L’economia circolare entra nel vocabolario dei grandi brand alla moda che, nel percorso della modernità, hanno spesso saputo interpretare il cambiamento sociale, definire gli stili di vita e diventare, nel bene e nel male, simboli del loro tempo. In particolare, tre aziende dall’alto valore simbolico, di settori economici diversi, recentemente, hanno inserito nei propri prodotti, nonché nelle campagne di comunicazione, degli elementi di circolarità. Nike, uno dei brand di calzature sportive più popolari a livello globale, ha lanciato il nuovo design della scarpa smontabile i cui pezzi possono essere sostituiti e riciclati. Ikea, la nota casa svedese di mobili e design per interni pubblicizza i circular hub, dei corner per promuovere il riuso dei propri prodotti. Apple, il colosso dell’hi-tech che ha contribuito a rivoluzionare il nostro rapporto con la tecnologia, ha pubblicato di recente i manuali per riparare fai da te i suoi device.
Abbiamo voluto provare a interrogarci, con l’aiuto di un intellettuale fuori dagli schemi come Massimo Canevacci, già docente di Antropologia culturale sia a La Sapienza di Roma che all’Università di São Paulo in Brasile, sul significato culturale di queste iniziative mosse da firme che fino a ieri ritenevamo modelli del consumismo, che oggi strizzano l’occhio al paradigma dell’economia circolare.
Canevacci, da sempre attento ai mutamenti nella società a confronto col sistema capitalista, non sembra lasciare molto spazio all’ottimismo. L’introduzione dei temi ecologisti di lotta agli sprechi e di valorizzazione del riuso nella narrativa dei brand non può considerarsi un elemento di particolare novità, nell’era digitale e dei social media, in cui tutto sembra rimescolarsi e perdere velocemente di senso. La dialettica moderna tra pubblico-privato, produzione-consumo, materiale-immateriale, natura-cultura, per il professore romano non può più aiutarci a interpretare il presente. Nell’era in cui le tecnologie sono sempre più determinanti, mentre l’uomo non è più al centro neanche dello studio antropologico, il paradigma circolare potrebbe essere presto reinventato e trasformato in qualcos’altro. Se la moda è morte, come sosteneva già Leopardi, non ci resta che prestare attenzione ai rapidi cambiamenti in corso e dare ascolto alle voci più visionarie e critiche che ci aiutano ad interpretarli.
Professore, cosa pensa dei tre esempi di circolarità promossi da Nike, Ikea e Apple, si tratta di un cambiamento culturale o è solo una trovata alla moda?
In primo luogo vorrei sottolineare l’importanza decisiva della moda, intesa in senso ampio, nell’anticipare comportamenti “circolari” che poi sono stati assunti senza limiti dalla comunicazione digitale. Infatti, magliette, jeans, giubbini, sono stati i primi prodotti ad avere su di essi la scritta della casa produttrice. In questo modo chi li comprava faceva pubblicità come un uomo-sandwich, e di questo non si è mai scandalizzato nessuno. Su La Repubblica dello scorso 28 giugno, Armani ricordava che la sua alleanza con Del Vecchio di Luxottica ha creato il primo paio di occhiali che pubblicizzava il suo brand. Insomma come in letteratura (penso a Umberto Eco), il consumatore da tempo è diventato un prosumer (in fabula), cioè che sta dentro il circuito, in un certo senso “circolare”, che trasforma lo stesso consumo in parte attiva della produzione. Questi due momenti erano visti come separati nell’era industriale, ma da quando si è affermato il post-industriale prima, e con l’irrompere dei social network e del digitale poi, questi due termini si sono intrecciati nelle loro immanenze.
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Questo vuol dire che non sono i brand ad alimentare il modello consumistico?
