gli ecosistemi sono diversi e quindi le risposte che dobbiamo dare sono risposte che da una parte devono tenere conto della situazione planetaria, dall’altra devono commisurarsi alle differenze: dobbiamo usare le differenze come strumento di resistenza, di resilienza.
One-fits-all, come dicono efficacemente gli anglofoni, col clima non funziona.
Esatto, questo ci insegna un po’ la preistoria e questo è un aspetto che secondo me dobbiamo tenere presente.
L’altra cosa che ritengo importante è che oggi abbiamo delle capacità predittive e tecnologiche estremamente avanzate, evidentemente molto più avanzate di quelle che avevano nella preistoria e nella protostoria: però dobbiamo imparare a usarle. Paradossalmente noi abbiamo la capacità di predire quello che succederà ma non stiamo riuscendo a farlo.
Lei avrà forse sentito parlare del libro di Jared Diamonds intitolato Collassi. Un libro fondamentale che, anche se non è stato il solo a sostenerlo, ci dice che le società umane sopravvivono se trovano un modo resiliente di stare al mondo. Le società che riescono a superare i momenti critici sono quelle che hanno la capacità di cambiare, l’intelligenza e la capacità di modificare il loro “modo di produzione”, per usare una terminologia marxista, il sistema economico – che è però a cascata determina anche un cambiamento delle strutture sociali. Falliscono quelle che sono troppo fortemente attaccate al proprio modello economico. Un modello che magari ha avuto successo per un certo periodo di tempo, come il nostro modello capitalistico, che ha avuto successo ma adesso, almeno sul fronte degli aspetti climatici e ambientali, sta creando enormi problemi e non sembra funziona più. Perché è evidente che se noi continuiamo con un paradigma legato principalmente al profitto, e il profitto facile e immediato ce lo danno le risorse fossili che ci stanno portando al collasso, non andiamo da nessuna parte.
Quindi forse il punto della riflessione è come possiamo cambiare il nostro modello economico e sociale. Questo è un aspetto che noi abbiamo la possibilità di prevedere, nella preistoria non ce l’avevano.
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Dai suoi racconti, Andrea, sembrerebbe quasi che lei in questi villaggi ci sia andato. Come fate a ricostruire tutto questo?
Come sappiamo, la preistoria e la protostoria non ha lasciato documentazione scritta: perché quegli uomini e quelle donne non scrivevano. Quindi noi dobbiamo ricostruire la loro storia attraverso i resti materiali: non solamente i reparti archeologici, i contesti di scavo, le strutture, i luoghi di culto, le necropoli ecc… Queste sono certamente le cose più evidenti e molto importanti, ma ci sono anche moltissimi altri elementi che ci danno informazioni importanti.
Gli strati archeologici, per fare un esempio, conservano i pollini per migliaia di anni. Se analizziamo a livello microscopico i sedimenti, ritroviamo pollini dai quali possiamo ricostruire che tipo di ambiente c’era: per esempio se c’era solamente foresta, se la foresta era fatta da alberi adatti a climi freddi, oppure invece da piante mesofile, cioè amanti del caldo. Oppure possiamo capire se c’era già un’agricoltura sviluppata, che tipo di agricoltura c’era, possiamo fare analisi isotopiche (sugli isotopi, ndr) di alcuni macroresti vegetali (legno, oppure anche di semi di piante) e possiamo capire per esempio se c’era un clima piovoso o una situazione più arida.
Questo è il campo di studio dell’archeobotanica. Poi c’è l’archeozoologia. Quando troviamo ossa di animali possiamo capire se c’era un allevamento e di che tipo di allevamento si trattava. Anche la microfauna – i molluschi o gli altri animaletti piccolissimi che si conservano – è estremamente importante, e naturalmente bisogna fare molta attenzione a raccoglierli quando si scava. Ad esempio i molluschi terrestri sono estremamente variabili dal punto di vista del clima: gli specialisti riescono a riconoscere quali molluschi vivono in condizioni diverse di tipo di temperatura, di umidità, e grazie a tutte questi informazioni possiamo ricostruire il tipo di clima, il tipo di ambiente.
