Una crepa all’interno di un monolite di consenso, uno scossone che movimenta una rotta che appariva imperturbabile: così appare per Eni la decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, resa nota nel pomeriggio del 21 luglio, di accogliere il ricorso presentato da Greenpeace Italia, ReCommon e 12 cittadine e cittadini che intendono portare a processo le presunte responsabilità climatiche della più potente azienda energetica italiana. Il verdetto della Cassazione, come ribadito dalle ong, “avrà un impatto importantissimo su tutte le cause climatiche in corso o future in Italia” e “ha un impatto immediato anche sulla nostra causa avviata nel maggio 2023 davanti al Tribunale di Roma contro Eni, Cassa Depositi e Prestiti S.p.A. (CDP) e Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), per chiedere di obbligare la società a rispettare l’Accordo di Parigi e ridurre le sue emissioni”.
Ci sono voluti più di due anni, dunque, soltanto per accertare che un tribunale ordinario può valutare l’impatto delle emissioni del cane a sei zampe, che restano enormi: secondo il recente rapporto Carbon Majors, elaborato da InfluenceMap e che monitora annualmente le emissioni di 169 aziende fossili a livello globale, l’italiana Eni è nella 36esima posizione, con 257 MtMtCO2e (milioni di tonnellate di anidride carbonica equivalente, ndr), che corrispondono allo 0.59% delle emissioni globali. I dati presentati da Carbon Majors includono anche le emissioni storiche dal 1854 al 2023: in questa seconda classifica Eni occupa la posizione n°34 con 9943 MtCO2e, che rappresentano lo 0,49% delle emissioni totali nel periodo considerato.

Si comprendono perciò i toni entusiastici di Greenpeace e ReCommon, che parlano di “vittoria storica per il clima”, e di tutto il mondo ambientalista che da ieri esulta perché Eni potrà finalmente essere giudicata . Allo stesso tempo è comprensibile anche il rumoroso silenzio fatto registrare finora dalla multinazionale energetica. Eppure il pronunciamento della Cassazione potrebbe avere risvolti importanti sia per la giustizia climatica, e per il settore delle cosiddette “climate litigation”, sia per l’immagine dell’azienda, in un Paese come l’Italia dove Eni gode di un sostegno trasversale a livello politico e di un consenso diffuso nell’opinione pubblica. Dove neppure il recente accordo stipulato il 16 luglio scorso da Eni e dalla statunitense Venture Global (vicina al presidente Usa Donald Trump) per una fornitura di GNL (Gas Naturale Liquefatto) a lungo termine ha innescato un dibattito generale. E sì che i motivi ci sarebbero stati: dalla scelta di Eni di rifornirsi di un tipo di gas molto costoso e molto impattante dal punto di vista ambientale alla volontà dell’azienda di stipulare un accordo commerciale con un’azienda statunitense proprio mentre Trump continua la sua ostilità nei confronti dei Paesi dell’UE e intende avviare pesanti dazi commerciali a partire dall’1 agosto.
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La politica energetica la fa Eni o lo Stato?
Al di là del dato di cronaca, dunque, le 24 pagine emesse dai giudici della Cassazione sono importanti anche per ciò che affermano sui temi legati alla giustizia climatica. Su questo versante, tuttavia, rimandiamo a un prossimo contributo della giurista Marta Buffoni. In questa sede, invece, riflettiamo più su questioni più prettamente politiche. Ad esempio la Cassazione ha ribadito che la futura decisione del tribunale di Roma dovrà esprimersi anche in relazione alle emissioni prodotte da Eni in Stati esteri, banalmente perché la sede amministrativa della società capogruppo di Eni, dove viene definita la strategia industriale a livello globale, è in Italia, nel quartiere Eur a Roma: un richiamo deciso alla responsabilità d’impresa, anche perché pure sulle emissioni prodotte all’estero Eni comunque si assicura un (cospicuo) profitto.
