Al contrario di tanti inglesismi, la parola shrinkflation ha faticato ad entrare nell’utilizzo comune della lingua italiana. Forse perché è ostica da pronunciare e ancor più da capire, almeno immediatamente, dato che nasce dalla fusione del verbo shrink (stringere) e del sostantivo inflation (inflazione). Ma è una pratica con cui chiunque ha avuto a che fare negli ultimi cinque anni, più precisamente dall’arrivo della pandemia di Covid-19. Si tratta, infatti, della pratica scelta dalle aziende di ridurre la quantità di un prodotto mantenendone però invariato il prezzo. Identiche sono rimaste le forme del prodotto, che però è stato leggermente rimpicciolito.
Spesso, specie i primi tempi, è stato difficile per consumatrici e consumatori accorgersi della differenza. Che però poi ha cominciato a pesare sempre più sulle economie domestiche. Perché, tanto per fare un esempio, se con 1 euro e 50 non compro più un chilo di pasta ma 800 grammi dovrà fare più acquisti per potermi nutrire.

E’ vero che per le aziende in questo arco temporale i costi si sono alzati: prima la riduzione dei consumi dovuti alla pandemia e poi i prezzi dell’energia hanno però reso sistemico un cambiamento che era stato annunciato come temporaneo e che, come al solito, è stato scaricato sull’anello della catena più debole. Ecco perché i governi hanno provato ad arginare in qualche modo il fenomeno.
Il governo Meloni, nello specifico, lo ha fatto obbligando le aziende a inserire dal prossimo 1 aprile quelle che sono stati impropriamente definite “etichette anti-shrinkflation” e che invece sono semplicemente degli avvisi rivolti a consumatrici e consumatori, con le persone che comunque saranno costrette a comprare, o a rinunciare all’acquisto. Su tale scelta lo scorso 12 marzo la Commissione Europea ha comunicato di aver avviato una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia, invitando il nostro Paese “a garantire il rispetto delle norme dell’UE in materia di libera circolazione delle merci”.
Ecco cosa c’è da sapere.
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“Anti-shrinkflation” all’italiana
“Ci siamo mossi subito per porre un freno alla shrinkflation. L’Italia, insieme alla Francia, è stata tra i primi in Europa ad aver introdotto una normativa tecnica per arginare il fenomeno. Ancora una volta abbiamo fatto da apripista”, ha dichiarato a dicembre il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso. Quello che era stato motivo di vanto per il governo potrebbe adesso essere, a distanza di qualche mese, l’ennesima procedura d’infrazione da parte dell’Unione Europea: nell’ultimo aggiornamento del Dipartimento per gli Affari Europei, risalente al 12 febbraio 2025, le procedure pendenti nei confronti dell’Italia sono 63, di cui 49 per violazione del diritto dell’Unione e 14 per mancato recepimento di direttive.
La verità è che sembrava abbastanza chiaro che il provvedimento adottato dal governo Meloni sarebbe stato ammonito dalla Commissione Europea. Già a gennaio il sito Pagella Politica aveva pubblicato un articolo dal titolo esplicativo: “Contro la shrinkflation l’Italia rischia una procedura d’infrazione”. Nel pezzo, scritto dalla giurista Vitalba Azzolini, si segnalava che “la misura introdotta dal governo Meloni per tutelare i consumatori rischia di ritorcersi contro l’Italia. Il governo, infatti, non ha rispettato le regole dell’Ue da seguire quando si modificano le norme che possono restringere il mercato unico europeo. Questo problema non riguarda invece l’altro Paese citato da Urso, la Francia, che ha rispettato le regole europee”.
E dire che il tempo c’era: il governo Meloni ha introdotto la misura nella nuova legge annuale per il mercato e la concorrenza, presentata in Parlamento ad agosto 2024. All’art.15 bis si riporta che “i produttori che mettono in vendita, anche per il tramite dei distributori operanti in Italia, un prodotto di consumo che, pur mantenendo inalterato il precedente confezionamento, ha subìto una riduzione della quantità nominale e un correlato aumento del prezzo per unità di misura, informano il consumatore dell’avvenuta riduzione della quantità e dell’aumento del prezzo in termini percentuali, tramite l’apposizione nella confezione di vendita di una specifica etichetta con apposita evidenziazione grafica”. L’obbligo di informazione si applica per una durata di sei mesi dal momento in cui è esposta l’etichetta.
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Cosa contesta l’UE sulle “etichette anti-shrinkflation”
Prima di analizzare il merito delle contestazioni va spiegato che la procedura d’infrazione è attualmente nella fase del pre-contenzioso. Come spiega il Dipartimento per gli Affari europei, “quando Commissione europea rileva la violazione di una norma UE, procede all’invio di una lettera di messa in mora, concedendo allo Stato un termine di due mesi entro il quale presentare le proprie osservazioni”. Se le osservazioni non vengono presentate, o vengono ritenute non adeguate, la Commissione emette un parere motivato in cui indica allo Stato inadempiente il termine entro il quale dovrà adeguarsi alle normative europee. Se, infine, lo Stato membro non si adegua la Commissione può presentare ricorso per inadempimento davanti alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee contro lo Stato in questione.

Detto questo, cosa contesta l’UE? Nella lettera di costituzione in mora si rimprovera all’Italia di “non aver affrontato l’incompatibilità dei suoi requisiti in materia di etichettatura con gli articoli 34-36 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). L’Italia ha introdotto l’obbligo di apporre sui prodotti di consumo un’indicazione specifica che informa che la quantità del prodotto è stata ridotta mentre il suo imballaggio rimane invariato, portando ad un aumento del prezzo per unità. Mentre la Commissione riconosce l’importanza di informare i consumatori in merito a tali modifiche, richiedere che tali informazioni siano visualizzate direttamente su ciascun prodotto in esame non sembra proporzionato”.
Inoltre, scrive ancora la Commissione, “i requisiti nazionali in materia di etichettatura costituiscono un grave ostacolo al mercato interno e compromettono gravemente la libera circolazione delle merci. La Commissione ritiene che le autorità italiane non abbiano fornito elementi di prova sufficienti relativi alla proporzionalità della misura, in quanto sono disponibili altre opzioni meno restrittive (ad esempio, la visualizzazione delle stesse informazioni nei pressi dei prodotti in questione)”. Tra l’altro l’Italia risulta già in violazione della direttiva sulla trasparenza del mercato unico, e al momento non risulta aver considerato il parere dettagliato emesso dalla Commissione.
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