giovedì, Novembre 6, 2025

Emanuele Profumi: “La ‘servitù democratica’ che non ci permette di affrontare le crisi ambientali”

Partendo dal suo ultimo libro con Emanuele profumi parliamo di degenerazione della democrazia, di neoautoritarismo, di immaginario capitalista, consumismo e crisi ambientali, militarismo. E delle “controspinte creative” presenti nelle nostre società

Daniele Di Stefano
Daniele Di Stefano
Giornalista ambientale, redattore di EconomiaCircolare.com e socio della cooperativa Editrice Circolare

Democrazie costituzionali “svuotate”, una società che non è in grado si auto organizzarsi per mezzo della politica perché si considera una “società di mercato”, e poi il potere “che si confonde con il dominio”: tutti ingredienti che secondo Emanuele Profumi collega di EconomiaCircolare.com che si divide tra ricerca filosofica, giornalismo, saggistica – hanno a che fare con l’incapacità di affrontare e gestire le urenti crisi ambientali, da quella climatica all’inquinamento all’erosione della biodiversità.

Emanuele, nel tuo ultimo libro (“Servitù democratica. Come fermare la spirale autoritaria”, Prospero editore) cerchi di andare al cuore di quella che viene definita come “crisi delle democrazie liberali”. Parli di una democrazia ormai “antidemocratica” in cui la politica è impossibilitata ad affrontare problemi collettivi urgenti, come le crisi ambientali e quella climatica. Partiamo dalle premesse: aiutaci a definire lo stato della democrazia oggi – e quello della nostra società.

Permettimi prima di tutto di fare una premessa indispensabile per chiarire l’esigenza che mi ha spinto a scrivere questo saggio filosofico politico. 

Ormai da diversi anni molte discipline accademiche si occupano di quella che è diventata un’evidenza storico-politica, ossia il contemporaneo affermarsi di movimenti, in un primo momento spesso definiti erroneamente “populisti”, e la crisi delle democrazie liberali, a volte considerate in modo riduttivo come “democrazie occidentali”. Ossia i regimi costituzionali guidati dai partiti politici attraverso l’uso del suffragio universale, del voto popolare. L’urgenza di scrittura si è concretizzata davanti alla continua semplificazione di questo fenomeno. Come se si volesse trovare subito una formula magica in grado di tirarci fuori dai guai in cui ci stiamo cacciando ormai da parecchi decenni. Quindi il libro nasce dalla necessità di chiarire la complessità del processo storico-politico che si cela dietro la vittoria dei movimenti neoautoritari contemporanei. Benché la mia non è una ricostruzione storica, ma una tesi di filosofia politica. Ciò su cui invito a riflettere, in altre parole, è che per comprendere la crisi democratica e questi movimenti bisogna adottare categorie filosofico-politiche in grado di farci capire lo storico e profondo processo che organizza la società consumista di massa. Esso è mosso principalmente dall’immaginario politico, ovvero quella parte dell’immaginario sociale in grado di orientare l’autorappresentazione della società e di fissare la concezione, socialmente accettabile e legittima politicamente, del potere collettivo che l’accompagna. Davanti al problema dell’autoritarismo, ormai innegabile dopo l’elezione del governo Meloni e con la nuova affermazione di Trump negli Usa, c’è bisogno di prendere seriamente in considerazione quali sono le radici principali di questo processo, almeno da una prospettiva sinceramente democratica.

Chiarito questo, mi sento di poterti rispondere evitando alcuni fraintendimenti.

Questo processo ha creato le condizioni per l’affermarsi di una paradossale democrazia antidemocratica frutto di una crisi del paradigma di società generata con l’affermarsi della società consumistica di massa, che è contemporaneamente una crisi sociale e politica. Se intendiamo la politica come quella pratica che si muove attraverso un consapevole e democratico progetto di società, ossia grazie ad una ricerca attiva volta a riorganizzare la società in modo collettivo seguendo l’autonomia solidale, allora è bene comprendere perché ci troviamo non solo davanti a questo nuovo tipo di democrazia ma anche perché si è affermato da tempo un processo storico di neutralizzazione della politica. Non a caso, gli strumenti che sono stati usati in senso democratico in passato, il voto, i partiti e la rappresentanza, in sostanza, si sono progressivamente rivelati gli strumenti principali con cui la nuova destra sta svuotando definitivamente le “democrazie costituzionali”, e questo in primo luogo perché la società non si auto organizza per mezzo della politica e si considera come una “società di mercato”, e non solo a causa dell’immaginario politico liberale.

