di Daniele Di Stefano e Antonio Pergolizzi
Scade in questi giorni il termine per la consegna al Ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica (MASE) delle osservazioni sullo schema di decreto che dovrà regolare la responsabilità estesa del produttore, quindi il fine vita, dei rifiuti tessili (EPR tessili). EconomiaCircolare.com, consultando a riguardo alcuni dei soggetti coinvolti, ha raccolto diverse opinioni, che stimolano alcune riflessioni.
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Un disegno teorico distante dalla realtà?
Ascoltando i pareri degli interessati sullo schema di decreto ci sentiamo ripetere più volte, da diversi punti di vista lungo la filiera, che abbiamo a che fare con quella che potremmo definire un’ipotesi di scuola, un disegno teorico e accademico fin troppo ambizioso che non parte da dati di realtà, che non tiene conto dello stato dei fatti e non punta tanto a migliorare l’esistente che quanto a immaginare un sistema completamente diverso. Scelta che porterebbe con sé problemi non da poco a quegli anelli dalla catena del valore che già oggi contribuiscono, pur coi limiti del caso, alla sostenibilità della gestione dei rifiuti tessili.
Sappiamo che il giro di consultazioni in atto con gli stakeholders serve a raccogliere proposte emendative, ma il rischio paventato da alcuni osservatori è che il testo, se approvato tal quale, rischierebbe di intaccare i risultati già raggiunti oggi, non solo quelli ambientali (riuso e riciclo) ma anche quelli industriali ed economici.
Responsabilità estesa e condivisa: la questione dei fondi
Uno dei temi posti – uno dei più prevedibili – è quello della condivisione della responsabilità: responsabilità estesa, sottolineano alcuni interlocutori, vuol dire necessariamente responsabilità condivisa da tutti gli attori della filiera che contribuiscono alla sua sostenibilità. In sostanza, il tema è quello della distribuzione del futuro contributo ambientale (“finanziato dai produttori, certo, ma coi soldi dei consumatori”) a chi promuove la sostenibilità della filiera tessile nazionale, vero obiettivo della responsabilità estesa del produttore. La bozza di decreto, infatti, parla di sostenere la filiera della raccolta, del riuso, del riciclo e recupero, ma non dà nessuna indicazione in merito alla gestione del contributo ambientale. Lasciando di fatto la questione nelle mani dei consorzi e, quindi, dei produttori. Il tema di fondo è che non viene chiarito come si distribuiranno le diverse competenze e con quali modalità. In sostanza, con questo decreto si sta innestando nei circuiti della privativa, ossia della gestione pubblica dei rifiuti urbani, un meccanismo di raccolta privato tipico dell’EPR, senza che questo innesto sia disciplinato e chiarito. Detta in altro modo, qual è la direzione scelta dal legislatore? Rafforzare il ruolo pubblico oppure quello privato? Lo schema del decreto su questo punto non dice nulla. E da qui sono nati i principali conflitti, laddove nel non detto ciascuno prova a tirare la coperta dalla propria parte.
Riciclo, riuso, recupero: ma quanto?
Altro tema evidenziato dagli attori della filiera riguarda la seconda vita dei rifiuti tessili. Lo schema di decreto prevede obiettivi progressivi (e ambiziosi) da raggiungere. Stabilisce infatti che si dovrà raggiungere almeno il 25% di riuso, riciclo e recupero in peso entro il 2025, il 40% entro il 2030 e il 50% al 2035. Ma si parla solo di quote complessive, senza indicare quanta parte di queste quote debba essere riuso, quanta riciclo e quanta recupero energetico. Il timore dei diversi attori della filiera è che la propria quota (il riuso, ad esempio, o il riciclo) venga sacrificata a vantaggio di altre opzioni (come la valorizzazione energetica). Questo nonostante il testo dello schema di decreto richiami più volte la gerarchia europea dei rifiuti.
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A cosa servono i centri comunali di raccolta (e quelli per il riutilizzo)?
