Dopo la pessima figura dell’Unione Europea con gli Stati Uniti, in cui Ursula von der Leyen ha accettato i dazi imposti da Donald Trump senza neanche provare a controbattere, per le imprese e le persone che vivono nei 27 Stati membri dell’UE si apre una nuova fase. Ora che il presunto alleato commerciale si è rilevato un padrone che intende dettare legge, inevitabilmente bisognerà seriamente guardarsi altrove.
E l’altro gigante economico col quale interfacciarsi, al netto della Russia che da tre anni l’UE sta provando a isolare (senza grandi successi, a dire il vero), è la Cina. Nei giorni precedenti al disastroso incontro tra Von der Leyen e Trump nel lussuoso Golf Club di Turnberry, in Scozia, di proprietà dello stesso Trump, era passato sotto silenzio il summit tra UE e Cina dello scorso 24 luglio, in occasione del 50esimo anniversario dell’avvio delle relazioni bilaterali tra le due potenze.
A leggere però lo scarno comunicato dell’UE l’esito è stato parecchio insoddisfacente. ”L’UE ha ribadito la sua determinazione ad approfondire l’impegno con la Cina e a rafforzare la cooperazione al fine di affrontare le sfide globali comuni – si legge nel comunicato – In tale contesto è stata concordata una dichiarazione comune per la stampa sui cambiamenti climatici. L’UE ha sottolineato che un impegno più profondo deve portare a relazioni commerciali più equilibrate e mutualmente vantaggiose, fondate su equità e reciprocità. I leader dell’UE e della Cina hanno ribadito il loro impegno a sostenere l’ordine internazionale basato su regole e a collaborare per salvaguardare il multilateralismo”.
Insomma: al di là dell’impegno comune sulla crisi climatica ci sono solo dichiarazioni di facciata. Ed è un vero peccato perché i temi di collaborazione reciproca avrebbero potuto essere tanti, specie dopo le dichiarazioni bellicose del presidente Usa Donald Trump nei confronti sia dell’UE (che si è subito piegata) che della Cina (che non si è piegata). A partire dalla filiera delle materie prime critiche che da anni è in mano alla Cina, che detiene una sorta di monopolio dall’estrazione alla lavorazione fino alla commercializzazione dei prodotti finiti. Eppure c’è un luogo dove tale possibile cooperazione è ancora possibile. E quel luogo, grande come un Continente, è l’Africa.
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Una cooperazione tumultuosa ma possibile, con una guida africana
“Il tumultuoso percorso verso la cooperazione trilaterale UE-Cina-Africa sulle materie prime critiche in Africa”: questo è il titolo di un approfondito pezzo su questo triangolo, solo in apparenza inedito, che si può leggere su APRI – Africa Policy Research Institute – un think tank africano indipendente e apartitico con sede legale a Berlino, Germania, e Abuja, in Nigeria.
Il punto di partenza della riflessione non può che essere la diversa condizione dei tre attori in campo. Da una parte c’è l’Unione Europea, che da tempo sta provando a diversificare le proprie catene di approvvigionamento per essere meno dipendente dalle forniture estere; dall’altra c’è la Cina, con il suo dominio in tutta la filiera e che allo stesso tempo necessita di continue forniture; e infine c’è l’Africa, ricca di materie prime e che prova a farle diventare occasione di sviluppo a livello locale. Una cooperazione dunque complessa, che deve fare i conti col colonialismo storico dell’Europa e con quello più recente (e morbido) della Cina e coi complessi rapporti tra uno Stato (la Cina), un Continente che non parla con una sola voce e anzi attraversata da mille voci (l’Africa) e un’istituzione a metà tra le prime due (l’Unione Europea).

Come ricorda il think tank APRI, fino a questo momento Cina e UE si sono mosse in Africa senza coordinarsi: il gigante asiatico ha firmato accordi con singoli Stati africani attraverso la Belt and Road Initiative; il Vecchio Continente ha preferito firmare diversi protocolli di intesa (MoUs) tra l’UE e i Paesi africani, nell’ambito di atti come il Critical Raw Materials Act. Mentre l’intento dei Paesi africani coinvolti in questi accordi è sempre lo stesso, cioè lo sviluppo economico e industriale, con gli obiettivi a medio-lungo termine di stabilire catene del valore locali per le materie prime critiche e quindi migliorare la loro posizione all’interno delle catene del valore globali.
“Nonostante le tensioni geopolitiche, il rischio di un confronto diretto UE-Cina nel settore delle materie prime critiche in Africa rimane basso, a causa della minima sovrapposizione nelle loro fonti di approvvigionamento e degli interessi strategici, creando spazio per la cooperazione piuttosto che per la concorrenza – scrive il think tank APRI – Le opportunità più valide per la cooperazione trilaterale si frappongono nelle attività a valle e a monte, come la raffinazione e la produzione di precursori delle batterie, dove gli interessi allineati e le capacità complementari possono sostenere le ambizioni industriali africane”.
Dunque una cooperazione a tre è possibile, a patto che UE e Cina scelgano di attuare una cooperazione reale. L’Italia, in questo senso, potrebbe fare da apripista, per esempio modificando e integrando il Piano Mattei per l’Africa che, al di là della propaganda, ripropone il meccanismo novecentesco per cui le aziende italiane sfruttano le risorse africane, dando poi alla popolazione locale né più né meno che un contentino, senza una reale collaborazione e un’adeguata partecipazione, soprattutto per quel che riguarda l’estrazione di valore.

“La frammentazione e l’asimmetria all’interno delle catene di approvvigionamento delle materie prime critiche – tra le parti interessate, la capacità di governance e le agende nazionali – creano ostacoli alla cooperazione trilaterale – sostiene ancora APRI – Incentivi divergenti e limitata integrazione verticale complicano gli sforzi per allineare gli interessi di tutte le parti. La leadership africana è essenziale per guidare una cooperazione trilaterale efficace. I Paesi produttori dovrebbero avviare accordi che equilibrino gli obiettivi di sviluppo con gli investimenti e il sostegno tecnologico dell’UE e della Cina”.
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