giovedì, Novembre 6, 2025

Ripristinare gli ecosistemi non basta: assorbe meno carbonio del previsto

Le previsioni arrivano da uno studio pubblicato su Nature Geoscience: ripristinare gli ecosistemi non può essere la risposta per contrastare il cambiamento climatico. Resta fondamentale per proteggere la biodiversità e l’ambiente, ma l’unica soluzione contro le emissioni di gas serra è ridurle drasticamente

Tiziano Rugi
Tiziano Rugi
Giornalista, collaboratore di EconomiaCircolare.com, si è occupato per anni di cronaca locale per il quotidiano Il Tirreno Ha collaborato con La Repubblica, l’agenzia stampa Adnkronos e la rivista musicale Il Mucchio Selvaggio. Attualmente scrive per il blog minima&moralia, dove si occupa di recensioni di libri. Ha collaborato con la casa editrice il Saggiatore e con Round Robin editrice, per la quale ha scritto il libro "Bergamo anno zero"

Uno studio pubblicato su Nature Geoscience mette in dubbio il potenziale del ripristino degli ecosistemi come una delle principali soluzioni contro il cambiamento climatico. La ricerca, dal titolo “Limited carbon sequestration potential from global ecosystem restoration”, è stata condotta da un gruppo internazionale di ricercatrici e ricercatori e giunge a una conclusione poco incoraggiante: il massimo potenziale di sequestro del carbonio derivante dal ripristino su scala globale è stimato in 96,9 gigatonnellate entro il 2100, pari al 17,6% delle emissioni umane dal 1750 a oggi. Se si considerano le emissioni future, la quota scende a un intervallo tra il 3,7% e il 12%.

“I nostri risultati suggeriscono che il ripristino degli ecosistemi ha un potenziale limitato per la mitigazione dei cambiamenti climatici – scrivono le autrici e gli autori della ricerca – anche se affiancato ad un cambiamento pervasivo verso economie sostenibili e a basse emissioni a livello globale. Inoltre, se pianifichiamo obiettivi di ripristino in base alle condizioni climatiche future e consideriamo le transizioni di stato degli ecosistemi attualmente naturali dovute ai cambiamenti climatici, il potenziale per soluzioni climatiche legate al ripristino degli ecosistemi è prossimo allo zero”.

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Ripristinare gli ecosistemi deve avere altri obiettivi

Questo, però, non significa che ripristinare foreste, praterie, zone umide e arbusteti sia inutile, tutt’altro: è la soluzione indispensabile per rigenerare la biodiversità e sostenere i mezzi di sussistenza e la resilienza dei servizi ecosistemici, tutti aspetti fondamentali per la salute del pianeta Terra. Inoltre il ripristino mantiene un ruolo decisivo sotto il profilo dell’adattamento: ecosistemi integri attenuano le ondate di calore attraverso l’evapotraspirazione, riducono l’erosione del suolo dopo precipitazioni estreme, e sostengono la resilienza degli impollinatori, cruciali per la sicurezza alimentare.

Allo stesso tempo, però, il messaggio è chiaro: se si vuole contrastare in maniera efficace le emissioni antropiche di anidride carbonica le politiche climatiche dovrebbero “supportare l’obiettivo originale del ripristino degli ecosistemi per combattere la crisi della biodiversità e, di conseguenza, aumentare la resilienza dei servizi ecosistemici, piuttosto che puntare esclusivamente sul sequestro del carbonio”. L’unica risposta contro le emissioni climalteranti è ridurle drasticamente attraverso una transizione energetica rapida ed estesa.

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I calcoli fatti finora sono troppo ottimistici

Nel 2024 il Parlamento europeo ha approvato la legge sul ripristino della natura per affrontare la crisi della biodiversità con l’obiettivo di avviare la rigenerazione degli ecosistemi nel 20% delle aree terrestri e marittime dell’Unione europea entro il 2030 e in tutti gli habitat degradati degli Stati membri entro il 2050. La legge Ue sul ripristino della natura afferma esplicitamente che accelerare e potenziare il ripristino degli ecosistemi contribuirà alla mitigazione dei cambiamenti climatici.

Gli studi su cui sono state basate queste conclusioni, tuttavia, sostengono gli autori – citando ad esempio quello di Bastin e Strassburg – sono troppo “albero-centrici”, ovvero sovrastimano il ruolo degli alberi trascurando la varietà degli ecosistemi e i limiti della forestazione forzata. Le praterie e gli ecosistemi aperti, spesso trascurati, hanno invece un ruolo chiave perché immagazzinano carbonio nei suoli, al riparo da incendi e siccità, mentre l’afforestazione di aree storicamente aperte può persino avere effetti climatici negativi perché riduce la biodiversità e aumenta la scarsità d’acqua, oltre ad alterare il regime degli incendi.

La nuova analisi introduce un modello predittivo che utilizza il machine learning ed esamina tutte le principali tipologie di ecosistemi terrestri (foreste, arbusteti, praterie e zone umide), lo stoccaggio di carbonio sotto e sopra il suolo, differenze biogeografiche, considerando anche variabili come i vincoli socio-economici ed emissioni future di carbonio. Col risultato che i valori di sequestro di carbonio della rigenerazione degli ecosistemi è molto più basso rispetto a quanto ritenuto in precedenza.

