mercoledì, Novembre 5, 2025

Un libro sulla montagna e gli strumenti concettuali utili contro le crisi ambientali

“La parola alle montagne. Lettere possibili di filosofi ai loro monti” di Paolo Piccolella racconta il rapporto dei filosofi con le montagne. E quello dell’uomanità con la natura

Daniele Di Stefano
Daniele Di Stefano
Giornalista ambientale, redattore di EconomiaCircolare.com e socio della cooperativa Editrice Circolare

Possiamo pensare alle montagne come al canarino nella miniera. A causa della rapida perdita di ghiacciai, del degrado del permafrost, dell’aumento dei rischi di frane e valanghe, delle ripercussioni sulla disponibilità di acqua dolce per le popolazioni a valle, gli scienziati e le scienziate del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’ONU (IPCC) le ha indicate tra gli hotspot climatici, quelle aree in cui la crisi climatica è particolarmente acuta e accelerata. Per non dire dei rifiuti: montagne come l’Himalaya sono deturpate da tonnellate di imballaggi monouso. L’approccio ambientale e l’attenzione al degrado degli ecosistemi montani è uno dei temi portanti del volume di Paolo Piccolella “La parola alle montagne. Lettere possibili di filosofi ai loro monti” (Affiori).

Non parliamo di un saggio né di un testo di fantasia: siamo piuttosto in un genere prossimo alla docufiction: un epistolario di “lettere possibili di filosofi alle loro montagne”, come recita il sottotitolo, in cui Piccolella immagina “le parole che ogni pensatore può verosimilmente aver scritto alla montagna”. Lettere immaginate sul finire dalle vita dei filosofi, e così la montagna “funge da specchio del proprio sé più intimo e personale e della complessiva Weltanschauung”.  

Pur non essendo il volume dedicato specificamente alla questione ambientale, ci fornisce tuttavia spunti interessanti per la comprensione delle crisi in atto, ed elementi che potrebbero essere utili per provare a trovare le necessarie risposte. La trasformazione della montagna, scrive l’autore nell’introduzione, è “una delle più evidenti e inquietanti cartine di tornasole del cambiamento climatico”. Che dovrebbe servire come “un richiamo urgente verso la costruzione di una nuova etica e di una filosofia dell’ecologia le cui implicazioni pratiche costituiscono una sfida ben più ardua delle scalate alpinistiche per l’umanità di oggi e del prossimo domani”.

Al di là del rapporto dei singoli filosofi con le vette e delle tante notizie curiose che la lettura regala, quello che qui ci interessa è quel filone che porta proprio alla citata “nuova etica”. Lì possiamo trovare strumenti concettuali che – insieme alle innovazioni sociali e a quelle tecnologiche, alla ricerca scientifica e alla formazione – non possono mancare nella cassetta degli attrezzi necessari per riparare i danni fatti al pianeta.

Lo citiamo spessissimo ma forse ne abbiamo rimosso il significato profondo: “Non possiamo risolvere i problemi con lo stesso tipo di pensiero che abbiamo usato quando li abbiamo creati”, ha detto Albert Einstein. Per fronteggiare e risolvere le crisi ambientali serve una rivoluzione nel nostro modo di pensare il nostro posto nel mondo e i nostri rapporto con la natura.

Paolo Piccolella, da dove nasce l’approccio padronale dell’umanità rispetto al Pianeta, il nostro collocarci al di sopra della natura e degli altri esseri viventi che caratterizza il sistema economico dominante, e che è la causa delle ferite che continuiamo ad infliggere alla Terra? Il punto di vista illuminista, che ha letto il mondo con le lenti delle leggi delle scienza, c’entra qualcosa?

Credo ci voglia cautela prima di attribuire all’illuminismo, movimento culturale fondamentale per la modernità, un ruolo centrale come origine del rapporto di dominio dell’uomo sulla natura. Nel Novecento ci sono stati molti pensatori e diverse correnti filosofiche – ad esempio la scuola di Francoforte, Horkheimer e Adorno, o anche diversi filosofi esistenzialisti – che hanno attribuito all’illuminismo grandi responsabilità, addirittura indicandolo come lontana origine dei totalitarismi del Novecento. Hanno attribuito all’illuminismo la responsabilità di aver costruito una ragione strumentale che serve proprio al fine di dominare il mondo e la natura.

È vero che l’illuminismo ha privilegiato la ragione quale strumento fondamentale per superare il rapporto di sudditanza dell’uomo nei confronti di ciò che gli è superiore, inteso come natura ma anche in senso trascendente. Quindi, da un certo punto di vista, l’illuminismo non è estraneo a questo rapporto di dominio. Detto questo, se l’illuminismo è l’uso della ragione che deve cercare di fare luce dove prima c’era oscurità di pensiero, su tutti quei temi che nel corso della storia umana hanno dato origine a forme di oscurantismo e di asservimento di vario tipo (anche politiche e civili), allora da questo punto di vista la ragione è anche lo strumento fondamentale per comprendere i problemi che la ragione stessa magari può implicare. Quindi credo che serva forse più illuminismo e non meno illuminismo, intendendolo come la capacità di saper vedere anche le conseguenze negative di un uso eccessivamente strumentale della ragione stessa.