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Nel libro scrivi che il voto e il parlamentarismo sono importanti ma la democrazia non puo’ essere limitata a questo.

 Si, anche questo è prima di tutto il portato dell’immaginario liberale che è, in poche parole, una visione ristretta e problematica della democrazia di cui dovremmo liberarci, per poter arrivare a ripensare una nuova democrazia capace di limitare il più possibile il rischio sempre possibile di suicidio democratico. È il portato di una concezione contemporanea, ma la sua radice è moderna. La mia tesi di fondo è che, nel tempo, sin dalla sua nascita con la Polis di Atene, la democrazia è prima di tutto il frutto di “sovranità democratica”. Ossia un modo specifico di vivere e organizzare ciò che nella modernità è stata chiamata “sovranità popolare”.

Cosa intendi esattamente per “sovranità democratica”?

L’autogoverno del popolo e la pratica specifica che cerca di realizzarlo. Per dirla con Castoriadis, un filosofo a cui sono particolarmente legato, il cuore di un regime che fa del potere collettivo qualcosa di accessibile e partecipabile da parte di tutti. O, per dirla con Aldo Capitini, l’esercizio condiviso del “Potere di tutti”, ovvero, in particolare, l’eguale condivisione del potere sociale di chi partecipa alla comunità politica. Nella nostra storia questa pratica è emersa innumerevoli volte. Ma solo in un paio di occasioni è riuscita a riorganizzare la società nel suo complesso, con la Polis d’Atene e la Rivoluzione francese. Quando nascono dei movimenti che vogliono trasformare l’intera società in modo democratico, in genere, la vediamo prendere forma con una certa chiarezza. L’ultima volta, di recente, l’abbiamo vista svilupparsi in Cile, quando un fortissimo movimento popolare neocostituente voleva trasformare la società a partire dal cambiamento della Costituzione, un testo di matrice autoritaria la cui impronta è stata forgiata direttamente dal dittatore Augusto Pinochet. Spesso, come in quest’ultimo caso, la sovranità democratica è l’espressione di un tentativo nobile di ricreare la società in senso democratico, ma non riesce veramente ad affermarsi, pur incidendo sul corso della Storia.

Parlando di democrazia e potere distingui tra “potere con”, “potere su”, potere “dì”. In che modo questo che suona come uno scioglilingua può aiutarci a capire quello che succede nelle nostre società?

Anche se non se ne parla spesso, ogni società ha un proprio modo di intendere il potere collettivo e di organizzarlo normativamente. La distinzione tra questi tre tipi di potere, frutto di una certa analisi e tendenza che viene dalle scienze politiche contemporanee, di cui si dotano anche altre discipline come la filosofia politica, è cruciale se vogliamo capire come la nostra società ha organizzato questo potere in modo da agevolare l’emergere e l’affermarsi dei movimenti neoautoritari. Una certa concezione del “potere su” si è radicata nelle nostre istituzioni, nel nostro immaginario collettivo, e quindi negli usi e nei costumi e nella mentalità diffusa, producendo una naturalizzazione di un potere che si confonde con il dominio e, in ultima istanza, lo legittima. Senza questa legittimazione sarebbe impensabile il nascere, il crescere e l’affermarsi delle nuove destre antidemocratiche. In questo caso la responsabilità dell’immaginario politico liberale, scegliendo di accettare l’immaginario capitalista e l’inevitabilità della guerra come strumento legittimo e utile per trattare i rapporti di forza, si è reso pienamente responsabile della sua stessa crisi. Come già successo all’epoca dei movimenti totalitari.

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Analizzi anche la “santificazione” della “trama invisibile dell’universo di senso capitalista”. Il capitalismo è una delle cause di questa degenerazione? Perché?

