Il problema in Italia non è tanto una carenza numerica di impianti di primo trattamento, quanto una carenza di impianti altamente specializzati e una distribuzione geografica squilibrata. Le cause principali sono:
- Complessità e lentezza degli iter autorizzativi: ottenere i permessi per costruire un nuovo impianto di trattamento rifiuti è un processo che può durare anni, spesso rallentato da burocrazia e dalla sindrome “NIMBY” (Not In My Back Yard), ovvero l’opposizione delle comunità locali.
- Sostenibilità economica legata ai volumi: la redditività di un impianto, specialmente se tecnologicamente avanzato, dipende dalla garanzia di ricevere flussi costanti e sufficienti di rifiuti da trattare. I bassi tassi di raccolta in molte aree, soprattutto nel Centro-Sud, rendono rischioso un investimento di milioni di euro.
- Carenza di impianti per il recupero spinto: in Italia mancano quasi del tutto gli impianti di raffinazione metallurgica finale (idrometallurgica o pirometallurgica) per il recupero delle Materie Prime Critiche (CRM) dalle schede elettroniche o dalle polveri di triturazione. Di conseguenza, queste frazioni ad alto valore vengono oggi quasi interamente esportate verso impianti specializzati nel Nord Europa, con una perdita di valore per il sistema-Paese.
- Mancanza di impianti per flussi specifici: c’è una carenza di impianti dedicati al trattamento di flussi emergenti, come i pannelli fotovoltaici a fine vita e le batterie dei veicoli elettrici, e per il riciclo di alta qualità delle plastiche contenenti additivi come i ritardanti di fiamma (BFR), che richiedono tecnologie di decontaminazione avanzate.

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