Ma il rapporto di dominio con la natura nasce anche prima dell’illuminismo, a partire da modi occidentali di concepire la realtà, filosofici e non, che hanno costituito una visione antropocentrica dell’uomo nel mondo. Il problema infatti non è tanto l’illuminismo di per sé quanto un certo antropocentrismo che nasce già con la tradizione ebraico cristiana, e ancora prima in parte anche con la concezione classica greca e romana.

Sintetizzando, credo quindi che più che l’illuminismo il problema sia l’antropocentrismo. E anche un cattivo uso della ragione illuministica che ritroviamo in parte distorto nel positivismo ottocentesco. Se l’illuminismo è un grande sostenitore della scienza e della tecnica come fattore di progresso – inteso in senso ampio, non solo tecnico, economico o materiale, ma relativo a tutti gli aspetti dell’umano, anche al rapporto con l’ambiente e la natura – in coincidenza con la grande industrializzazione di fine ‘800 e inizio ‘900 è stato il positivismo – discendente diretto e in parte degenerazione dell’illuminismo – a privilegiare il progresso in senso tecnico, tecnologico, scientifico, trascurando però, rispetto all’illuminismo, gli aspetti civili, politici e sociali.

Queste idea di progresso è fatta propria poi da forme di capitalismo selvaggio, caratterizzate appunto da una concezione dello sviluppo e del progresso come processo soprattutto materiale, economico, da raggiungere anche grazie al libero mercato e al capitalismo lasciato a sé stesso.

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Per fortuna, come racconti nel libro, ci sono pensatori che hanno proposto punti di vista più vicini alla natura e agli altri esseri viventi. Potremmo forse dire più empatici. Racconti ad esempio di Hans Jonas e della sua filosofia dell’organismo. Puoi spiegarci?

Jonas è un filosofo tedesco che nella sua vita – nasce nel 1903 – ha fatto un percorso molto articolato: in una prima fa studia le religioni antiche, in particolare lo gnosticismo, ritrovando caratteri filosofici simili all’esistenzialismo del suo maestro, Martin Heidegger. In una seconda fase, tra gli anni ‘50 e ‘60, arrivato in Nord America dopo la fuga dalla Germania guidata da Hitler, si dedica soprattutto a studi di carattere scientifico. Con grande interesse per gli studi di biologia, tanto che la sua “filosofia dell’organismo” è nota anche come “biologia filosofica”: un tentativo di utilizzare gli strumenti provenienti dalle scienze ed in particolare dalla biologia per cercare di interpretare filosoficamente il fenomeno della vita.

Una scelta in controtendenza rispetto a gran parte della scienza moderna e contemporanea che ha come modello di interpretazione della realtà quello fisico-quantitativo-matematico. Jonas si rende infatti conto che la biologia, rispetto alle scienze fisiche e matematiche, non può essere ridotta soltanto a caratteri quantitativi, semplicemente misurabili, ma ha un carattere anche qualitativo e ha per questo bisogno di una interpretazione di tipo finalistico. Utilizzando categorie riprese ad esempio dalla filosofia della natura di Aristotele o da Spinoza, interpreta l’organismo come quel qualcosa è certamente materiale ma allo stesso tempo ha anche caratteristiche di interiorità, spiritualità, o se vogliamo meglio dire, di “libertà”, che sono presenti anche in organismi non umani, come gli altri animali e persino le piante. Tutto ciò che è organico, tutto ciò che è vivente, sottolinea Jonas possiede una certa interiorità oltre all’esteriorità della materia, ha delle finalità, persegue degli scopi, e ha quindi una certa libertà caratterizzata da gradi diversi a seconda del maggiore o minore sviluppo degli organismi stessi. Jonas, quindi, impiegando anche gli strumenti della biologia, arriva ad un’interpretazione metafisica del fenomeno della vita.

Se facessimo nostre le conclusioni di Jonas, come dovremmo comportarci?

Jonas ha avuto il grande merito di aver aperto già tra gli anni ‘50 e ’60 un ponte tra la filosofia, anche di tipo metafisico, e l’ecologia: è il primo che ha cominciato a introdurre una riflessione filosofica sul rapporto dell’uomo con l’ambiente alla luce dei cambiamenti nell’equilibrio ambientale dovuto proprio alle conseguenze dell’azione umana sul pianeta. È il primo, o forse tra i primi, che ha in modo molto approfondito posto il problema dell’ecologia e del rapporto equilibrato tra l’uomo e la natura nell’ambito della filosofia.