Si, assolutamente.  È una delle due cause principali, insieme al militarismo. Per questo, nella nostra società, abbiamo bisogno di recuperare tutte le tendenze che mettono seriamente in discussione l’immaginario capitalista, mettendo in piedi nuove organizzazioni sociali, nuovi modi di vivere, nuove prospettive e valori da condividere, che ci consentano di riattivare politica, democrazia, i beni comuni e una cultura che valorizza quanto è pubblico. Attraverso un nuovo progetto collettivo orientato a riorganizzare la società secondo altri principi, norme, leggi e valori. E, soprattutto, un nuovo modo di concepire e organizzare l’economia. Cosa tutt’altro che facile, ma necessaria. Lo dico con una frase ad effetto: bisogna liberare l’economia dal capitalismo. La nostra società si autorappresenta come “società di mercato” ma, in realtà, sui grandi numeri e a livello macro, il capitalismo non è né frutto né espressione del mercato; che, tra l’altro, è un’istituzione umana che precede il capitalismo. La stessa cosa possiamo dirla sul piano monetario. L’economia finanziario-monetarista, prodotto dell’economia capitalista, non è un’economia della moneta, ma della speculazione monetaria. La moneta precede l’economia capitalista. Ciò significa che è bene ripensare l’economia e l’uso della moneta, radicandolo di nuovo sul piano di una produzione ecologicamente, umanamente e politicamente sostenibile. Perché? Perché oggi sono legate a doppio vincolo a principi e valori che portano alla disumanizzazione, prima ancora che alla depoliticizzazione della società. Inoltre, come da più parti si è scritto e affermato, il capitalismo è contrario alla democrazia. Solo che questa affermazione non è valida solo oggi, ma almeno da quando è nato il capitalismo industriale e il suo immaginario. Sono stati i movimenti sociali per un’altra società che, nel tempo e quando sono nati, hanno imposto una democratizzazione della società e che hanno permesso che si vivesse meglio, cercando di seguire, per quanto possibile, principi e diritti democratici. Nonostante il capitalismo.

 Secondo te che ruolo ha ed ha avuto l’informazione?

L’informazione intesa come “opinione pubblica organizzata” ha avuto e continua ad avere, purtroppo, un ruolo molto importante. Anche se ne parlo in diverse occasioni, su questo non mi soffermo abbastanza nel mio libro, perché assumo implicitamente che l’immaginario sociale e quello politico sono altamente attraversati da questo tipo di opinione pubblica. Ma dovrebbe essere evidente a molti, soprattutto a chi fa il mestiere del giornalista, quanto la proprietà pesi sugli strumenti dell’informazione mediatica, e come quest’ultima crei immaginario condiviso. Anche se alcune volte è fittizio, ovvero puramente immaginativo (o, per dirlo più chiaramente, falso), i mass media di qualsiasi tipo hanno rafforzato la naturalizzazione dell’immaginario capitalista e della concezione del potere che ho ricordato sopra, anche perché in linea con la filosofia di chi possiede la proprietà dei mezzi di informazione. Per esempio, la nascita e il diffondersi degli influencer e degli opinionisti sono il prodotto diretto di quanto il mondo massmediatico sia orientato a modificare l’immaginario sociale, e a farlo spesso seguendo la logica dominante. La Ferragni, Kim Kardashian oppure Cristiano Ronaldo, da un lato, così come Vittorio Sgarbi, Massimo Cacciari o Thomas Friedman, dall’altro, sono dei chiari esempi di come il potere mediatico sia ormai chiaramente rivolto alla costruzione di “narrazioni” in grado di orientare l’opinione pubblica. Perciò il termine “informazione” è piuttosto problematico, se ci riferiamo al lavoro che svolgono i mass media, e non ci permette di cogliere il semplice fatto che molti editori sono facoltosi imprenditori che vogliono fare pressioni sulla sfera politica anche modificando l’orientamento culturale più generale. Berlusconi è stato probabilmente l’esempio più emblematico in questo senso. Piuttosto che informare o rendere conto di quanto succede nel mondo si pensa a come si può incidere a livello del senso comune. Per questo “la notizia” assume più chiaramente che mai una rilevanza etico-politica per chi fa il mestiere del giornalista, perché in questo nuovo orientamento generale non si può non pensare a come essa potrebbe influire anche sull’immaginario sociale e politico.

