di Costanza Piciollo e Monia Torre, IRPPS – CNR
Chissà se la notizia che ormai la soglia di 1,5° indicata dagli accordi di Parigi è ormai ad un passo farà ritrattare chi ha definito storico l’accordo raggiunto alla Cop28 di Dubai: l’agenzia climatica europea Copernicus ha intatti dichiarato che il 2023 è stato di 1,48 gradi Celsius al di sopra rispetto alle temperature dell’epoca preindustriale. Mentre si pensa ai preparativi per la Cop29 in Azerbaijan, curiosamente altro Paese tra i grandi produttori di combustibili fossili, è utile ricordare che il dibattito sulle fonti energetiche non è stato l’unico a popolare la Conferenza delle parti di Dubai. Una serrata azione di advocacy ha riguardato, tra gli altri, il settore della moda e del tessile. Tra i protagonisti il movimento attivista Fashion Revolution si è rivolto a responsabili politici e marchi di moda perché garantiscano regolamenti vincolanti e trasparenza delle informazioni su ambiente e diritti per le aziende. Un impegno che è stato ulteriormente chiarito in una lettera aperta firmata dalla responsabile alle policy e ricerca della stessa organizzazione, Liv Simpliciano, che ha criticato la mancanza di impegni finanziari dei principali marchi di moda per decarbonizzare le catene di approvvigionamento, così come la tendenza della moda a usare la COP e altre piattaforme per delineare impegni “patinati” che si protraggono oltre i tempi previsti e sul cui raggiungimento non si offre una comunicazione trasparente. Come sintetizza, “non abbiamo bisogno di più impegni, abbiamo bisogno di più progressi”.
L’impatto dell’industria della moda sul cambiamento climatico
D’altra parte, le evidenze sull’impatto ambientale e climatico del mondo della moda sono ormai ampiamente condivise e diffuse anche nel dibattito pubblico (come EcomomiaCircolare.com ha raccontato in diversi articoli e coi due Quaderni sul tessile). Si calcola che la sola industria della moda sia responsabile del 10% delle emissioni globali di carbonio, del 20% dell’inquinamento globale dell’acqua potabile causato dalle operazioni di tintura e finitura, e del 35% di rilascio di microplastiche nell’ambiente per il lavaggio di capi sintetici. Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, gli acquisti di prodotti tessili nell’Unione Europea nel 2020 hanno generato circa 270 kg di emissioni di CO2 per persona. Ogni anno nel mondo, dei 14 milioni di tonnellate di abiti e tessuti scartati e buttati via, solo il 16% viene riciclato, il resto finisce negli inceneritori o nelle ormai tristemente note discariche mondiali nel Sud Globale, come quelle nel deserto di Atacama (Chile) e nella spiaggia di Korle-Gonno (Ghana), dove ogni settimana arrivano circa 15 milioni di vestiti dai Paesi occidentali.
Il mercato dell’abbigliamento usato è ormai saturo sia in Europa e negli USA, sia nei Paesi di Africa, Asia e America Latina. In questi Paesi, gli assetti politico-economici hanno favorito nel corso degli ultimi decenni l’arrivo degli scarti tessili provenienti dal resto del mondo attraverso un sistema di importazioni prive di imposte. Dopo un breve periodo di benefici economici legati al mercato dell’usato, il meccanismo ha raggiunto la saturazione, provocando reazioni a cascata che acuiscono le disuguaglianze globali: i rifiuti tessili accumulati nelle condutture aumentano il rischio di inondazioni e malattie infettive come la malaria, le piccole imprese familiari di abiti tradizionali devono affrontare il crollo dei prezzi dovuto alla massiccia presenza di capi “regalati” dai Paesi occidentali, per citarne solo alcune.