Legato a questo c’è stata la sua critica all’antropocentrismo, cioè alla centralità, all’eccessiva preminenza dell’uomo rispetto alla natura. Ma Jonas non porta questa critica alle estreme conseguenze. Nel suo “Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologicaripensa l’etica cercando di proporre un’etica completamente nuova rispetto a tutte le filosofie del passato. Immagina un’’etica planetaria he deve essere collettiva, un’etica in cui l’azione non è l’azione del singolo individuo sull’ambiente in generale è limitata: è tutta l’umanità che nella sua azione collettiva può avere un effetto concreto sul cambiamento climatico, sull’equilibrio ambientale. Per Jonas quindi dobbiamo passare da un’etica individuale ad una collettiva. Se questo è certamente positivo, lui però ragiona ancora però in termini antropocentrici, pone il problema della sostenibilità ambientale soprattutto in funzione delle generazioni future. Ricade quindi, pur se in una forma magari più moderata, di antropocentrismo: da un lato, lo critica, dall’altro continua a sostenere un’argomentazione di carattere antropocentrico.

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Ne “La parola alle montagne” ti soffermi invece anche su un pensiero forse più radicale di quello di Jonas: l’ecologia profonda di Arne Naess, filoso e scalatore norvegese che per primo raggiungere, nel 1950, i 7708 metri del Tirich Mir in Pakistan. Raccontaci.

Il ragionamento di Naess mi sembra in effetti decisamente più radicale. E secondo me più interessante, in un certo senso più coerente. Naess sviluppa il concetto di “deep ecology” negli anni ‘70 in polemica con un’ecologia che definisce invece ‘superficiale’, quella di chi combatte contro l’inquinamento, la crisi ambientale e l’esaurimento delle risorse senza però agire alla radice del problema: il rapporto tra l’uomo e natura. Naess fa ancora un passo in più e ci dice che la stessa idea di un rapporto tra umanità da una parte e natura dall’altra è errata, perché è un modo di ragionare tipico dell’ecologia superficiale. Dobbiamo invece partire dal presupposto che noi esseri umani siamo inseriti in un sistema, in una sorta di grande rete: la natura è una grande rete all’interno della quale l’uomo costituisce un elemento. Un elemento tra i tanti all’interno di un sistema molto complesso.

Naes arriva qui soprattutto partendo e ripensando alla filosofia di Spinoza. Spinoza, il grande filosofo che nel Seicento, aveva concepito la realtà, il mondo, come un sistema fondato su un’unica sostanza. Deus sive Natura, diceva, “Dio uguale mondo”: Dio è tutto il mondo, l’intera natura è fondamentalmente un grande sistema basato su un’unica sostanza. Sulla base di queste riflessioni di Spinoza Arne Naess ripensa proprio al sistema mondo, alla natura come una grande rete, una grande e complessa rete all’interno della quale gli umani sono una parte, sono degli snodi sicuramente importanti ma non centrali né così preminenti.

Naess sostiene “un biocentrismo radicale: qualsiasi organismo ha valore di per sé. Con l’ecologia profonda propone il totale superamento della prospettiva antropocentrica. Anche l’impegno a tutelare le risorse del Pianeta per garantirne la fruizione alle future generazioni umane – come quella di Jonas, oggi tanto diffusa tra i difensori dell’ambiente – è ancora un’ottica antropocentrica. La tutala della natura, la salvaguardia della vita vanno perseguite di per sé, non in funzione della specie umana.

Una delle lettere del tuo libro la intitoli alla “filosofa partigiana”: pur sottolineando che è ispirata a persone realmente vissute, non ne sveli l’identità. Ma qui ci interessa quello che le fai scrivere: “Forse ci sarebbe bisogno di una nuova concezione materialistica della storia, un materialismo rinnovato che comprenda non solo gli umani […] ma perfino queste pietre e questi ghiacciai di montagna e tutti gli esseri viventi della biosfera”. In che modo questo “materialismo rinnovato” potrebbe aiutarci a gestire le crisi ambientali? Queste parole alludono forse alle recenti riletture di Marx e Engels fatte da Kōhei Saitō?

Erano gli anni novanta, frequentavo il liceo e la mia professoressa di storia e filosofia, marxista, già sosteneva l’idea di un Marx che andasse conciliato con le istanze di una natura umana e non, in un’epoca in cui ancora il dialogo tra marxisti “operaisti” o “industrialisti” e ecologisti, verdi o ambientalisti non era affatto facile. Ci vedeva lungo e anche per questo segnò molto il mio percorso di vita e di studio. Il personaggio della filosofa-partigiana prende ispirazione da lei, al di là della differenza di epoca: la mia professoressa aveva infatti circa dieci anni durante l’ultima fase della seconda guerra mondiale, ma caratterialmente e idealmente corrispondeva perfettamente a chi la resistenza l’avrebbe potuta e voluta fare. A distanza di molto tempo sto recuperando alcuni stimoli intellettuali di cui allora non sempre ho saputo cogliere le implicazioni. Credo che la sfida di un marxismo che deve saper ritrovare le sue basi proprio nel pensiero di Marx ma in un incontro con le esigenze ecologiste sia assolutamente centrale in questi anni e nell’immediato futuro se vogliamo salvare questo pianeta. E la recente lettura del libro di Saito Kohei, “Il capitale nell’antropocene“, uscito ben dopo la scrittura del mio libro, mi è sembrato un lampo interessante in un mare piuttosto tempestoso.  “Socialismo o barbarie”, si diceva una volta, “eco-socialismo o catastrofe”, dovremmo dire oggi. 

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