Parlare di desertificazione a proposito degli oceani può essere controintuitivo. Eppure ENEA ci dice che “a causa del cambiamento climatico cresce la desertificazione oceanica”. “In poco più di vent’anni – spiega l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile – è quasi raddoppiata l’area delle regioni oceaniche già povere di nutrienti e con scarsa biodiversità”. La desertificazione degli oceani non è certo la mancanza di acqua ma questo impoverimento di vita. A causa della desertificazione l’area povere di nutrienti e con scarsa biodiversità “è passata dal 2,4 al 4,5% dell’oceano globale”. Attenzione a sottovalutare questo piccolo aumento percentuale: si tratta di centinaia di migliaia di chilometri quadrati. “Questo fenomeno risulta molto evidente nell’Oceano Pacifico settentrionale dove la superficie coinvolta cresce a un ritmo di 70mila km² l’anno. Ma la desertificazione interessa in modo crescente diverse regioni oceaniche, con una particolare vulnerabilità nelle aree tropicali e subtropicali, dove la diminuzione dei nutrienti disponibili può avere importanti impatti sulla produttività e la diversità biologica”, chiarisce Chiara Volta, ricercatrice ENEA del Laboratorio Modelli e Servizi Climatici. E autrice di uno studio internazionale pubblicato su ‘Geophysical Research Letters’ e condotto dal suo laboratorio in collaborazione con l’Istituto di Scienze Marine ISMAR-Cnr e il laboratorio cinese State Key Laboratory of Satellite Ocean Environment Dynamics.
Il fenomeno osservato da Chiara Volta insieme a Marco Bellacicco, Xiaogang Xing, Guo Yang e Salvatore Marullo comporta una grave carenza di nutrienti che “potrebbe avere conseguenze significative sulla salute degli oceani e sul clima globale”. E proprio il clima, nel classico meccanismo del cane che si morde la coda (“cicli di feedback positivi”, direbbero gli scienziati) ne è la causa. L’aumento della desertificazione osservato nella ricerca “accade a causa del riscaldamento globale, che fa sì che l’acqua calda, più leggera, resti in superficie, impedendo il mescolamento con l’acqua più fredda e ricca di nutrienti che si trova in profondità”, spiega ancora Volta. “Meno mescolamento significa quindi meno ‘cibo’ che arriva alla superficie per sostenere la crescita del fitoplancton e, di conseguenza, dell’intera catena alimentare”.
Leggi anche: Giornata Nazionale del Mare 2025: cos’è e cosa dobbiamo sapere
Piccole dimensioni, conseguenze globali
Oggetto dello studio è stato il fitoplancton: ne abbiamo sentito parlare tutti, e se la parola non ci restituisce nessuna immagine precisa sicuramente richiama qualcosa di dimensioni estremamente piccole. Il fitoplancton è composto di alghe piccole e sferiche (attorni ai 6 micron di diametro, 6 millesimi di millimetro) ed è alla base della catena alimentare marina. Guai a lasciarsi distrarre dalle misure: “Sebbene le dimensioni dei singoli organismi siano molto ridotte, la loro quantità nelle acque è talmente elevata da produrre oltre il 90% della sostanza organica degli oceani e circa il 50% dell’ossigeno terrestre” si legge sul sito dell’Agenzia regionale per l’ambiente della Toscana.
Per questo “costituiscono una fonte di nutrimento essenziale per la sopravvivenza di tutte le altre forme di vita acquatiche”: sono infatti colazione pranzo e cena dello zooplancton, che a sua volta sfama pesci e altri organismi. Non solo: queste alghe contribuiscono a mitigare i cambiamenti climatici rimuovendo la CO2 atmosferica attraverso la fotosintesi. Sono infatti “i principali produttori di ossigeno negli ecosistemi marini e incidono in modo importante anche sull’ossigenazione terrestre” (ancora Arpa Toscana).

Source: https://earthobservatory.nasa.gov/global-maps/
Interpretare la clorofilla
Per realizzare lo studio pubblicato su ‘Geophysical Research Letters’ i ricercatori hanno esaminato le serie temporali di dati satellitari di clorofilla e di fitoplancton tra il 1998 e il 2022 nei cinque principali vortici oceanici della Terra (gyres subtropicali) situati nell’Atlantico settentrionale e meridionale, nel Pacifico settentrionale e meridionale e nell’Oceano Indiano. Si tratta di “sistemi di correnti caratterizzati da un movimento anticiclonico dell’acqua che si sviluppano tra l’Equatore e le zone subtropicali di alta pressione, e la cui formazione dipende da una complessa interazione tra venti, rotazione terrestre e distribuzione delle terre emerse”.
Dallo studio emerge anche che è in diminuzione la quantità di clorofilla, indicatore chiave della salute e della produttività del fitoplancton: “In pratica, una maggiore presenza di clorofilla indica una maggiore abbondanza di fitoplancton”, ricorda ENEA. “Negli ultimi due decenni, in concomitanza con il riscaldamento degli oceani, molti studi satellitari hanno documentato un’espansione di questi sistemi oceanici e una conseguente riduzione di clorofilla, destando serie preoccupazioni sulle possibili implicazioni per il clima globale e la salute dei nostri oceani”, ricorda Chiara Volta. Che però a questo proposito è possibilista: “Questo calo potrebbe non indicare una riduzione della popolazione fitoplantonica, ma un adattamento di questi organismi alle nuove condizioni di crescita imposte dal cambiamento climatico, quali ad esempio l’aumento della temperatura e la riduzione della disponibilità di nutrienti”, sottolinea. I risultati dello studio, infatti, “mostrano che, nonostante la diminuzione della clorofilla osservata nella zona più povera di nutrienti dei vortici subtropicali, la biomassa fitoplantonica è rimasta sostanzialmente stabile nel tempo”.
Obiettivo delle prossime ricerche, quindi, “sarà “studiare i cambiamenti della comunità fitoplantonica lungo la colonna d’acqua e quantificare il loro impatto”.

Source: https://earthobservatory.nasa.gov/images/4097/global-chlorophyll
Leggi anche Trattato sull’alto mare, deep sea mining, plastica: a Nizza la Conferenza ONU sugli oceani
© Riproduzione riservata