D’altra parte, come ricorda la stessa lettera di Fashion Revolution, quello della moda e del tessile è anche uno dei comparti tra i più ricchi e diseguali al mondo. I costi sociali nascosti dietro l’industria che occupa più di 300 milioni di persone, di cui 74 mila bambini, sono altissimi. La produzione si concentra in Paesi in via di sviluppo come Cina, Bangladesh, Vietnam e Cambogia, a spese dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici del tessile, che spesso operano in pessime condizioni. Turni di 12-15 ore al giorno senza riposi settimanali, per un salario medio bassissimo. È recente la notizia della chiusura di centinaia di fabbriche di abbigliamento in Bangladesh in seguito alle violente proteste di migliaia di lavoratori dell’industria tessile, duramente represse, che hanno causato la morte di due persone. Dieci anni dopo la tragedia del Rana Plaza (la fabbrica tessile crollata a Dhaka nel 2013, uccidendo più di 1.100 lavoratori) i salari e la sicurezza sono stati migliorati e il settore si è ampiamente sindacalizzato. D’altra parte, il settore tessile, in cui la maggioranza della forza lavoro è femminile, è uno di quelli maggiormente colpiti dalla discriminazione di genere e violenze sul posto di lavoro.
Leggi anche: “Abbiamo abiti per 6 generazioni: ecco perché un sistema EPR è urgente”. A Ecomondo il nuovo Quaderno sul tessile
La transizione giusta
L’accordo siglato a Dubai parla di “abbandonare le fonti fossili nei sistemi energetici in modo giusto, equo e ordinato”, come anticipava Simpliciano nella sua lettera aperta per Fashion Revolution, il progetto è quello di “un’equa eliminazione graduale di carbone, petrolio e gas e gettare le basi per una vera transizione energetica giusta in cui nessun lavoratore, comunità o Paese venga lasciato indietro”.
Di transizione equa e giusta si parla d’altronde da diversi anni, dai consiglieri scientifici dell’Unione Europea al Just Transition Mechanism promosso dalla Commissione, che afferma che “per avere successo e essere socialmente accettabile per tutti, la transizione deve essere equa e inclusiva”. Ma come è possibile dare forma a questo tipo di processo se, ad oggi, la situazione che modella la transizione energetica è caratterizzata da disuguaglianze?
Parte da questa domanda il progetto di ricerca europeo gEneSys – Transforming Gendered Interrelations of Power and Inequalities in Transition Pathways to Sustainable Energy Systems iniziato a febbraio 2023 e coordinato dall’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali (Irpps) del Cnr. Il progetto gEneSys indaga la dimensione di genere nei 4 principali sottosistemi che compongono il processo della transizione ecologica: socio-ambientale, politico, economico e tecnologico.
Non è un caso che una delle prime azioni di engagement e comunicazione realizzata dal progetto gEneSys abbia riguardato proprio il settore della moda, con il laboratorio “Decide your print – Che stile dai al mondo in transizione?“, proposto nell’ambito del Festival della Scienza di Genova 2023. Il laboratorio ha coinvolto studenti e studentesse delle scuole secondarie di II grado nell’elaborazione e discussione di soluzioni possibili per un modello di produzione e consumo diversi sia a livello locale che globale nell’ambito del fast fashion.
Il fenomeno del fast fashion va a esacerbare tutti gli impatti ambientali e sociali del mondo della moda. Si tratta, come i lettori di EconomiaCircolare.com sanno bene, di un modello di produzione e consumo lineare – in cui le materie prime vengono estratte o raccolte, quindi trasformate in prodotti che vengono utilizzati per breve tempo e poi vengono gettati come rifiuti – e si basa sulla rapida immissione sul mercato di capi di abbigliamento con prezzi bassissimi ottenuti dal risparmio in ogni segmento produttivo (dal lavoro agli imballaggi). Negli ultimi vent’anni, i marchi si sono moltiplicati e la produzione di capi di abbigliamento è cresciuta più della popolazione mondiale, passando tra il 1975 e il 2018 da 6 a 13 kg di vestiti a persona, come emerge dal resoconto del Parlamento europeo. Mentre la produzione e consumo raddoppiano, diminuisce l’utilizzo (del 36% tra il 2000 e il 2015): si comprano sempre più vestiti che costano sempre meno e spesso restano nei nostri armadi anche molto meno tempo.
