Andare ad Odessa e Mykolaiv, città colpite da bombardamenti quotidiani e sotto il mirino degli interessi strategici militari russi, non è solo una dimostrazione di sostegno alla popolazione ucraina, ma uno dei modi per affermare che potrebbero esistere delle alternative di pace alla guerra. Urgenti e necessarie per mettere in discussione la logica dominante, che vorrebbe risolvere il conflitto attraverso la vittoria armata. Sempre, e da sempre, illusione di ogni guerra.
Un’azione diretta e nonviolenta, quella delle 176 associazioni della società civile italiana, degli 8 pulmini carichi di viveri e medicine, e di una quarantina di volontari, partiti dall’Italia il 25 giugno sotto il nome di #stopthewarnow! e tornati indietro i primi di luglio. Non un semplice aiuto umanitario, quindi, ma un gruppo plurale con un messaggio preciso, politico: per far finire la guerra bisogna che ognuno di noi si metta in gioco in prima persona, e non si può accettare che la guerra diventi “normale”, per nessuno.
Già ad aprile una prima “Carovana per la pace” di questo movimento composito aveva portato a Leopoli ben 32 tonnellate di aiuti umanitari per i civili, e aveva evacuato circa 300 persone. Questa volta anche Economiacircolare.com ha deciso di prendervi parte, per raccontare in prima persona in cosa consiste un’azione diretta nonviolenta, coerente con un principio di fondo: “se vuoi la pace, prepara la pace”.
Volontari in viaggio
Quando i diversi pulmini partono dalle diverse città di provenienza (Bologna, Milano, Roma, etc.), nessuno avrebbe mai immaginato che il percorso per arrivare ad Odessa si sarebbe dipanato tra montagne boscose ad oltre mille metri d’altezza, in grandi distese di campi arati, per lo più di grano e girasoli, avanzando su strisce di terra in mezzo alle paludi della foce del grande Danubio, superato all’alba su chiatte adibite al passaggio di merci e persone. Nessuno può prevedere gli incontri fortuiti con doppi arcobaleni all’estremità di nubi nere cariche di pioggia, con orsi e volpi fermi al bordo delle strade, o con le tantissime cicogne che campeggiavano sui pali della luce per le strade rumene tra Timisoara, importante città all’estremo occidente, e Galati, cittadina al confine con l’Ucraina.
I volontari sapevano bene, però, che si sarebbero dovuti dare il cambio spesso, per non arrivare ad Odessa già stanchi. È così che ogni pulmino decide di procedere in autonomia, con i propri tempi ma con degli appuntamenti da rispettare. Ma soprattutto con la sicurezza di restare tutti connessi grazie ad una chat interna al gruppo #stopthewarnow!, con cui si condividono problemi e pareri durante il lungo viaggio. Le pause di questo importante tragitto servono non solo per i cambi alla guida o ad altri bisogni elementari (tra cui l’acquisto di sim ucraine), ma anche per fare in modo che le persone si conoscano, perché molte di loro si incontrano per la prima volta.
Una cosa appare certa: il gruppo dei pacifisti (attivisti, giornalisti e religiosi), non sa di essere così composito e trasversale a livello di genere, età, provenienza religiosa, politica e culturale. Anche se il cuore dell’organizzazione fa capo ad alcune organizzazioni cattoliche (in primis l’Associazione Papa Giovanni XXIII), e vedrà anche la presenza di Monsignor Francesco Savino, vicepresidente della CEI che ci aspetta ad Odessa, la Carovana è espressione plurale della società italiana. Matteo Pisani, già attivo nella prima Carovana di aprile, intervistato da uno dei giornalisti presenti nel gruppo, sintetizza un po’ lo spirito di chi viaggia: “Sentivo il bisogno di essere parte attiva e di dire no in prima persona a questa guerra. Dobbiamo umanizzare il conflitto e tornare alle persone”.
Nei 340 chilometri che separano Galati da Odessa, il viaggio è quello che tutti ci aspettavamo dall’inizio, soprattutto dopo la frontiera: le strade sono costellate da check point e militari. Anche se nessuno sa spiegarsi le chilometriche file di camion fermi sul bordo della strada in entrata e in uscita dall’Ucraina, oppure perché alla frontiera hanno rimandato indietro uno dei nostri pulmini, reo di avere solo delle fotocopie dell’assicurazione, e non l’originale. Giulio, un signore magro e canuto, del movimento dei focolari, è costretto a tornare in Italia e a far proseguire il figlio, anche lui presente. Un ragazzo corpulento forse appena trentenne, che indossa la maglietta ufficiale della Carovana, bianca con la scritta rossa #stopthewarnow!, e che, da lì a poco, mi confessa di sentirsi parzialmente sollevato nel vedere tornare indietro il padre. Entrare in un Paese in guerra è sempre e comunque un rischio importante.