Poi ci aiuta naturalmente anche la micromorfologia, che è un’altra disciplina di ambito geoarcheologico: i microscopi ci possono dire quali sono gli elementi che costituiscono gli strati di suolo che noi scaviamo. Poi abbiamo l’analisi dei resti umani, che sono ovviamente estremamente informativi: possiamo ricostruire non solo il sesso e l’età dell’individuo, ma possiamo capire che tipo di malattie aveva, se la sua qualità della vita era a buon livello, cioè se il cibo era abbondante oppure se invece aveva vissuto una vita stentata. Quindi, ancora una vota, anche attraverso le ossa umane possiamo ricostruire il tipo di ambiente in cui loro vivevano. E anche se si sono spostati nello spazio: l’isotopo dello stronzio, per esempio, ci permette di capire se una persona nel corso della sua vita ha vissuto sempre nella stessa località, oppure no. Oggi siamo arrivati anche all’archeogenetica, quindi al DNA antico: in questo caso possiamo capire lo spostamento delle popolazioni, possiamo capire se gli individui sono imparentati fra di loro.
Per farla breve, abbiamo una serie di strumenti forniti dalle diverse scienze. Soprattutto in virtù del fatto che non abbiamo fonti scritte, l’archeologia è diventata una disciplina globale: nel senso che sì, ci sono gli archeologi, ma ci sono anche gli archeozoologi, gli archeobotanici, i geoarcheologi , i bioarcheologi, chi si occupa di archeologia genetica. Stiamo diventando una disciplina globale e grazie a questo possiamo ricostruire vari aspetti della vita e dell’ambiente in cui queste antichissime comunità umane vivevano.
Stefano Mancuso, in “Fitopolis”, ci racconta che l’ecosistema che sta mostrando la crescita più rapida e sorprendente è l’ecosistema urbano, perché in tutto il mondo gli uomini e le donne si spostano in città. Un’altra cosa che osserva Mancuso è che la specie umana, da specie generalista sta diventando sempre più una specie specializzata: noi viviamo bene soprattutto in uno specifico ecosistema, ma se cambiamo ecosistema cominciamo ad avere problemi. E questo ecosistema è appunto l’ecosistema urbano. Questo complica le cose, mi pare.
Tornando all’esempio delle terramare: erano agglomerati molto specializzati dal punto di vista economico, ma poco resilienti alle crisi. Il problema si è creato a fronte a un’estrema specializzazione. Guardi che la cosa è simile a quanto vediamo oggi: perché il popolamento che noi abbiamo riscontrato in pianura padana nell’età del bronzo non è stato determinato crescita naturale, abbiamo misurato un rapidissimo aumento demografico che è spiegabile solamente con l’arrivo di nuovi gruppi umani. Quindi il grandissimo successo delle terramare porta poi a una difficoltà di gestione nel momento in cui compare un fattore critico.
E la cosa molto interessante è che in altre aree, anche italiane, per esempio in Italia centrale, c’è invece una crescita demografica molto più lenta. Qualche anno fa ho presentato un grafico: da una parte (terramare) c’è uno sviluppo demografico rappresentato da curva ascendente molto forte seguita da un crollo; invece da quell’altra parte(Etruria) la crescita è una retta che si eleva poco per volta. Come dire: da una parte c’è un sistema che ha molto successo ma che non è sostenibile; dall’altra c’è invece un tipo di sistema economico che evidentemente ha molto meno successo, è molto più povero ma è più sostenibile.
Quindi e necessario ragionare anche su questo: quanto a lungo possiamo sostenere un modello di sviluppo di una città senza poi determinare una crisi che arriva a mettere in discussione la sopravvivenza delle persone? Certo possiamo adottare misure per vivere meglio nelle nostre città, ma io credo contestualmente sia importante anche pensare cosa fare per non spopolare totalmente il territorio e soprattutto le aree marginali, perché diversificare ci da un’opportunità in più.
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