Allo stesso tempo va ricordato che il contenzioso promosso da Greenpeace, ReCommon e 12 cittadine e cittadini non è innovativo soltanto perché è mirato, per la prima volta in Italia, ad accertare le responsabilità climatiche di una singola azienda ma anche perché cita in giudizio anche la parte pubblica che detiene ancora un deciso controllo azionario dell’azienda: dei 263.302 azionisti del cane a sei zampe, oltre il 31% è detenuto dallo Stato attraverso la presenza del Ministero dell’Economia e delle Finanze (2,084%) e Cassa Depositi e Prestiti (29,751%). Ed è proprio sul “controllo statale” che da sempre, e ancor di più da quando Eni è stata quotata in Borsa negli anni Novanta, che si addensano i maggiori dubbi: chi controlla chi? È Eni a dettare la politica energetica allo Stato (è la tesi di chi scrive) o è lo Stato che con la propria presenza azionaria riesce a indirizzare le politiche energetiche di Eni? Ben venga, dunque, se tale ricorso potrà consentire di sciogliere questo nodo cruciale. Soprattutto se il ruolo dello Stato intende perseguire più l’interesse privato che quello pubblico.
“La domanda degli attori – si legge nel pronunciamento della Cassazione – s’inserisce nel noto filone, da tempo diffuso a livello internazionale e da poco approdato anche in Italia, della c.d. climate change litigation, nell’ambito del quale si caratterizza, rispetto ad altre analoghe iniziative, per il fatto di avere come destinatari una società privata (quale viene ormai considerata a tutti gli effetti l’ENI, a seguito della trasformazione avviata con l’art. 15 del d.l. 11 luglio 1992, convertito con modificazioni dalla legge 8 agosto 1992, n. 359), ed altri due soggetti, uno dei quali è un’Amministrazione dello Stato, mentre l’altro, pur a seguito della trasformazione in società per azioni (prevista dall’art. 5 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla legge 24 novembre 2003, n. 326), continua ad avere una natura piuttosto discussa, ritenendosi ancora da parte di alcuni che esso costituisca, sotto il profilo sostanziale, un’amministrazione pubblica ad ordinamento autonomo”.

L’autonomia di Cassa Depositi e Prestiti appare la stessa di Eni, che da tempo sembra decidere in autonomia le proprie strategie industriali – dalla scelta di puntare sui biocarburanti alle modalità di riconversione della chimica agli acquisti di GNL dagli USA – con lo Stato che interviene soltanto dopo, a decisioni già assunte, molto spesso per limitarsi a rafforzarle. Se così fosse, dunque, le responsabilità climatiche di Eni sarebbero analoghe a quelle dello Stato italiano.
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La giustizia climatica non può affidarsi soltanto ai tribunali
Abbiamo accennato al silenzio di Eni di fronte alla decisione della Cassazione sul ricorso che Greenpeace, ReCommon e 12 cittadine e cittadini avevano presentato a giugno del 2024 dopo che, a marzo dello stesso anno, il tribunale civile di Roma aveva respinto le istanze di Giudizio Universale, il primo contenzioso in Italia che chiedeva di accertare la presunta inazione dello Stato nei confronti del riscaldamento globale. In quel caso la giudice Canonaco aveva avanzato come motivazione il “difetto assoluto di giurisdizione”.
Il timore delle due ong era che lo stesso facesse il tribunale di Roma, specie dopo che il giudice aveva comunicato alle parti in causa un’ordinanza con cui fissava l’udienza del 13 settembre per pronunciarsi sulle eccezioni preliminari sollevate da Eni, dal MEF e da CDP. Le tre parti in causa, infatti, avevano eccepito proprio il “difetto assoluto di giurisdizione”, allo scopo di escludere che ci possa essere un giudice ordinario che possa decidere sulle scelte industriali della multinazionale energetica, anche quando queste hanno conseguenze climatiche per le persone e il pianeta.