Lo schema di decreto attribuisce un ruolo molto rilevante ai centri comunali di raccolta. In sostanza, in questi centri verranno dirottati tutti i tessili che arriveranno dei depositi temporanei dei negozi, nei quali presumibilmente confluiranno i flussi di maggiore qualità. Qualità sottratta quindi alla raccolta stradale – alla quale si fanno solo accenni fugaci nel testo del ministero – drenando le risorse (gli abiti di maggiore qualità piazzati sul mercato nazionale ed estero) che di fatto tengono in piedi il sistema attuale di gestione dei rifiuti tessili. Se da una parte, ci viene sottolineato, l’attuale sistema che si finanzia appunto con la vendita dei prodotti usati (quindi senza spesa pubblica) viene penalizzato, dall’altra si utilizzeranno i fondi del contributo ambientale per mettere in piedi e gestire i centri di raccolta (che dovranno essere molto numerosi per gestire i flussi attesi). Una scelta che qualcuno sintetizza nella formula “maggiori costi, minore efficienza, efficacia, economicità”.
Coi centri comunali, poi, si inserirebbe uno snodo logistico obbligatorio e aggiuntivo sottratto alle logiche del libero mercato e della libera concorrenza favorendo invece una logica monopolistica in mano ai Comuni. Ancora peggio se puntiamo la lente sui centri del riuso. Secondo il testo del MASE questi saranno costituiti da “appositi spazi individuati presso i centri di raccolta per l’esposizione temporanea finalizzata allo scambio tra privati di beni usati e funzionanti direttamente idonei al riutilizzo”. Quindi, la selezione chi la farà? E a carico di chi? L’obiettivo è davvero sottrarre valore economico alle frazioni destinate al riuso? Considerato che i centri del riuso sono luoghi di mero scambio tra privati, escludendo qualsiasi finalità di lucro, di fatto si rischia di azzoppare il mercato del second hand italiano, mercato che fino a oggi è riuscito a conciliare ottimamente le ragioni dell’ambiente con finalità sociale e assistenziali. Come lamentato dalle Onlus e dalle cooperative, insieme alla miriade di riveditori dell’usato – anche in occasione del webinar organizzato dal MASE lo scorso 16 febbraio come primo momento di confronto con gli stakeholders – con l’esplosione dei centri del riuso si colpisce a morte proprio il mercato dell’usato, che, al contrario, andrebbe protetto anche dal nuovo schema di EPR, essendo l’unico segmento che finora ha funzionato. Per usare una battuta fatta durante l’incontro, in questo modo “si rischia di buttare il bambino e di salvare l’acqua sporca”.
Peraltro, quanto pubblico potranno raggiungere questi centri, avendo una funzione essenzialmente locale? Se, come si potrebbe dedurre dal testo della bozza, avranno una funzione simbiotica coi centri comunali di raccolta, cruciali per la gestione dei flussi del tessile raccolto nei negozi, non si corre il rischio di sottrarre a mercati più ampi (e quindi a maggiori possibilità di allungamento del ciclo di vita) la merce migliore che proprio da questo canale potrebbe transitare? Non si corre il rischio, dunque, di pagare coi fondi del contributo ambientale (e quindi soldi pubblici) soluzioni meno efficienti di quelle che invece oggi si ripagano stando sul mercato? L’aspetto paradossale di questo approccio è che rischia solo di impoverire il mercato dell’usato e con questo l’intera filiera, che potrebbe collassare e volgere, per colmo di paradosso, verso pratiche informali e/o di mero smaltimento. L’eterogenesi dei fini, si direbbe.
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Il ruolo del CORIT
Altri interrogativi nascono attorno dal CORIT, il Centro di Coordinamento per il Riciclo dei Tessili. Il primo è legato alla composizione del Centro. Se dovrà essere uno spazio di ‘garanzia’ (dovrà infatti, si legge nello schema di decreto, “garantire il necessario coordinamento dell’attività di raccolta differenziata”) alcuni stakeholders si chiedono se il fatto che sarà costituito esclusivamente “da tutti i sistemi individuali e collettivi di gestione dei rifiuti tessili” possa essere strumento utile ad assolvere alla funzione. Non sarebbe utile, suggerisce qualcuno, la partecipazione del ministero e di altri soggetti della filiera?
