Un po’ a sorpresa è, fino a questo momento, la protagonista italiana di Cop29: parliamo di Italgas, la più antica società italiana di distribuzione del gas. Se era prevedibile attendersi un ruolo di primo piano dei colossi energetici Eni e Snam – che in Azerbaijan giocano in casa, tanto che l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi è a Baku in qualità di ospite della presidenza azera – bisogna invece registrare un netto attivismo di Italgas, che per la prima volta è sbarcata alla Conferenza Annuale sui Cambiamenti Climatici. E ha scelto di farlo in grande stile.
Come denunciato negli scorsi giorni da Kick Big Polluters Out (KBPO), coalizione di oltre 450 organizzazioni di tutto il mondo, l’Italia ha portato otto lobbisti di Italgas (più precisamente 7 di Italgas e 1 della consociata Italgas Reti), vale a dire la più ampia delegazione di combustibili fossili portata da uno Stato membro dell’UE. In totale, come denunciato dalla campagna Clean the cop – la campagna lanciata dal nostro insieme all’associazione A Sud e alla fondazione Openpolis e che chiede al governo di non facilitare la loro presenza alle conferenze ONU sul clima – sono 22 i delegati di aziende fossili presenti nella delegazione governativa italiana.
Tra questi, appunto, si è fatta notare la presenza di Italgas, che a Baku ha portato i vertici aziendali e ha organizzato incontri come quello svoltosi il 15 novembre presso il Padiglione Italia nella Blue Zone di Cop29, con la presenza, tra gli altri, di Francesco Corvaro, inviato speciale del governo italiano per il clima; Jonathan Banks, Global Director Methane della ong Clean Air Task Force, rappresentanti di think tank come l’Atlantic Council, delegati di aziende tra cui Tokyo Gas, Azerigas e Marubeni. L’alleanza strategica con lo Stato azero va avanti in realtà da anni, come ha raccontato Il Sole 24 ore.
Anche per questo motivo non ha sorpreso, ma ha destato comunque clamore, l’accordo commerciale firmato il 12 novembre, a Cop appena iniziata, tra Italgas e Socar, l’azienda statale azera che si occupa di petrolio e gas (e il cui ex dirigente Mukhtar Babayev, per non farsi mancare nulla, è il presidente della Cop29). Più precisamente si tratta di un Cooperation Agreement, sottoscritta da Paolo Gallo, amministratore delegato di Italgas, e Elshad Nassirov, vicepresidente di Socar responsabile per il gas. L’intesa, si legge nel comunicato stampa, “consolida una partnership strategica finalizzata a promuovere innovazione, efficienza e sostenibilità nel settore della distribuzione del gas. Tra i principali ambiti di collaborazione figurano lo scambio di best practice e tecnologie per incentivare la transizione energetica e la digitalizzazione, con particolare attenzione alla decarbonizzazione delle infrastrutture tramite il rilevamento delle dispersioni di gas con tecnologia Picarro e alla digitalizzazione dei processi sfruttando la metodologia agile, adottata dal 2018 nella digital factory di Italgas, hub della trasformazione digitale del gruppo”.
Al di là del contenuto sorge una questione di opportunità: era proprio necessario firmare questo accordo nei giorni in cui in teoria si dovrebbe discutere di come salvare il pianeta, e chi lo vive, dal collasso climatico?
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Perché Italgas punta sulla Cop29
Sono proprio tali operazioni che confermano i dubbi e le criticità sempre più diffuse su questa Cop29 e sulle ultime tre, a forte trazione fossile (Egitto, Emirati Arabi Uniti e Azerbaijan). La frustrazione della comunità scientifica per essere messa all’angolo nella fase cruciale dei negoziati climatici, raccontata dal giornalista Ferdinando Cotugno su Domani, è solo l’ultimo tassello di una sfiducia sempre più ampia attorno alle Cop. Sfiducia che la presenza sempre più invasiva e il ruolo sempre più determinante delle aziende fossili continua ad alimentare.
Per provare a comprendere il senso di Italgas alla Cop29 serve tornare indietro nel tempo. Addirittura fino al 1837, anno in cui, partendo dalla Torino della prima metà dell’Ottocento, quando le strade erano illuminate soltanto da pochi lampioni a olio, Italgas investiva appunto su quello che diventerà nel Novecento il combustibile energetico per eccellenza, insieme al petrolio, e nel Duemila quello che viene spacciato come “combustibile di transizione” per la riconversione energetica.
Dopo vari cambi di nomi e vari passaggi – da Eni a Snam – Italgas nel 2016 acquisisce la sua attuale forma societaria (una società per azioni) e torna a essere quotata in borsa. Da allora il valore delle sue azioni sale costantemente e con esso anche gli investimenti e gli utili. Nei primi nove mesi del 2024 la società registra ricavi per oltre 1,3 miliardi di euro e nel piano strategico al 2030 prevede, dopo l’acquisizione di 2i Rete Gas, di investire ben 15,6 miliardi di euro. Lo scopo è di diventare il “campione europeo nella distribuzione del gas”, come annunciato dal suo amministratore delegato Paolo Gallo.
