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sabato, Novembre 30, 2024

I green jobs nel report di LinkedIn. “Molta domanda ma mancano le competenze”

Ricerche e studi mettono a confronto i green jobs con il “lavoro dignitoso”: si conferma un generale aumento della richiesta. Secondo LinkedIn i profili qualificati sono merce rara e la domanda non riesce ad essere coperta. Ma resta il tema delle condizioni di lavoro da tutelare, anche nel mercato verde

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Redazione EconomiaCircolare.com

Negli ultimi anni c’è stato un radicale cambio di tendenza nel mondo delle imprese, in relazione alle competenze richieste per un mercato del lavoro che ha bisogno di figure sempre più green.

Le competenze su sostenibilità ed economia circolare, sono figlie di un cambio di paradigma certamente positivo che sta pian piano diventando premiante per le aziende che si dotano di figure e procedure in grado di far migliorare le condizioni di lavoro al loro interno.

La capacità di ridurre gli impatti ambientali e migliorare i modelli di produzione, rendendoli più efficienti e compatibili con una crescita sostenibile, necessitano di figure manageriali in grado di gestire, favorire e amministrare questi processi.

Da qui l’allarme lanciato da LinkedIn, il noto sociale dedicato al lavoro: una maggiore richiesta di competenze manageriali e non solo, in ambito di sostenibilità, non riesce a essere soddisfatta dal mercato che si trova a corto di figure qualificate.

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Un divario di lavoro verde che va colmato. Ma come?

La piattaforma di networking ha recentemente pubblicato il suo ultimo Green Skills Report, confermando che la richiesta di professionisti nel settore green, si scontra con una mancanza di risorse umane: la domanda di dirigenti con competenze di sostenibilità continua a superare l’offerta.

Il rapporto si basa sui dati di reclutamento provenienti da tutto il mondo, gestiti direttamente da LinkedIn. Nel report si legge che la quota di posti di lavoro che richiedono competenze verdi è aumentata dal 9,6% nel 2015 al 13,3% nel 2021. Le motivazioni sono chiare e riconducibili a nuove strategie aziendali, sempre più propense a produzioni ad impatto zero e a logiche di macketing green divenuto premiante.

Il rischio greenwashing è dietro l’angolo, ma i numeri parlano chiaro: i tassi di assunzione per lavori verdi hanno continuato ad accelerare parallelamente all’adozione di strategie aziendali net zero. Dal 2015 c’è stata una crescita del 40% nelle competenze verdi, ma solo il 13% di questa forza lavoro possiede le competenze necessarie per supportare una transizione verde significativa.

Sue Duke, responsabile delle politiche pubbliche globali di LinkedIn, ha avvertito che la carenza di competenze in materia di sostenibilità potrebbe mettere a repentaglio gli sforzi delle aziende per raggiungere i propri obiettivi climatici. “La crescita sostenuta dei lavori verdi è davvero una grande notizia, in particolare per le persone in cerca di lavoro – ha aggiunto Duke – I dati di LinkedIn mostrano chiaramente che mentre c’è una forte domanda di talenti con competenze ecologiche, le persone non stanno sviluppando competenze ecologiche a un ritmo abbastanza veloce da raggiungere gli obiettivi climatici”.

Ma la soluzione non può essere delegata alla sola volontà e all’attività dei singoli che vogliono entrare in questo mercato, la necessità di un cambio strutturale che passi da imprese e istituzioni è ciò che auspica Duke. “C’è un’opportunità per tutti di contribuire a ribaltare la situazione. I governi devono sostenere l’agenda delle competenze verdi e le imprese possono e devono fare di più per dotare i propri dipendenti delle competenze necessarie”.

Nella classifica del portale, tra i Paesi virtuosi per competenze verdi rispetto a domanda e offerta, ci sono Stati Uniti, Regno Unito ed Emirati Arabi Uniti che ottengono buoni risultati. Al contrario, una controtendenza dovuta per lo più a differenti sistemi produttivi e quindi alla richiesta di competenze green, vede Paesi come la Cina ridurre di anno in anno i tassi di assunzioni in campo sostenibile e circolare: il calo si registra dal 2016.