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Nel libro scrivi di rifiuti, di spazzatura ma anche di un’umanità “che diviene rifiuti di sé stessa”. Che ruolo hanno i rifiuti nel capitalismo e nel suo immaginario? E che ruolo hanno e potrebbero avere i concetti che sono alla base dell’economia circolare, che prova a ridefinire l’idea di “rifiuto”?

 Lo storico Marco Armiero ha chiarito recentemente come l’economia capitalista è “un’economia del rifiuto”, e perciò ribattezza la nostra epoca come il “wasteocene”, perché centrata necessariamente sulla produzione di rifiuti e sprechi di tutti tipi che hanno riempito l’ecosistema e la nostra casa comune, la Terra. Oltre ad essere d’accordo, penso che ci sia qualcosa di ulteriore da evidenziare, che ha una valenza politica fondamentale. Il capitalismo porta a rendere l’umanità un rifiuto, perché non solo si basa su una logica in cui si valorizza lo scambio mercantile di oggetti piuttosto che le relazioni umane e politiche, ma perché, affinché si possa sviluppare, l’altro da sé deve scomparire o diventare uno strumento da usare per soddisfare i propri desideri e bisogni, e non proprio un fine in sé (con buona pace di Kant). In altre parole, la privatizzazione dell’esistenza è un obiettivo centrale affinché cresca questo tipo di economia, portando alla chiusura affettivo-cognitiva milioni di persone e a una diffusa socialità tossica. Faccio un “esempio pop”. Con l’invenzione del cellulare e delle sue molteplici evoluzioni, l’immaginario capitalista sta portando milioni di persone a “occuparsi dei fatti propri” continuamente, anche quando attraversano contesti e spazi comuni e condivisi. Non a caso nascono pratiche “compensatorie”, soprattutto nelle nuove generazioni, per recuperare quella socialità che tendenzialmente viene mortificata quando non passa per le forche caudine del principio di utilità e della privatizzazione della vita portate avanti da questo immaginario E quando è sacrificata all’interesse primario di rapportarsi con il proprio immaginario “privato” attraverso il cellulare. Alcuni giovani hanno cominciato a ritagliarsi degli spazi “cellulari free” per poter incontrare nuovamente il prossimo e sviluppare la propria, vitale, socialità. Oppure sono nati gruppi di lettura condivisa, dove si socializza l’immaginario individuale a partire dal racconto di quello che si sta leggendo.

Al contrario di questa tendenza dominante alla privatizzazione dell’esistenza, se, come facciamo qui su “Economiacircolare.com”, intendiamo il rifiuto, il suo ciclo e l’economia circolare come strumenti di trasformazione del paradigma economico e umano senza dubbio aiutano a spostare l’immaginario dominante su un piano decisamente nuovo, contrario alla crescita per la crescita, al ciclo infinito e infernale che si è creato tra produzione e consumo, e a rimettere al centro la relazione che abbiamo con l’ecosistema terrestre e con noi stessi. Così come pure la logica circolare come base per rendere attiva l’economia. Perché, per come la vedo io, l’economia circolare aiuta a ripensare anche una nuova “ecologia umana” che rispetti la specificità dell’ecosistema umano quando si vuole politico e democratico. Perché la circolarità gioca un ruolo centrale anche in democrazia. Non a caso, quando Aristotele parlava della democrazia d’Atene sottolineava il fatto che era un regime dove esisteva la possibilità di fare in modo che il governato potesse governare, e il governante tornare a vivere come governato. Quest’idea di circolarità tra chi governa e chi è governato dovrebbe tornare ad essere effettiva e centrale. E, invece, vediamo dinastie politiche, anche di tipo familiare, che intossicano il potere collettivo, privatizzandolo con estrema facilità.

Nel tuo discorso emergono le relazioni tra consumismo sfrenato, concorrenza, capitalismo e militarismo. L’aggressione Russa e la guerra in Ucraina, l’occupazione di Gaza e il genocidio dei gazawi voluto dal governo di Israele in risposta all’atto terroristico del 7 ottobre sono un caso o sono una parte funzionale del sistema?