Per raggiungere tale obiettivo, come spiegato nel “piano di creazione di valore sostenibile al 2029”, si punta sulle infrastrutture del gas che, “grazie alla loro estensione e capillarità, hanno e avranno un ruolo chiave nella decarbonizzazione”, attraverso due fasi:
- “a breve termine, possono sostituire fonti energetiche maggiormente inquinanti (carbone e petrolio in particolare), assicurando al contempo la sicurezza del sistema, visto che le fonti rinnovabili, come l’eolico e il solare, non sono programmabili;
- nel lungo termine, si potrà progressivamente sostituire il gas fossile con i gas rinnovabili, in particolare il biometano e l’idrogeno verde”.
Su quest’ultimo punto Italgas non fa mistero di voler giocare la parte del leone nel piano REPower Eu, lanciato dall’Unione Europea nel 2022 che attraverso un mega-investimento da 300 miliardi di euro mira a superare entro il 2027 la dipendenza del Vecchio Continente dal gas russo.
L’azienda ricorda che “per il biometano il nuovo target 2030 di 35 miliardi di metri cubi raddoppia il precedente, mentre per la produzione e importazione di idrogeno dovrebbe raggiungere i 20 milioni di tonnellate entro il 2030 (4 volte l’obiettivo di Fitfor55). Il potenziale europeo di biometano al 2030 è superiore a 40 miliardi di metri cubi, che aumenteranno a 150 miliardi di metri cubi entro il 2050, con l’Italia che riveste un ruolo importante. Attualmente l’Italia è il sesto produttore europeo di biometano, con 33 impianti attivi che producono più di 320 Mm3/anno, per lo più da rifiuti organici. Si prevede che la produzione italiana di biometano acceleri nei prossimi anni, supportata anche dal nuovo schema incentivi”.
Insomma: i colossi energetici italiani o, se preferite, i campioni fossili dell’Italia non sono più soltanto due – Eni e Snam – ma ad essi va aggiunta Italgas. Così si spiega il protagonismo dell’azienda alla Cop29.
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Alla Cop29 il governo Meloni è assente non giustificato
Se le aziende fossili italiane possono già dirsi soddisfatte degli esiti della Cop29 un mix di stupore e sconcerto è l’immediata reazione che scaturisce esaminando l’operato del governo Meloni. Dell’incredibile discorso di Giorgia Meloni a sostegno di tutte le energie – e in special modo quelle avallate da Eni – abbiamo già detto. Che il governo non puntasse granché sulla Conferenza 2024, d’altra parte, si era già compreso per il bassissimo impegno nelle trattative e nella promozione dell’evento (la stessa premier è andata e tornata a Baku in una mattinata).
L’inviato speciale per il clima Francesco Corvaro si è fatto notare giusto per il panel di alto livello “Clima e pace”, organizzato dalla presidenza della Cop29 in collaborazione con Egitto, Italia, Germania, Uganda, Emirati Arabi Uniti e Regno Unito. Anche se restano dubbi sulla reale operatività di Baku Climate and Peace Action Hub, la piattaforma cooperativa progettata per facilitare la collaborazione tra iniziative di pace e clima nazionali, regionali e internazionali.
Ancor peggio, poi, se si guarda all’evanescente presenza del ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, con cui ormai abbiamo imparato a fare i conti ma che resta comunque preoccupante e che va di pari passo con il deciso arretramento dell’Unione Europea, contestata da più parti – basti pensare alla proposta UE di una cifra tra i 200 e i 300 miliardi di dollari l’anno a supporto dei Paesi più colpiti dal collasso climatico, proposta rigettata dagli Stati che chiedono cifre 5 volte superiori.
Restando all’Italia, a ben pensarci c’è poco da rimanere sorpresi. L’Italia arrivava alla Cop29 con una credibilità molto bassa per quel che riguarda l’impegno su temi come riduzione delle emissioni, programmi energetici e cooperazione internazionale: a due anni dagli annunci lo strombazzato Piano Mattei è ancora nella fase progettuale e dei 21 progetti pilota molti sono affidati alle aziende (molte fossili) e pochi al mondo della cooperazione. Una conferma è arrivata negli scorsi giorni da Climate Change Performance Index (CCPI), lo strumento indipendente che dal 2005 monitora le prestazioni di mitigazione del clima dei paesi.
L’Italia si è classificata al 43esimo posto, tra gli ultimi posti a livello europeo, ricevendo un “punteggio medio in emissioni di gas serra e uso di energia e basso nella politica delle energie rinnovabili e del clima”. A essere contestato è soprattutto il Piano Nazionale per l’Energia e il Clima, che non ha neppure indicato “un obiettivo di riduzione delle emissioni di gas serra a livello macro per il 2030”. L’indice CCPI contesta poi il ricorso costante e perfino in aumento dei combustibili fossili – ricorso destinato ad aumentare ulteriormente per via del decreto legge Ambiente, che diventerà legge a dicembre – e per non aver raggiunto “il potenziale di energia rinnovabile”. Inoltre si ricorda che “non esiste un piano d’azione per porre fine ai sussidi ai combustibili fossili” e che serve “una data più ambiziosa per l’eliminazione graduale del carbone” (alla prevista scadenza del 2025 allo scorso G7 Ambiente a Torino è stata inserita una deroga per la Sardegna). E se l’ambientalismo ideologico, tutto schiacciato sul fossile e sul (ri)nascente nucleare, fosse quello della destra al governo?
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