LinkedIn ha affermato che mira ad aiutare a colmare il divario di competenze verdi con il lancio di un nuovo Sustainability Resource Hub, progettato per supportare le aziende e le persone in cerca di lavoro nello sviluppo delle proprie competenze di sostenibilità.

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Il lavoro verde deve essere dignitoso

Le indicazioni sulle nuove opportunità non arrivano sono da LinkedIn. Che la transizione verso un’economia circolare potrebbe portare alla creazione di milioni di nuovi posti di lavoro, viene confermato da un altro studio portato a termine dall’Organizzazione internazionale del lavoro, dal programma Solutions for Youth Employment (S4YE) della Banca mondiale e da Circle Economy, un’organizzazione non governativa che promuove lo sviluppo sostenibile e l’economia circolare.

La stima parla di almeno sette-otto milioni di nuovi posti di lavoro che potrebbero essere creati nell’economia circolare partendo proprio dal lavoro sui rifiuti: vestiti, rottami metallici, elettronica obsoleta… Ma lo studio mette in guardia dalla necessità di controllare quello che accade nei singoli Stati, a proposito delle condizioni di lavoro messe in campo.

Il concetto è chiaro: l’aumento delle opportunità di impiego non può andare a discapito di un lavoro regolare, dignitoso e in totale sicurezza. Politiche sempre più vicine alla riduzione dell’impatto sull’ambiente, devono camminare di pari passo con lo sviluppo di economie locali e la tutela di alcune fasce di lavoratori e lavoratrice.

Un complicato nodo da sciogliere è quello della concentrazione di questi lavori nel Nord del mondo, come si legge nel rapporto Decent Work in the Circular Economy: An Overview of the Existing Evidence Base. I parametri usati dalla ricerca, e quindi i risultati della studio, combinano il cosiddetto lavoro dignitoso – orari, tutele e garanzie per i lavoratori – con l’economia circolare e le opportunità lavorative. Questi parametri raccontano di un mondo a due velocità: la concentrazione di questi lavori (con il doppio binario opportunità e lavoro dignitoso) nei Paesi più ricchi è pari all’84% del totale. L’Africa subsahariana, l’Europa orientale, il Medio Oriente e il Nord Africa sono le regioni meno rappresentate e rientranti in questo 16% rimanente.

Alette van Leur, direttore del dipartimento per le politiche settoriali dell’ILO, commenta i dati affermando che “non c’è dubbio che un’economia circolare può aiutarci a raggiungere i nostri obiettivi climatici. Tuttavia, i legami tra circolarità e realizzazione di progresso sociale ed economico rimangono trascurati”.

Il rapporto chiede una ricerca più approfondita sul lavoro dignitoso e l’economia circolare. Bisogna concentrarsi in particolar modo sul Sud del mondo, sui lavoratori informali, sulla qualità dei posti di lavoro e sulle catene di approvvigionamento. Sono inoltre necessarie attività di advocacy congiunta con l’incrocio e lo studio dei diversi dati in nostro possesso per colmare lacune di conoscenza sulle diverse situazioni lavorative.

È sempre il rapporto a rilevare che solo una manciata di studi ha esaminato se, e come, un’economia circolare può alleviare la povertà e avvantaggiare le comunità vulnerabili nei paesi a basso reddito. “Non è tanto il concetto di circolarità che ha bisogno di essere introdotto in queste economie – ha affermato Namita Datta, program manager per il programma Solutions for Youth Employment Program (S4YE) della Banca mondiale – ma piuttosto l’attenzione dovrebbe essere posta sull’affrontare i lavori di bassa qualità e poco retribuiti nel settore informale con condizioni di lavoro pericolose e l’esposizione a materiali tossici che sono associati con attività circolari come la gestione dei rifiuti, il riciclaggio, la riparazione e il riutilizzo“.

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