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Quando i nodi vengono al pettine
L’arrivo ad Odessa è costellato di check point, militari, sacchi di sabbia alle finestre di alcuni palazzi o usati per erigere barricate a lato di importanti edifici pubblici, postazioni di difesa costruite vicino a posti strategici, nel caso di un’eventuale invasione russa dal mare, molti negozi chiusi, alcune finestre tappate con il legno. Ci sono anche alcune zone off limits dove non è possibile passare né fare foto. Nonostante questo, la città è viva e molte persone si riversano per strada in quella che sembra a tutti gli effetti una “strana normalità”. A metà strada tra la vita di tutti i giorni e la normalizzazione della guerra. Nessuno scappa né si rifugia nei bunker quando le sirene annunciano il pericolo imminente dei missili russi. Probabilmente gli allarmi sono così frequenti e i danni effettivi in proporzione agli allarmi così relativi e imprevedibili, che nessuno li considera. Nei giorni che passiamo in città se ne possono contare almeno 4 o 5 ogni giorno.
Il gruppo dei volontari si riversa nella chiesa cattolica in cui ci sarà la conferenza stampa della Carovana. Don Tonio Dell’Olio, presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi, una delle guide spirituali di questa missione, tiene il filo degli interventi delle autorità religiose presenti, oltre a Monsignor Savino: i vescovi della chiesa greco-latina, cattolica e greco-ortodossa e un prete della chiesa greco-cattolica. Prende parola anche una volontaria della Caritas ucraina. Il tono e i contenuti della conferenza stampa cambiano radicalmente quando il prete greco-cattolico racconta di aver subito un bombardamento che ha devastato la sua casa e quasi ucciso la sua famiglia e, per questo, si riferisce esplicitamente all’importanza che l’Ucraina vinca la guerra, grazie anche al necessario sostegno militare da parte dei Paesi occidentali. Subito dopo, infatti, un prete cattolico polacco, sino a quel momento fedele traduttore italiano-ucraino, prende parola per condannare il Papa e l’Occidente, perché secondo lui sono silenti davanti questa situazione. Un intervento scomposto nei toni e nei modi che sorprende molti dei presenti. Non un signore che si trova dietro di me, però, che trattiene una risata quando inizia la sua condanna: è Adriano Sofri. Mi chiedo cosa ci faccia, e scopro che è là in veste di giornalista.
Quando si apre la possibilità di fare domande da parte dei giornalisti porto al pettine il problema che si è appena materializzato, e che viene da lontano: “Davanti alle contraddizioni delle diverse posizioni religiose qui presenti, e pur riconoscendo il coraggio ucraino di difendersi da un nemico molto più forte e preparato militarmente, vi chiedo se non sia il caso di mettere una parola definitiva, e chiara, sulla ‘Teoria della guerra giusta’. Non è il caso di dichiarare, una volta e per sempre, che è un errore umano, politico, etico e morale, sostenerla?”. Rispondono solo Savino e Dell’Olio. Il primo per affermare che la strada è la nonviolenza. Il secondo per precisare che le posizioni della Chiesa sono diverse, anche se la sua posizione è quella nonviolenta. Successivamente un giornalista della Carovana pubblicherà un articolo dove Savino afferma che la difesa armata può essere legittima, anche se la strada da seguire dovrebbe essere quella nonviolenta. Sofri, a margine della conferenza, mi rimprovera per il mio intervento, sostenendo di essere per la “legittima difesa”. Non mi sembra ci sia qualcuno che riesca ad immaginare che una difesa è legittima proprio in quanto nonviolenta.
Un altro nodo viene al pettine nel pomeriggio di quello stesso giorno, quando i volontari si dividono in diversi gruppi per portare la nostra solidarietà ai rifugiati interni e ad altri gruppi ucraini. Un gruppo incontra degli ucraini che costruiscono reti mimetiche per i militari (per coprire carri armati, autoblindo, cannoni, check point e sacchi di sabbia). Ma non per l’esercito, bensì per le milizie autorganizzate che si sono formate spontaneamente, ossia la “difesa territoriale” che presidia le città e i check point tra una città e l’altra. Sostenuta a livello popolare da associazioni di volontariato che le portano scarpe, cibo e tutto il necessario, la difesa territoriale si sostiene anche perché in città ci sono centri che vendono armi e molti sono i civili che hanno deciso armarsi. Che ne sarà di loro una volta che finirà la guerra? I pacifisti ucraini si contano sulla punta delle dita e vivono a Kiev, dove vengono bullizzati e considerati meno di niente. A differenza dei molti disertori russi, in Ucraina gli obiettori di coscienza sono una rarità.
