“Guida ai 4 minerali che modellano il futuro energetico del mondo”: con questo titolo il portale Grist, un’organizzazione mediatica indipendente e senza scopo di lucro che dal 1999 si occupa di cambiamenti climatici, ha recentemente pubblicato un interessante approfondimento sulle principali materie prime critiche che sono già adesso, e lo saranno ancor di più nel prossimo futuro, cruciali per i destini globali.
Prendete adesso una pausa e provate a indovinarli. Se leggete spesso EconomiaCircolare.com non dovreste avere particolari problemi. Eccoli qui i 4 minerali del futuro: litio, cobalto, nichel e terre rare. Come potete facilmente immaginare, nell’elenco di Grist c’è un trucco, nel senso che i minerali in teoria sono ben più di 4, dato che le terre rare comprendono 17 metalli della tavola periodica dai nomi un po’ astrusi: scandio, ittrio e i 15 lantanoidi ovvero, nell’ordine della tavola periodica, lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio e lutezio. Tuttavia per convenzione il gruppo delle terre rare viene indicato come un insieme unico, per cui diamo per buona la classificazione di Grist.
Quel che è importante analizzare è l’impatto ambientale e l’economia che da soli questi 4 minerali sono e saranno in grado di generare. “In un’ambiziosa transizione energetica – scrive Grist – la domanda globale per loro quadruplicherà entro il 2040, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia. Ciò significa scavare vaste nuove miniere a cielo aperto, costruire nuove potenti raffinerie per distillare il minerale grezzo e aprire nuove fabbriche per produrre batterie e turbine. Proprio come il XX secolo è stato definito dalla geografia del petrolio, il XXI secolo potrebbe essere definito dalla nuova geografia del metallo, in particolare dalle linee di approvvigionamento industriali che spesso fluiscono dal mondo in via di sviluppo al mondo sviluppato e viceversa”.
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Gli appetiti di Trump sui minerali del futuro
“Con 40 giornalisti sparsi in quasi 20 Stati degli Stati Uniti, Grist è la più grande e più esperta redazione di energia e clima nel Paese” si legge nel portale. Se da una parte l’approccio di Grist al cambiamento climatico è globale (“dai prezzi del cibo alla salute e al benessere delle persone”, come scrive la stessa redazione), dall’altra la “guida ai 4 minerali del futuro” risente inevitabilmente di un approccio usa-centrico. Che però è utile da guardare perché, come è noto, le politiche statunitensi influenzano quelle europee, ancor di più con Trump al potere, come abbiamo visto con la vicenda dei dazi.

Da quando Donald Trump si è insediato alla guida degli Stati Uniti nel novembre 2024 molti suoi provvedimenti hanno riguardato proprio i 4 minerali del futuro: dalla volontà di annessione della Groenlandia all’accordo sulle terre rare imposto all’Ucraina. Ma c’è di più. Come fa notare Grist già nel suo primo giorno di carica Trump “ha firmato due ordini esecutivi separati che hanno menzionato i cosiddetti minerali critici, dicendo che il Paese li stava estraendo a un ritmo troppo inadeguato per soddisfare i bisogni della nostra nazione. Da allora ha cercato di accelerare le autorizzazioni per i progetti minerari nazionali, mentre allo stesso tempo cercava all’estero ulteriori forniture. Sebbene Trump stia facendo ogni passo che può ostacolare lo sviluppo delle energie rinnovabili, la sua fissazione su queste risorse riflette una realtà innegabile: la crescente necessità mondiale di minerali critici ha enormi implicazioni per la geopolitica, così come per il clima e la politica ambientale”.
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La prospettiva USA sui minerali del futuro
Sul litio l’interesse statunitense, specie dopo l’addio furioso e polemico di Elon Musk al governo Trump, sembra venire meno, almeno in teoria. Se puntassero sulla cooperazione, in realtà, gli Stati Uniti non sarebbero messi male: da una parte infatti il più grande produttore mondiale di litio, che rappresenta circa il 50% dell’offerta globale, è l’Australia, Paese col quale gli Stati Uniti sono in buoni rapporti; dall’altra nel triangolo del litio – Argentina, Bolivia e Cile – è detenuta “oltre la metà delle riserve di litio comprovate del mondo”, scrive Grist. Ed è noto che gli Stati Uniti considerano l’America Latina il proprio giardino. Eppure con Trump al governo tutto è evanescente, motivo per cui “le ambizioni degli Stati Uniti di creare la propria catena di approvvigionamento di litio riposano in larga misura su un remoto deserto nel nord del Nevada”.
Ancor peggio, per gli Stati Uniti, è la situazione del cobalto. Attualmente soltanto la Repubblica Democratica del Congo detiene oltre l’80% delle riserve mondiali di cobalto, e in Africa è la Cina a giocarla da padrona, mentre gli Stati Uniti storicamente hanno una debole presenza nel continene africano. “La Cina – ricorda Grist – possiede o è uno dei principali soggetti interessati nella stragrande maggioranza delle infrastrutture minerarie del Paese, che è cresciuta rapidamente negli ultimi anni”. Questo è il motivo per cui gli Stati Uniti stanno puntando sul deep sea mining, cioè l’estrazione mineraria dalle acque profonde, e in particolare nella zona di Clarion-Clipperton, un ampio tratto dell’Oceano Pacifico tra le Hawaii e il Messico,che contiene quelle che sono forse le riserve di cobalto più importanti del mondo. Ma in questo caso, come abbiamo raccontato, la vicenda è ancora lontana da una soluzione: nonostante le forzature del governo Trump e dell’azienda The Metals Company, infatti, finora il multilateralismo ha resistito, e manca ancora un regolamento globale sulle acque internazionali.
Per quel che riguarda il nickel, fa notare Grist che “le forniture del metallo sono molto più distribuite in tutto il mondo rispetto al litio e al cobalto”. Quattro sono soprattutto i Paesi detentori delle maggiori quantità di nichel: Brasile, Russia, Indonesia e Australia. Si tratta di Paesi coi quali gli Stati Uniti hanno rapporti ondivaghi, mentre all’interno dei confini nazionali, sostiene Grist, non sembrano esserci particolari giacimenti. Un ulteriore motivo per cui gli Stati Uniti farebbero meglio a puntare sulla cooperazione, invece che insistere con le politiche aggressive ed espansionistiche portate avanti da Donald Trump.
La rappresentazione più evidente di questa teoria, d’altra parte, giunge proprio dalle terre rare, l’ultimo dei 4 minerali del futuro. Se è noto che oltre la metà della produzione globale è concentrata in Cina, meno noto, come riporta Grist, è che “gli altri Paesi che hanno enormi riserve di minerali devono ancora estrarne gran parte”: è il caso ad esempio del Vietnam e, guarda un po’, proprio di quella Groenlandia sulla quale fino a qualche tempo fa Trump voleva mettere le grinfie.

La conclusione di Grist è che gli Stati Uniti dovrebbero guardare all’economia circolare. “Lo sforzo più promettente per rendere gli Stati Uniti competitivi nella catena di approvvigionamento dei minerali potrebbe non essere una miniera, o una raffineria, o una fabbrica, ma un impianto di riciclaggio” scrive il portale di informazione su energia e clima. E la conclusione è ironicamente amara. “I Paesi ricchi come gli Stati Uniti e la Germania hanno fatto del loro meglio per mantenere i posti di lavoro in ambito energetico ma ora si affidano ai Paesi in via di sviluppo per i minerali che forniscono i loro settori produttivi”.
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