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I nuovi calcoli sugli effetti del ripristino degli ecosistemi

Secondo il loro modello, le superfici potenzialmente ripristinabili sono pari a 28,76 milioni di km²: 11,66 milioni di km² per le foreste, con aree particolarmente ampie nelle zone temperate e boreali settentrionali e nelle regioni tropicali e subtropicali. Gli arbusteti coprono 4,91 milioni di km², in particolare nell’Australia orientale e negli Stati Uniti centro-meridionali. Le praterie raggiungono 9,37 milioni di km², con potenziali di ripristino elevati in Nord America, Eurasia, altopiani asiatici e paesaggi tropicali. Le zone umide coprono 2,83 milioni di km², concentrate nel Midwest statunitense e nell’Asia orientale, ma anche in pianure alluvionali e aree costiere come il golfo del Bengala.

Lo studio avverte inoltre che i cambiamenti climatici altereranno la stessa disponibilità di ecosistemi ripristinabili. Proiezioni per il periodo 2061–2080 indicano perdite consistenti di aree forestali, in particolare nell’Amazzonia – in totale a livello globale le perdite di aree forestali sono stimate intorno a 2,3-3,4 milioni di km² – a fronte di espansioni di praterie e arbusteti in seguito ad incendi. In presenza di queste transizioni ecologiche, il beneficio netto del ripristino degli ecosistemi tende a diminuire e, in scenari estremi, può avvicinarsi allo zero.

L’intero ripristino del territorio disponibile (escluse le aree con vegetazione naturale, aree edificate e agricole intensive e regioni aride e polari) utilizzando le attuali previsioni climatiche porterebbe a partire dal 2030 a un assorbimento annuo di 1,92 Gt di carbonio e ad un sequestro complessivo di 136,3 Gt di carbonio entro fine secolo. Tuttavia, gli autori riconoscono che questo scenario è irrealistico.

Una tempistica più plausibile, distribuita progressivamente tra il 2030 e il 2100, riduce la stima a 85,2 Gt. La maggior parte di questo assorbimento (58,1% – 49,4 Gt) deriverebbe dalle foreste, mentre il restante 41,9% (35,8 Gt) proverrebbe dagli ecosistemi aperti, come praterie e zone umide. La selezione mirata di regioni ad alto rendimento – che include non solo foreste tropicali ma anche praterie nordamericane e steppe dell’Asia centrale – può innalzare il potenziale massimo a 96,9 Gt, ma resta comunque meno della metà delle stime più ottimistiche pubblicate in passato.

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Il ruolo degli aspetti socio-economici nel ripristino della natura

Il ripristino della natura, a causa della distribuzione biogeografia avrà anche conseguenze positive a livello sociale, perché sostiene la giustizia climatica “attenuando la crescente pressione su nazioni storicamente a basse emissioni”. L’inclusione di ecosistemi non forestali garantisce, inoltre, una maggiore equità rispetto alle campagne di riforestazione attraverso i crediti di carbonio, che spesso hanno scarso impatto climatico e conseguenze negative su biodiversità e comunità locali, arrivando in alcuni casi a favorire deforestazioni indirette. Tuttavia, l’espansione agricola nei Paesi a basso reddito potrebbe entrare in conflitto con la realizzazione dei progetti di ripristino, mentre nei Paesi ad alto reddito le superfici agricole stabili rendono più sostenibili gli interventi.

Perciò il potenziale di assorbimento deve essere confrontato con le traiettorie socioeconomiche globali (Shared Socioeconomic Pathways, SSP), che considerano l’effetto delle politiche climatiche adottate dai governi. Nel percorso più ambizioso (SSP1-2.6), che prevede un cambio radicale verso economie sostenibili e a basse emissioni, il ripristino può ridurre il carico di carbonio del 12% e anticipare agli anni Sessanta di questo secolo il raggiungimento delle emissioni negative. Nel percorso SSP2-4.5, più lento e meno radicale, si otterrebbe solo una riduzione del 7,6%. Negli scenari peggiori (SSP3-7.0 e SSP5-8.5), basati rispettivamente su politiche frammentate e su business as usual, il beneficio si limita a una riduzione compresa tra il 3,7 e il 5% del carico complessivo.

In tutti i casi, le emissioni resteranno comunque positive per gran parte del secolo. Proprio per “la limitata probabilità di una mitigazione significativa del cambiamento climatico attraverso la rigenerazione globale degli ecosistemi nel breve o medio terminesecondo gli autori sarebbe necessario, perciò, “dare priorità all’adattamento climatico e ottimizzare le attività di ripristino degli ecosistemi a favore delle popolazioni vulnerabili” pensando soprattutto a “rendere più efficienti i piani di mitigazione mediante meccanismi rigorosi per ridurre le emissioni, invece di investire in compensazioni dai risultati incerti”.

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