Con l’altra parte dei pacifisti italiani andiamo a conoscere alcune donne ucraine fuggite da alcuni territori occupati da tempo dai russi nei pressi di Kherson. Le incontriamo in una Chiesa Pentecostale della città, che riceve aiuti direttamente dagli Usa. Sono donne che, se non ci dicessero la nazionalità, si potrebbero confondere tranquillamente con delle russe. I loro volti, i loro corpi, il loro linguaggio, non differisce poi così tanto. A loro vengono fatte moltissime domande. Ci raccontano di violenze di tutti i tipi da parte dei militari russi, del fatto che quando stavano in città erano costrette a prendere il passaporto russo se volevano comprare delle carte SIM per comunicare con il telefono, che non riescono più a parlare con i loro amici o parenti di origine russa, perché non credono che esista la guerra, dato che credono molto a quello che viene detto dalla tv russa e non alle loro foto e ai loro video.
Ylenia, che viene dal Donbass, ci mostra dal suo telefonino una foto scattata due ore prima, dove si vede la sua casa distrutta da un missile. Un’altra donna con una specie di smorfia sul volto e un occhio quasi chiuso, ci dice che la cosa più dura, dopo aver perso tutto (il lavoro, la casa, i parenti, gli amici) è che non si sa cosa fare. La maggior parte di loro crede che l’unica soluzione a questa guerra sia la vittoria militare, e tutte sono consapevoli che sarà impossibile tornare alla vita che facevano prima che iniziasse, ossia prima del 2014. Proprio da quell’anno esiste ad Odessa questo centro per i rifugiati interni, che oggi ospita circa di 200 famiglie. Domando: “Conoscete persone che sono dalla parte degli occupanti? Che hanno familiarizzato con i russi?”. “Le conosciamo bene, e sono molte”, mi rispondono molte di loro guardandomi preoccupate e addolorate. La mia domanda genera una specie di dibattito tra loro. Alla fine è una signora minuta a cercare di spiegare meglio: “Le persone hanno bisogno di lavorare, e anche se vengono pagate meno rispetto a prima dell’occupazione, hanno bisogno di avere un salario”. Prima il salario era il corrispettivo di 300-400 euro. Sotto l’occupazione il salario è di circa 90 euro in moneta locale. Un altro effetto collaterale di ogni guerra. “Questo è sufficiente per farli collaborare?”, insisto. Il dibattito tra loro riprende in modo ancora più acceso. La spiegazione che viene data è che, in fin dei conti, lo fanno per disperazione.
Mentre ci allontaniamo dalla chiesa, sembra che un altro nodo è ormai venuto al pettine: c’è chi collabora con russi. Come mai? Come in ogni guerra e occupazione, la disobbedienza e la collaborazione sono due aspetti centrali per capirne gli esiti. Non sviluppare nessuna strategia di disobbedienza civile davanti ad un’occupazione militare sembra essere una debolezza che apre la strada a chi pensa che l’unica risposta possibile sia quella armata.
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Mykolaiv e Odessa
Il giorno dopo una parte della Carovana va a dare il grosso degli aiuti portati dall’Italia a Mykolaiv. Dai loro racconti emerge una città simile ad Odessa, ma ancora più piegata alla guerra. Ancora più trincee, gomme ai lati delle strade, e tutto il resto. Una città pronta all’assedio dove le bombe cadono ancora più frequentemente che ad Odessa. Non a caso, perché il fronte è a 15 chilometri dal centro. La notte prima del nostro arrivo sono morte tre persone e ci sono stati sei feriti. Manca l’acqua potabile e la maggior parte delle persone che restano in città hanno bisogno di tutto. La città aveva 450mila persone, prima della guerra. Oggi se ne contano 250mila.
Mentre i volontari scaricano il cibo e l’acqua si forma una lunga colonna di persone a cui vengono dati i sacchetti preparati la sera prima ad Odessa. Il consigliere comunale di Mykolaiv, Maxim Kovalenko, dichiara ad uno dei nostri giornalisti che in genere arrivano molti aiuti dall’estero per la città, ma che nessuno aveva mai deciso di venire a consegnare gli aiuti di persona. Ad un certo punto suona una sirena di allarme e, a differenza di quello che succede ad Odessa, tutto il gruppo viene invitato caldamente a scendere sotto il primo bunker là vicino. L’allarme durerà qualche ora. Quando il gruppo tornerà a Odessa, verso sera, Carla, una delle volontarie italiane parte dell’Operazione colomba dell’Associazione Giovanni XXIII, che vive ad Odessa da diverso tempo e che resterà là ancora per qualche settimana, mi confessa che, a parte l’esperienza nel bunker, non ha notato una grande differenza tra Mykolaiv ed Odessa.