Le lamentele sul consumismo continuano oggi sempre monotone nel loro sciatto moralismo incapace di cogliere i mutamenti. La classica (moderna, industrialista) distinzione tra consumo e produzione attualmente non funziona più. Cioè il consumo è direttamente produttivo di valore (e di valori in senso di stile). Attaccare il solo consumismo senza capire questo nesso immanente è puro moralismo senza concetto. Gli esempi di cui parli, Nike, Ikea, Apple, vanno in questa direzione: ogni persona non è più “cliente” bensì un attore che adora essere coinvolto nel processo diciamo produttivo e riproduttivo. Nulla si butta ma tutto si ricicla. Questa tesi, se ha avuto il potere di inserire il processo ecologico dentro una attenzione a non sprecare le cose eccetera, nello stesso tempo o, meglio, in poco tempo è stata assorbita dalle capacità occhiute delle aziende più dinamiche a “sussumere”, come si diceva una volta, la circolarità in un nuovo stile di vita.
Ma quindi dobbiamo guardare a questi elementi di circolarità dei brand come a qualcosa di “utile” perché parla di nuovi stili di vita circolari “desiderabili” o è solo un’altra forma di “sussurrare” a vantaggio del profitto e della propria “identità”?
La moda in generale, che da tempo si è soggettivizzata nei brand, è molto più che utile… Anzi, mi correggo, non lo è mai stata…Moda, design, musica, architettura, social, cinema (inteso come Netflix) sono sempre più intrecciati e alcune di queste case di produzione sono consacrate come dei veri artisti. Al Moma di New York anni fa vidi una fila enorme composta da tipologie futuriste per così dire, senza una etnicità precisa o sessualità binaria. Con tre ore di fila si poteva entrare nel cuore del Moma in un silenzio sacrale, oscuro, misterico, tra opere che non si potevano più classificare secondo le classiche tipologie: era la mostra dello stilista Alexander McQueen. E così anche Armani non è solo un brand ma anche filosofia applicata, antropologia anticipata, comunicazione virale, ecc. Leopardi aveva capito benissimo questa sfida: la Moda porta alla Morte…I mercati, complessi da definire e accompagnare, si muovono dentro a un sistema generale che possiamo continuare a chiamare capitalismo, ma che il digitale e tutto questo processo mutante può sfidare.
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Forse mi sono persa. Questa sfida digitale e tecnologica ha a che fare con la capacità dell’uomo di vivere in armonia su questo pianeta?
Da tempo è in atto una rivoluzione verso una antropologia-non-antropocentrica, in cui esseri animali, vegetali, minerali, cose, merci, oggetti, persino divini hanno e devono avere gli stessi diritti degli umani. Se non è chiaro tutto questo, che l’antropocene è un mix di natura/cultura, in cui le tecnologie sono sempre più determinanti, si pretende di affermare ancora e sempre che “l’uomo è la misura di tutte le cose”. Bene, nella mia antropologia questo è un dominio che va intaccato profondamente.
Se l’uomo non è la misura di tutte le cose allora chi è il soggetto del cambiamento che, almeno noi a Economiacircolare.com, auspichiamo?
Questo rientra dentro una visione forse più ampia, che riguarda la mia ricerca (Massimo Canevacci, “Meta-feticismo, una teoria esplorativa oltre la reificazione”, ndr) in cui le cose, gli oggetti, le merci, i pixel sono trattati sempre più come soggetti. Di nuovo la distinzione materiale-immateriale tende a svanire nell’aria digitale. E allora? Questa è una domanda su cui riflettere per Economiacircolare.com. Certo, gli aspetti circolari dello scambio natura-cultura sono stati vissuti per secoli dalle culture nomadi o semi-nomadi, per esempio in Brasile, per dare tempo alle aree dove si era vissuto di ricostruire il proprio habitat. Nell’era post-industriale, chiamiamola così, per me questa in cui il digitale ha sconvolto i nessi cultura-natura produzione-consumo pubblico-privato ecc., ogni affermazione critica ha la prospettiva di convivere per un certo spazio-tempo, per poi sentire che è stata assorbita da qualcosa di più ampio.
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