Fino all’altro ieri, dunque, Eni aveva giocato per così dire sempre in attacco. Addirittura, di fronte al nome scelto per la campagna da Greenpeace e ReCommon, cioè “La giusta causa”, Eni aveva parlato di “Falsa causa”, dedicando un’intera pagina del proprio sito a smontare le accuse delle due ong e promuovendo nei loro confronti un’azione civile per diffamazione, sostenendo che “l’azione civile promossa da Greenpeace, ReCommon APS e alcuni attori privati rispecchia una demonizzazione del ruolo della grande impresa in Italia e si fonda su tesi e pregiudizi smentiti dai fatti”. In più Eni ha condiviso, fatto piuttosto inedito per qualsiasi azienda, la documentazione prodotta fino a questo momento nel procedimento civile al tribunale di Roma, tra memorie (ben tre), relazioni tecniche e relazioni affidate a società di consulenza.
In attesa di capire se il pronunciamento della Cassazione comporterà anche un cambio nella strategia comunicativa del cane a sei zampe, vale la pena far notare che è quantomeno ingenuo pensare che la giustizia climatica possa affidarsi esclusivamente ai tribunali. Specie in un Paese come l’Italia: la storia del diritto ambientale è infatti contrassegnata da numerose prescrizioni e carenze strutturali, di personale, strumenti e fondi adeguati. Nella relazione finanziaria annuale di Eni, datata 2024, circa una decina di pagine è dedicata ai contenziosi, definiti dall’azienda “procedimenti civili e amministrativi e azioni legali collegati al normale svolgimento delle sue attività”. Si tratta di 25 procedimenti in corso, tra i quali anche quello promosso da Greenpeace e ReCommon, con accuse molto pesanti che vanno dal disastro innominato (a Gela) all’omessa bonifica (a Crotone), dal traffico illecito di rifiuti (Val d’Agri) all’esplosione del deposito di Calenzano.
Procedimenti sui quali, in ogni caso, l’azienda scrive che “sulla base delle informazioni attualmente disponibili, tenuto conto dei fondi stanziati e rappresentando che in alcuni casi non è possibile una stima attendibile dell’onere eventuale, Eni ritiene che verosimilmente da tali procedimenti ed azioni non deriveranno effetti negativi rilevanti”. Come a dire: non è dai tribunali che ci aspettiamo le pressioni maggiori. Una lezione che il mondo ambientalista dovrà tenere a mente.
AGGIORNAMENTO 24 LUGLIO 2025
In una breve nota inviata alla RAI, Eni ha fatto sapere di aver accolto positivamente la decisione della Cassazione. “Finalmente si potrà riprendere il dibattimento innanzi al tribunale di Roma dove saranno smontati i teoremi infondati di Greenpeace e ReCommon sulle fantasiose responsabilità per danni attribuibili ad Eni relativi ai temi del cambiamento climatico, in un contesto rigoroso e rispettoso della legge” ha commentato l’azienda.
AGGIORNAMENTO 01 AGOSTO 2025
“Siamo soddisfatti nel constatare che Eni, a seguito del recente pronunciamento delle Sezioni Unite della Cassazione in fatto di cause climatiche, abbia improvvisamente cambiato idea sulla Giusta Causa. Il ricorso in Cassazione, che fino a pochi giorni fa ENI bollava come “una scelta effettuata per perseguire una campagna di disinformazione”, ora viene accolto in maniera positiva dalla stessa azienda”. Così Greenpeace Italia e ReCommon commentano l’annuncio fatto da Eni di aver chiesto la riattivazione del giudizio nell’ambito del contenzioso climatico lanciato nei confronti dell’azienda dalle due organizzazioni e da 12 cittadine e cittadini nel maggio 2023.
“Se l’azienda avesse voluto entrare davvero nel merito della causa fin da subito, avrebbe dovuto evitare di sollevare il difetto assoluto di giurisdizione, come invece ha fatto, costringendo Greenpeace Italia e ReCommon a chiedere un pronunciamento alla Corte suprema di Cassazione”, ricordano le due organizzazioni. A differenza di Eni, Greenpeace Italia e ReCommon auspicano da sempre e con convinzione che si apra un dibattito nel merito. Per le due organizzazioni la Giusta Causa è infatti un’occasione storica per portare alla luce le responsabilità del colosso italiano del gas e del petrolio nel riscaldamento del pianeta e ottenere finalmente giustizia climatica per tutte le persone.
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