Leggi anche: Tessile, ZWE: per centrare target climatici serve obiettivo vincolante di riduzione rifiuti
Il fast fashion e le scelte di sostenibilità
Il caso del fast fashion è stato utile per coinvolgere un pubblico giovane su un tema ampio come la sostenibilità ma ha permesso soprattutto di rendere tangibile la complessità delle scelte che riguardano la transizione ecologica.
Come in molti altri ambiti della sostenibilità, alle scelte politiche, economiche e tecnologiche si intreccia il livello di scelta individuale di consumo. Scelte che non necessariamente rispecchiano in modo coerente i principi e i valori dei soggetti. Un rapporto di Zalando del 2021 ha rilevato una disconnessione tra le intenzioni dei consumatori nei confronti della sostenibilità e le loro azioni. Mentre il 44% dei partecipanti ritiene che le scelte sostenibili in altri ambiti della vita compensino scelte di moda meno sostenibili, il 56% è disposto a fare alcuni sacrifici per essere più sostenibile ma potrebbe non voler cambiare completamente le proprie abitudini di acquisto. Il fast fashion è un argomento stratificato che tocca diversi fattori personali e sociali, dalle convinzioni e valori allo status socioeconomico, dall’accesso alle opzioni di abbigliamento sostenibile alla vicinanza a chi lavora nell’ambito dell’abbigliamento. Ognuno di questi strati può portare a dibattiti polarizzanti. Se, come ne scriveva qualche tempo fa The sustainable fashion forum, questi aspetti caratterizzano il dibattito sui social, non ne sono state esenti le posizioni emerse dai e dalle giovani partecipanti al laboratorio Decide your print.
Durante il laboratorio, alle classi sono state rivolte domande orientate a comprendere la conoscenza, le attitudini e i comportamenti rispetto all’abbigliamento. Sebbene sia emersa una consapevolezza generale sull’argomento, non sempre questa è accompagnata dall’intenzione di modificare abitudini d’acquisto poco sostenibili. Dopo aver analizzato la questione in quattro diversi tavoli (socio-ambientale, politico, economico e tecnologico), con la guida di ricercatori e ricercatrici Irpps e con il supporto di spunti legati alle diverse tematiche, si è discusso sulla fattibilità e sostenibilità delle proposte presentate da ogni gruppo con l’obiettivo di aumentare la consapevolezza sulla complessità del tema. Le proposte condivise si sono mosse tra la necessità di sensibilizzare i consumatori e facilitare scelte consapevoli (un esempio che permette di tenere traccia del rispetto dei diritti di chi lavora nella produzione tessile è https://fashionchecker.org/it/) e il livello macro in cui si è guardato alle iniziative promosse a livello europeo sui sistemi di etichettatura – come l’Ecolabel a cui le aziende aderiscono tuttavia in forma volontaria – fino alle difficoltà di ordine tecnologico nelle operazioni di separazione di tessuti che mescolano più fibre naturali e sintetiche.
Un’industria più sostenibile per ambiente e società
A livello più ampio, nonostante ci siano diversi segnali positivi – come l’aumento del numero di aziende che aderiscono al target emissioni zero entro il 2050 e l’aumento dell’uso di materiali sostenibili – sono ancora molti i progressi da fare per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità nel settore tessile.
Durante la prima giornata della Conferenza, un’altra organizzazione no-profit, Global fashion agenda, ha rilasciato il Global fashion agenda monitor, un documento che partendo dall’analisi dei dati sui target di sostenibilità di 900 industrie in 90 Paesi diversi, si propone l’ambizioso obbiettivo di guidare le aziende della moda verso un’industria più sostenibile per ambiente e società. Solo metà di brand e manifatture intervistate dichiara di lavorare a modelli di approvvigionamento meno estrattivi e adottare soluzioni rigenerative per ridurre l’impatto sul territorio e proteggere la biodiversità.