Sono tutte realtà che hanno una loro specificità, ovviamente. Ma c’è anche un filo rosso, o meglio nerissimo, che le lega. Per questo parlo di Giano Bifronte quando cerco di spiegare le radici della crisi democratica attuale. Da un lato il capitalismo e dall’altro il militarismo, non possono fare a meno l’uno dell’altro. E questo non è solo il prodotto di come si sono sviluppati entrambi negli ultimi decenni, ma anche qualcosa che è intimamente legato all’emergere del capitalismo industriale. Solo che, dopo il 2000, la tendenza che porta il capitalismo e il militarismo ad un intreccio mortifero generalizzato è ormai davanti gli occhi di tutti. O, almeno, di tutti quelli bene informati sull’andamento del mercato, della guerra e della politica mondiale. Il genocidio mostruoso in atto a Gaza di cui siamo i testimoni, per la maggior parte impotenti anche se facciamo manifestazioni, boicottaggi e azioni di pressioni sui politici, è solo l’esempio più evidente di come la società consumista di massa non sia attrezzata per fare fronte a un crimine contro l’umanità come lo sterminio sistematico di un’intera popolazione. Anche in questo caso si può vedere come l’umanità venga calpestata così sfacciatamente e senza il minimo scrupolo perché l’immaginario dominante la considera come un ostacolo se impedisce a chi detiene il dominio di aumentarlo; o un rifiuto di cui sbarazzarci se non genera valore economico. Insomma quando il rispetto dell’umanità rischia di bloccare o limitare la logica capitalista e militarista. Di questo si era accorto a suo modo Vittorio Arrigoni, quando è andato a Gaza per raccontare la violenza estrema che subiva la popolazione quotidianamente, e perciò ha coniato l’ormai famoso slogan “restiamo umani”. E stiamo parlando di decenni fa ormai. Se ci fosse stata una società democratica dove la politica avesse ricoperto un ruolo centrale negli usi e nei costumi generali, la reazione sarebbe stata molto diversa, sia in termini di qualità che di velocità di risposta. Invece, ad oggi e dopo oltre un anno dall’inizio della “soluzione finale” per i Palestinesi, davanti alla strategia del governo sionista israeliano di lasciare morire di fame la popolazione di quel lager a cielo aperto che ormai è Gaza, l’Italia non ha ancora nemmeno riconosciuto lo Stato palestinese né fermato il commercio di armi con Israele, come invece almeno hanno fatto (tardivamente) alcuni governi europei. Perché siamo preda di uno dei governi che maggiormente sostiene lo svuotamento democratico in Europa, con l’obiettivo e la strategia di trasformare il Paese in uno stato autoritario mascherato da democrazia. Basti pensare ai decreti sicurezza e alla recente mortificazione dell’istituzione referendaria.

Dopo l’analisi, il libro ci consegna anche delle possibili vie d’uscita. Accenni alle “controspinte creative” presenti nelle nostre società, ad un “potenziale rivoluzionario a disposizione di chi volesse ribellarsi alla nuova servitù volontaria”. Raccontaci.

Si, esatto. Però se dovessi raccontarlo troppo nessuno comprerebbe il libro per leggerlo… (sorride). Il che sarebbe un peccato, anche se non per ragioni economiche, visto che non si pubblicano libri di questo tipo per fare soldi, ma per generare dibattito pubblico. Quindi posso solo accennare che la mia riflessione individua tre possibili tendenze centrali in grado di riattivare il legame tra democrazia e politica e portarci oltre la loro simultanea scomparsa, oltre l’affermazione del dominio istituito e la servitù sociale generati dall’intreccio tra immaginario capitalista e immaginario militarista. Per farlo c’è bisogno di agire sul piano culturale, avviando una vera e propria rivoluzione della cultura ampiamente intesa, per rimettere al centro ciò che è pubblico; sul piano politico, estendendo e rafforzando le pratiche della politica, intesa come attività collettiva fondata su un potere nonviolento e sulla creazione di quanto è comune; e sul piano dell’immaginario politico, mettendo al centro l’idea di una nuova democrazia da sostituire a quella liberale. La democrazia sociale. Per uscire dalla crisi della democrazia liberale con una forma più importante e effettiva di democrazia, e non con la soppressione di quel che resta di democratico nelle nostre società, come invece sta avvenendo.

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