Se da un lato, dunque, secondo qualcuno il CORIT potrebbe essere manchevole dal punto di vita dalle garanzie, dall’altro potrebbe ricevere un eccessivo carico operativo, visto che dovrà “garantire e coordinare il ritiro dei rifiuti conferiti al sistema di raccolta pubblico e presso i distributori”. In realtà non si sa con quali modalità e con quali risorse questo organo sarà operativo, né con quali funzioni di controlli e di verifica sull’operato della filiera.
Online privilegiato?
Tra le misure problematiche evidenziate da alcuni protagonisti della filiera, si segnala ”l’inspiegabile lasciapassare” per il commercio online. Al quale lo schema di decreto non impone obblighi (non quello della raccolta uno contro uno, come per i negozi fisici) che non siano di natura informativa: chi importa o vende online, infatti, dovrà indicare come e dove conferire il rifiuto. Si tratterebbe, viene sottolineato, di “un’ennesima disparità di trattamento” tra negozi fisici e online. Un vulnus che ci si augura venga colmato nella fase emendativa.
Fibre naturali VS sintetiche
Più di un soggetto interessato dagli effetti del decreto si chiede il motivo per il quale lo schema di decreto “discrimini le fibre sintetiche”. All’articolo 6, infatti, il testo stabilisce che i produttori dovranno – comma 1, lettera a) – “garantire l’impiego di fibre tessili naturali e di materiali naturali biocompatibili”. Questo, viene fatto notare, senza che vi sia alcun riscontro nell’evoluzione della discussione in sede europea né evidenze di natura scientifica. Probabilmente il vero discrimine è comprendere quale sia davvero il ciclo di vita di ciascuno processo e di ciascun prodotto, evitando in ogni modo miscele che ne rendano complicato, se non impossibile, il riciclo.
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Il rischio di irrigidire la filiera
In generale, e lasciando da parte altri aspetti di dettaglio, diverse voci tra quelle ascoltate da EconomiaCircolare.com lamentano che tra gli effetti del decreto ci sarebbe l’irrigidimento delle dinamiche di una filiera che oggi, pur con diversi limiti, funziona fluidamente e senza sostegno pubblico, quanto meno nella parte del riuso (seppure con tutti i suoi limiti e con le degenerazioni illegali che ci sono state, come documentato anche dalla recente della cd Commissione Ecomafia).
Altri punti di vista sottolineano che i sistemi EPR non vengono certamente costituiti dai produttori solo per finanziare la raccolta pubblica, senza la possibilità di una gestione diretta dei rifiuti tessili affidati invece ai Comuni. Per questi la parola “dirigismo”, insieme a “rigidità”, si affacciano ripetutamente nelle riflessioni, contrapponendosi a termini quali “efficienza” e “ragionevolezza”.
La bozza non dirime i problemi di un innesto pubblico-privato
Il realtà in questi punti di vista si può misurare concretamente il conflitto incipiente tra una gestione pubblica e una privata, che la bozza di decreto non prova nemmeno a dirimere, affastellando nuove competenza in capo ai produttori/distributori sommandole semplicemente a quelle dei Comuni e dei Gestori nelle attività di gestione dei rifiuti urbani. In questo caso, non è la somma che fa il totale. Evidentemente l’innesto di un modello privato, tipico dell’EPR, in un contesto di servizio pubblico (la gestione dei rifiuti urbani) andrebbe studiato e meditato in maniera chirurgica, facendosi aiutare da chi conosce bene il settore tessile insieme a chi conosce bene tutte le dinamiche della gestione dei rifiuti, sapendo trovare quel difficile equilibrio tra le ragioni dell’ambiente e l’efficienza economica. Considerando che occorre prendersi carico di tutte le frazioni, non solo di quelle di valore e facilmente accessibili, che nessun pasto è gratis e che alla fine qualcuno deve pagare per ciò che non ha mercato o soluzioni sostenibili. Alla luce del fatto che, in ogni caso, l’EPR non può e non deve essere la continuazione del business sotto altre forme per i produttori/distributori –essendo essenzialmente uno strumento di politica ambientale che risponde al principio del chi-inquina-paga – e che la gestione dei rifiuti è, sempre, un’attività di pubblico interesse (art. 177, comma 2 TUA) e che ogni scelta in tal senso deve pendere, sempre, da questa parte.
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