È molto più alta invece la percentuale di organizzazioni che dichiara di lavorare e monitorare l’eliminazione di sostanze chimiche pericolose e ridimensionare la gestione sostenibile delle sostanze chimiche per ridurre al minimo i rischi per l’acqua, il territorio e le persone. Simile la situazione per quanto riguarda gli obiettivi sociali di sostenibilità. Mentre l’88% degli intervistati ha affermato di aver fissato obiettivi per adottare pratiche di acquisto responsabili finalizzate alla salute e la sicurezza sul posto di lavoro, solo il 63% ha confermato di misurare i progressi rispetto a questi obiettivi, nonostante il sostegno espresso da marchi e fornitori in questo senso. Solo il 57% delle organizzazioni dichiara di lavorare sul target dell’inclusione, percentuale che scende al 30% quando si chiede se siano state pubblicate policy per regolamentare l’homeworking. Tale modalità riguarda circa la metà della produzione (per le fasi di taglio, cucitura dei bottoni e ricamo o fornendo manodopera flessibile aggiuntiva) in particolare nel Sud asiatico, aiutando i fornitori a gestire i picchi e le flessioni della domanda che si verificano con la fast fashion in particolare. Se da una parte favorisce la partecipazione delle donne nel mercato del lavoro, dall’altra è caratterizzata dalla mancanza di garanzie, indennità e previdenza sociale.
Ma non è solo il mondo no-profit a guardare con attenzione ai negoziati sul clima. Pochi giorni prima della Cop28, discussioni simili erano in corso al Parlamento europeo, dove figure chiave del settore della moda europeo si sono riunite per l’evento “Fashion scapes of Transformation”, discutendo del ruolo della moda nell’adempimento dell’Accordo di Parigi, così come della necessità di eliminare gradualmente i combustibili fossili dalle diverse fasi della filiera del fashion. I e le partecipanti hanno espresso soddisfazione per l’attenzione che l’UE ha riservato negli anni alla questione: dalla Strategia dell’UE per prodotti tessili sostenibili e circolari del 2022 (che dichiara di volere che “i consumatori europei beneficino più a lungo di prodotti tessili di elevata qualità a prezzi accessibili” anche se per ora non ha ancora un piano attuativo nelle politiche a livello nazionale) fino alla revisione della direttiva quadro sui rifiuti, presentata dalla Commissione a luglio scorso, che intende estendere al produttore la responsabilità dello smaltimento dei rifiuti tessili (qui info sulla responsabilità estesa del produttore in Italia: https://economiacircolare.com/epr-tessili/).
Leggi anche lo speciale EPR per i rifiuti tessili
Guardare la complessità
Come avviene per i consumi alimentari ed energetici, anche in ambito tessile sono pochi i soggetti che ottengono grandi benefici economici dal sistema del fast fashion, mentre sono innumerevoli i soggetti che ne pagano enormi costi. Già qualche anno fa l’UNECE, United Nations Economic Commission for Europe, dichiarava che il fast fashion è un’emergenza sociale e ambientale, ma ha il potenziale di cambiare rotta verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile. La proposta dei laboratori Decide your Print, e del progetto europeo gEneSys, è quella di guidare tali trasformazioni adottando una visione sistemica che tenga in considerazione le dimensioni economiche, sociali, tecnologiche e ambientali della produzione e consumo globale.
Indicatori condivisi per il monitoraggio, trasparenza e aggiornamento dei dati delle aziende (per esempio, sui volumi di produzione annuali) e il coinvolgimento nelle scelte degli attori che operano nelle catene di approvvigionamento sono necessari per implementare una governance efficace, così come lo è favorire scelte consapevoli per i consumatori e agevolare acquisti e comportamenti sostenibili. Questo è possibile solo verrà adottata una visione sistemica che integri tutti gli aspetti interconnessi legati alle pratiche del fashion e alla produzione globale dei tessuti.
© Riproduzione riservata