Per chi diventa impopolare a causa del suo modo di essere, le strade sono due: o sposa la tendenza più in voga, sperando che nessuno si accorga del trasformismo, o sceglie di cambiare davvero. Messe di fronte a questo dilemma, le aziende fossili (la maggioranza di esse) continuano a preferire la prima strada. E lo fanno indossando continuamente nuovi abiti. L’ultimo tentativo in atto viene mascherato da un report di Greenpeace Usa. Se il legame tra emergenza climatica e plastica monouso è ben evidente, un po’ meno lo è quello tra le pratiche usa e getta e il mondo dei combustibili fossili. Per dirla con il sottotitolo del report della ong ambientalista, “come i contenitori usa e getta favoriscono l’espansione dell’industria dei combustibili fossili nel settore della plastica”. Andiamo a vedere più nel dettaglio questa connessione, antica e nuova allo stesso tempo.
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Il monouso si “vergogna” del fossile
“Preoccupate dal rischio di un calo di redditività dovuto alla competitività delle fonti rinnovabili e alla transizione in corso nei settori dei trasporti e dell’energia – si legge nel report di Greenpeace – le aziende petrolifere e del gas come Saudi Aramco, Total, Exxon e Shell stanno facendo enormi investimenti nel settore petrolchimico e nella produzione di plastica. C’è il serio rischio che le emissioni di gas serra associate a ogni fase del ciclo di vita della plastica contribuiscano a vanificare gli impegni per contenere il riscaldamento globale entro la soglia di sicurezza di 1,5°C”. Quando si parla dei legami tra combustibili fossili e plastica bisogna però partire dall’origine. Più del 99% della plastica deriva dai combustibili fossili, secondo i dati del CIEL (Center for International Environmental Law), e le emissioni di gas serra vanno conteggiate per ogni fase del ciclo produttivo: durante l’estrazione di petrolio e gas fossile e, successivamente, per la loro raffinazione, produzione, incenerimento, smaltimento in discarica ed eventuali fasi di riciclo.
“CIEL ha anche calcolato – scrive la ong – che nel 2019 le emissioni di gas climalteranti associate all’intero ciclo di vita di questo materiale erano equivalenti a quelle di circa 200 centrali a carbone”. Il dramma è che la produzione di plastica è destinata ad aumentare, soprattutto perché le multinazionali che più diffondono il monouso – Coca-Cola, PepsiCo, Nestlé, Mondelēz, Danone, Unilever, Colgate Palmolive, Procter & Gamble e Mars – si rivelano spesso più potenti dei singoli Stati e, soprattutto, la loro produzione smisurata di plastica (solo Coca Cola nel 2020 ha immesso sul mercato 112 miliardi di bottiglie) – si appoggia alla creazione di resina e di polimeri (come il PVC) che molto spesso sono realizzate proprio dalle aziende fossili. Una correlazione che i big della plastica tendono a tacere, per “non pubblicizzare la loro dipendenza dal settore che più di tutti minaccia il clima del Pianeta”.
C’è di più. Nessuna azienda di quelle citate in precedenza ha rivelato a Greenpeace “come calcola le emissioni prodotte da ogni tonnellata di plastica utilizzata, rendendo peraltro impossibili verifiche indipendenti. Dato che alcune analisi del ciclo di vita della plastica su cui si basano tali aziende per i loro calcoli probabilmente non includono completamente gli impatti attribuibili all’estrazione di petrolio e gas e alle attività upstream, le emissioni di gas serra degli imballaggi in plastica potrebbero essere molto più elevate di quanto dichiarano le aziende. Ciò potrebbe verificarsi anche per quel che riguarda le emissioni associate all’incenerimento del packaging da loro prodotto”. Un fenomeno nocivo e piuttosto noto, in realtà, che l’economia circolare prova a combattere da tempo introducendo il principio della responsabilità estesa del produttore.
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Tutti i limiti del riciclo
Chi legge questa testata conosce bene la gerarchia dei rifiuti, alla quale spesso facciamo riferimento. Il riciclo, infatti, sta a metà della classifica, ovvero è solo un anello di una catena che a esso preferisce il riuso e la prevenzione. Ne è una prova evidente la plastica. “Le aziende del monouso promuovono, insieme a quelle delle fonti fossili, il riciclo come soluzione nonostante i suoi evidenti limiti – si legge – A livello globale, solo il 9% di tutti i rifiuti di plastica prodotti fino al 2015 è stato riciclato. Uno studio ha stimato che meno dell’1% della plastica è stato riciclato più di una volta. Di conseguenza, la maggior parte degli imballaggi in plastica è stata sottoposta a processi di “downcycling”, ovvero riprocessata per produrre prodotti di qualità inferiore, smaltita in discariche, in inceneritori o dispersa nell’ambiente”.
Vale a dire nuova produzione e nuove emissioni. In sostanza monouso e fossili promuovono il riciclo come arma di distrazione, anzi per meglio dire di greenwashing, per poter continuare a operare secondo il business as as usual, giusto con una spruzzata di verde in più. D’altra parte “la produzione di plastica non è distribuita in modo uniforme su scala globale. Attualmente l’Asia, il Nord America e l’Europa sono i maggiori produttori; in Asia la Cina è il principale attore, responsabile del 31% della plastica prodotta a livello mondiale”. Diseguaglianze che quasi si specchiano con la mappa delle principali major energetiche. E in questo senso è particolarmente emblematico il caso di Alliance of End Plastic Waste, un’organizzazione internazionale nata nel 2019 “e di cui fanno parte aziende dei combustibili fossili e alcune di quelle che basano il loro business sul massiccio impiego di imballaggi monouso come PepsiCo e Procter & Gamble. Tale organizzazione si propone di migliorare le infrastrutture destinate al riciclo e sviluppare il riciclo chimico – conclude il report – ma ad oggi non ha annunciato alcun risultato di rilievo”.
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Spezzare le connessioni della plastica fossile
Che fare dunque, per spezzare questa perversa connessione? Secondo la ong ambientalista bisogna agire su più fronti. “L’industria dei combustibili fossili non può continuare ad aumentare la produzione petrolchimica per produrre plastica – si apprende – Allo stesso tempo le aziende che impiegano grandi quantità di imballaggi monouso devono abbandonare rapidamente la plastica monouso e investire in sistemi basati sul riutilizzo e sullo sfuso, altrimenti permetteranno all’industria dei combustibili fossili di perpetuare il loro business nascondendosi dietro una falsa soluzione come il riciclo. Il modello economico lineare basato sull’usa e getta deve essere abbandonato a favore di un modello circolare che disaccoppi la crescita economica dal crescente consumo di risorse non rinnovabili e che, inevitabilmente, produce grandi quantità di rifiuti. Il ricorso al riutilizzo è fondamentale per realizzare una vera economia circolare, ricorrendo al riciclo solo quando gli imballaggi riutilizzabili hanno esaurito il loro ciclo di vita”.
I governi, poi, non devono stare a guardare le multinazionali e, peggio, subire le loro azioni di lobbyng ma devono “incoraggiarle, assisterle e, ove necessario, imporre i cambiamenti necessari”. Per farlo, secondo Greenpeace, una delle strade potrebbe essere la definizione di “un ambizioso Trattato globale sulla plastica”, in modo da sancire obiettivi di riuso molto più ambiziosi e poter così “passare a un’economia a rifiuti zero che riduca la produzione di rifiuti a monte e garantisca una reale transizione ecologica, equa e sostenibile anche per i lavoratori”.
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