È Sara, una giovane trentenne bolognese della stessa organizzazione di Carla, a portare in giro per la “perla del Mar Nero” quello stesso giorno l’altra parte dei volontari, compreso il sottoscritto. Ogni giorno arrivano in città circa 600 rifugiati interni. Per questo visitiamo uno dei tanti World Central Kitchen”che popolano la città, per soddisfare i bisogni di base (cibo, vestiario, medicine, assistenza medica) di una popolazione quasi completamente disoccupata (90% della popolazione). Sebbene l’organizzazione umanitaria sia statunitense, i volontari che ci lavorano, non a caso, sono ucraini. La maggior parte dei disoccupati ha trovato un lavoro volontario di questo tipo. Si sentono utili e ridanno un senso alla loro vita. Un giovane che conosce Sara, ha deciso di evacuare la gente sotto i bombardamenti ogni settimana: fa avanti e indietro tutte le settimane da Kerson, con un pulmino di 9 posti. “Solo che – confessa amaramente Sara – ad ogni check point russo che incontri, per uscire dalla città devi pagare. Le cifre si aggirano sui 400 dollari. Ma se la città è completamente occupata non esci più. Devi andartene per campi”.
Visitando il centro, mentre si stanno dando panini, vestiti e medicine, grazie ad un numero che le persone prendono il giorno prima nella stessa struttura, chiedo a Sara se la propaganda di guerra è molto forte nel Paese, anche perché si vedono diversi cartelloni per la città che hanno tutta l’aria di essere della propaganda militare. Uno di questi è il volto di una bambina con le guance colorate con i colori della bandiera ucraina. Lei annuisce, e aggiunge: “In tutte le città ucraine li puoi trovare. Anche a Leopoli e Kiev. Cartelloni che dicono: ‘Sosteniamo l’esercito’ o ‘Grazie mille per le armi’. All’entrata di Odessa c’è un cartellone enorme dove c’è scritto: ‘Soldato russo pensa alla tua famiglia, torna a casa con la coscienza pulita’. Tra Odessa e Mykolaiv ci sono carelloni dove c’è scritto: ‘Morte ai russi!’ oppure ‘Putin coglione!’, o ancora ‘Soldati russi andate affanculo!’. Sono cartelli ufficiali, stampati e affissi dal governo. Appena si entra a Mykolaiv, per esempio, ce n’è uno che dice chiaramente: ‘Mykolaiv è ucraina’ “. A questo proposito, qualcuno degli italiani là presenti ha visitato anche Kiev mesi prima, e ricorda di aver visto per strada grandi immagini di Putin dove le persone erano soliti fermarsi per giocare a freccette con la sua faccia.
In città si sta festeggiando il “giorno della costituzione” ucraina, perciò, dopo la visita al World Central Kitchen, veniamo invitati ad una di queste celebrazioni. In un parco centrale della città una banda ufficiale suona delle canzoni di Morricone, mentre, poco distante da là, in un cortile interno non bene identificato, si svolge una paradossale sfilata di moda di adolescenti e bambine, al ritmo di canzoni nazionaliste. Si canta e si balla, tanto. I genitori dei bambini si accalcano per fotografarli, un po’ come accadrebbe anche in Italia. Ad un certo punto veniamo invitati a fare altrettanto, e saliamo sul palco con animatori, clown e bambini. L’animatrice principale ci mostra come muoverci, a ritmo. La sensazione di ballarci su è davvero strana. Soprattutto farlo tra una sirena d’allarme e l’altra. Fare foto, ballare e cantare con loro, però, non è secondario, ma proprio una delle espressioni più dirette e profonde della nostra vicinanza. Anche per questo siamo là.
La mattina dopo la Carovana si ritrova tutta unita alla volta di Chisinau, brutta capitale della Moldavia, dove fa visita ad alcune autorità religiose per poi tornare in Italia. Ognuno per conto proprio, come all’andata. Lasciamo un Paese martoriato e sospeso. Ad Odessa, quella mattina, i missili uccidono altre 18 persone. La città, in lontananza, sembra ormai un’ombra scura, più che una perla. Una possibile tappa di un viaggio ancora incerto, dove Nessuno sta affrontando i Ciclopi della guerra. Accecati dall’odio e dall’idiozia. Una fredda furia che distrugge tutto, come uno schiacciasassi.
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