Lo sviluppo della CCS, vale a dire la cattura e lo stoccaggio delle emissioni di CO₂, è una delle soluzioni previste – anche dalle Nazioni Unite e dall’Agenzia Internazionale dell’Energia – per limitare il riscaldamento globale. Seppur le ultime indicazioni di Copernicus, il programma di osservazione della Terra dell’Unione europea, ci indicano che nell’ultimo anno e mezzo abbiamo stabilimente sforato l’aumento di 1,5 gradi centigradi rispetto al periodo industriale (e di questo passo potremmo raggiungere i 2 gradi già al 2050), affidarsi alla tecnologia è ancora il modello preferito da governi e imprese. Ma siamo sicuri che, dati alla mano, sia una strada che ci condurrà alla salvezza?
È quanto ha provato a rilevare un recente studio scientifico pubblicato su Nature, intitolato proprio The feasibility of reaching gigatonne scale CO2 storage by mid-century. Affinché gli impianti CCS possano dare un contributo sostanziale alla mitigazione del collasso climatico, le stime più prudenti indicano che una capacità di sequestro a livello mondiale tra 1 e 30 giga tonnellate di CO₂ all’anno entro il 2050. Analizzando la situazione attuale, le tecnologie e soprattutto la disponibilità di siti per lo stoccaggio, i ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra e Ingegneria dell’Imperial College London affermano che nella migliore delle ipotesi a livello globale si riuscirebbe a sequestrare 16 gigatonnellate l’anno ma realisticamente il limite sarà di 5 o 6 gigatonnellate. Vale a dire un terzo delle previsioni più ottimistiche. Non proprio la prospettiva migliore.
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Possiamo ancora permetterci l’ottimismo sulla CCS?
“Cinque gigatonnellate di carbonio che finiscono nel terreno rappresentano comunque un contributo importante alla mitigazione del cambiamento climatico”, ha detto Samuel Krevor, uno degli autori dello studio insieme a Yuting Zhang e Cristopher Jackson. “I nostri modelli – ha aggiunto – forniscono gli strumenti per aggiornare le proiezioni attuali con obiettivi realistici su come e dove dovrebbe essere sviluppato lo stoccaggio del carbonio nei prossimi decenni”.
L’ottimismo per il futuro di Krevor deve però fare i conti con la realtà di oggi, fatta di continui “eventi meteorologici estremi”. L’ultimo, di nuovo, in Emilia Romagna. E proprio in Italia la polemica è rivolta verso la premier Giorgia Meloni, che nei giorni scorsi all’assemblea di Confindustria ha guardato ancora alla crescita, inseguendo il mito del +1%, e ha contestato il Green Deal europeo, tacciandolo di essere “ideologico” e di volerlo cambiare a favore delle industrie, in maniera tale che la decarbonizzazione sia un affare e non intacchi i loro profitti.
Frasi contestate dalle associazioni ambientaliste – tra cui A Sud, che ricorda il dramma di Faenza, dove attualmente risultano mille sfollati e 165 famiglie evacuate – e anche dal giornalista ambientale Ferdinando Cotugno. Che su Instagram scrive una riflessione, partendo dal dramma degli allagamenti in mezza Emilia Romana, negli stessi luoghi già colpiti a maggio 2023.
”Abbiamo visto le temperature record del Mediterraneo ad agosto sapendo che incubavano tempeste nel futuro, ma anche l’autunno sembrava un futuro lontano – scrive – Poi è arrivato. Abbiamo visto la tempesta Boris fare danni in Polonia e dirigersi verso sud, ma anche quello sembrava un futuro lontano. Poi è arrivata. Avevamo visto la pioggia del 2023 in Romagna avere secondo la scienza un tempo di ritorno di duecento anni, e ora l’abbiamo vista tornare nel 2024, quando in un pianeta come quello in cui avevamo imparato a vivere e costruire quella quantità di pioggia sugli stessi fiumi sarebbe tornata suppergiù nel 2223. Ci saranno tante cose da dire, su questa ennesima tempesta, quando sarà passata e conteremo i danni, ma ogni volta che questi dicono non pensiamo al futuro, pensiamo invece al presente, stanno mettendo un intero paese in obsolescenza programmata, le sue industrie come i suoi territori”.
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Le altre false soluzioni per il clima
Che non sia più tempo di inseguire chimere, che tra l’altro hanno già decenni di risultati deludenti alle spalle, è una percezione diffusa non solo in Italia. Negli scorsi giorni ad esempio il prestigioso The Guardian ha pubblicato un’interessante riflessione di Georges Monbiot, uno dei più apprezzati columnist del giornale britannico.
Nell’attacco del pezzo Monbiot parla della perceptionware, cioè la strategia portata avanti da governi e aziende il cui scopo principale, scrive, “è quello di creare un’impressione di azione”. Illudere di essersi mossi anche se si è rimasti immobili, insomma. Se tale “impressione di azione” funzionerà mai su larga scala, beh, non conta davvero, non è questo il punto. “Se rassicura il pubblico e convince il governo a non regolamentare le industrie dannose, la missione è compiuta. Gestire le percezioni è un business costoso” spiega l’editorialista del Guardian.
L’esempio citato è proprio quello della tecnologia CCS. “Il precedente governo del Regno Unito – si legge – ha promesso 20 miliardi di sterline per “sviluppare” la cattura e lo stoccaggio del carbonio: una tecnologia che sta sviluppando da 50 anni. Sorprendentemente, il Labour (il partito laburista, nda), nonostante abbia tagliato tutto il resto, ha promesso nel suo manifesto di sostenere questo investimento”. Ma non è la sola falsa soluzione per il clima che viene elencata. Si parla anche dell’annoso tentativo di recuperare petrolio dalle alghe o dei carburanti sostenibili per l’aviazione. Guarda caso sono tentativi portati avanti dalle aziende fossili, in Italia principalmente da Eni, come abbiamo raccontato più volte. Ma non basta.
“Un articolo pubblicato su Science il mese scorso – si legge ancora – ha esaminato 1.500 politiche climatiche in tutto il mondo e ha scoperto che solo 63 hanno fornito benefici significativi. Questi includono le tasse sui carburanti, i prezzi del carbonio, i divieti sulle tecnologie dannose, i mandati di energie rinnovabili, i mandati di efficienza energetica, le forti normative edilizie e gli standard di prestazione industriale più elevati. Il documento dovrebbe essere un modello di azione. Ma proprio perché queste politiche generano un cambiamento reale, causano conflitti con interessi potenti”. In Gran Bretagna come in Italia e, più in generale, ovunque nel mondo. Perché gli unici interessi che dovrebbero prevalere sono quelli del pianeta.
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