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venerdì, Dicembre 20, 2024

La grande corsa all’idrogeno delle imprese italiane

Le aziende italiane a partecipazione statale puntano sul vettore energetico. Solo Enel, però, sembra privilegiare con convinzione l’idrogeno verde, proveniente da fonti rinnovabili. Intanto il progetto del governo di riconvertire l’Ilva a idrogeno è rinviato a data da destinarsi

Andrea Turco
Andrea Turco
Giornalista freelance. Ha collaborato per anni con diverse testate giornalistiche siciliane - I Quaderni de L’Ora, radio100passi, Palermo Repubblica, MeridioNews - e nazionali. Nel 2014 ha pubblicato il libro inchiesta “Fate il loro gioco, la Sicilia dell’azzardo” e nel 2018 l'ibrido narrativo “La città a sei zampe”, che racconta la chiusura della raffineria di Gela da parte dell’Eni. Si occupa prevalentemente di ambiente e temi sociali.

Ai tempi di Enrico Mattei, quando l’Eni e l’Italia fecero scalpore in tutto il mondo per un’idea innovativa di energia, si parlava delle cosiddette “sette sorelle”. Si trattava delle maggiori compagnie petrolifere mondiali – Exxon (ora ExxonMobil), Mobil (ora ExxonMobil), Chevron, Gulf Oil (ora Chevron), Texaco (ora Chevron), BP e Shell – che costituivano il cartello di interessi dell’economia lineare e di uno dei suoi modelli di produzione più noti (e nocivi), ovvero quello delle fonti fossili. Ora, a proposito di idrogeno, si torna a parlare di sette sorelle. E tra queste, per la prima volta, c’è anche un’azienda italiana. Il progetto “Green hydrogen catapult” vede infatti la costituzione di un gruppo di aziende leader nei settori dell’energia, delle infrastrutture e della chimica, che intende aumentare fino a 50 volte lo sviluppo di progetti nella tecnologia dell’idrogeno senza emissioni di CO2. Tra queste c’è anche la nostra Snam, attiva nel settore delle infrastrutture per il trasporto del gas in Europa. Il suo ad Marco Alverà non fa mistero che l’azienda è all’inizio di una nuova fase della sua storia, al punto da aver acquisito il il 33% della milanese De Nora per accaparrarsi la leadership tecnologica negli elettrodi utilizzati per produrre idrogeno tramite l’elettrolisi dell’acqua.

“Non dobbiamo pensare che l’idrogeno sia di colpo la soluzione a tutto – ha dichiarato però Alverà al talk dell’associazione Merita – Penso ad esempio alla definizione di elevati standard di sicurezza, ancora tutti da definire specie per quanto riguarda l’idrogeno verde e quello blu. Bisogna prendere l’abitudine a maneggiare l’idrogeno prima di poterlo immaginare su larga scala”.

Semaforo verde solo per Enel

Eni, Snam, Italgas, Terna ed Enel: sono tante le grandi aziende di casa nostra interessate a partecipare alla corsa all’idrogeno ormai partita da tempi in Europa e non solo. Nonostante i proclami di unità, ciascuna però sembra giocare una propria partita. La vera chiave, infatti, è da individuare nel mix energetico. L’idrogeno, di qualunque colore sia, non sarà certamente la panacea di tutti i mali né tantomeno potrà da solo azzerare gli impatti ambientali delle grandi industrie. Può però contribuire a diversificare le fonti di energia, in modo da ridurre progressivamente l’approvvigionamento di quelle più nocive per l’ambiente, e a ridefinire le priorità del management. All’insegna di uno dei più vecchi quesiti: ricerca e innovazione o profitto immediato? Presente o futuro?

Tra tutte le multinazionali nostrane, quella che più spinge nella direzione dell’idrogeno verde è certamente Enel. Non a caso, visto che per il trienno 2020-2022 la big dell’energia punta al 60% di rinnovabili sulla capacità installata complessiva, a livello globale, con oltre 14 miliardi di euro di investimenti. Più rinnovabili può significare più idrogeno verde, anche se per Enel l’idrogeno è un vettore e non un competitor dell’elettrificazione. Per questo si punta a rendere competitivo prima possibile l’idrogeno da rinnovabili. Recentemente ad esempio Enel Green Power ha firmato un protocollo d’intesa negli Usa con NextChem (gruppo Maire Tecnimont), con l’obiettivo di creare impianti integrati per la produzione di idrogeno tramite elettrolisi: ricorrendo all’energia prodotta da un impianto solare di Enel Green Power, si potrà fornire, a partire dal 2023, idrogeno verde a una bioraffineria.

Quell’inedita alleanza

Ma tra i vari progetti in campo il più importante è quello firmato congiuntamente da Enel ed Eni: è significativo che le due principali aziende energetiche a controllo pubblico, che finora non avevano mai concretamente collaborato, provino a superare le divergenze proprio sull’idrogeno. L’inedita alleanza (d’altro canto in ballo ci sono i fondi del Next Generation Ue destinati all’Italia) vedrà il posizionamento di elettrolizzatori, alimentati da energia rinnovabile fornita da Enel, nelle vicinanze di due raffinerie Eni per fornire ad esse idrogeno verde. Tutto bene? Non proprio. Nella nota con cui si annuncia la collaborazione Francesco Starace, ad di Enel, parla esclusivamente di idrogeno verde. Mentre il suo omologo Eni, Claudio Descalzi, aggiunge anche il blu, ovvero quello prodotto dal metano. Una sfumatura cromatica che però rivela differenze sostanziali negli obiettivi strategici dei due colossi. D’altro canto, fino a pochi giorni prima di questa “alleanza” Starace continuava a ribadire che solo l’opzione verde è “CO2 free”, mentre dal canto suo Descalzi ha sempre fatto pressing nei confronti dell’Europa per ottenere il sostegno anche all’opzione blu dell’idrogeno derivato da steam reforming del metano (la reazione di metano e vapore in presenza di catalizzatori) con successiva cattura e stoccaggio del carbonio emesso. Ma il timore degli analisti è che una volta incentivato con fondi pubblici, l’idrogeno blu – di per sé meno costoso di quello verde – metterebbe fuori mercato l’opzione legata alle ecoenergie mandando in fumo i relativi investimenti, con il risultato che resterebbe in campo soltanto l’opzione legata alle fonti fossili e relativa produzione di CO2 con “promessa di cattura”.

Nel blu dipinto di blu

Il progetto energetico italiano più grande sull’idrogeno ha infatti sei zampe e un cane dalla lingua infuocata. Al largo di Ravenna Eni mira a stoccare, nei campi a gas ormai esauriti del mare Adriatico, l’anidride carbonica catturata dagli insediamenti industriali limitrofi e dalla generazione elettrica da gas. Nelle ipotesi del management, quello ravennate potrebbe addirittura diventare il più grande sito al mondo per la cattura e lo stoccaggio di carbonio, più noto come Ccs (dalla sigla inglese di Carbon capture and storage). Descalzi ne parla da mesi, anche se si è ancora nella fase dello studio di fattibilità e per una prima parziale operatività bisognerebbe comunque attendere il 2025. Pare che l’idea sia quella di sostenere lo sviluppo dell’idrogeno da fonti rinnovabili, per miscelarlo (intorno al 5-10%) al metano o al biometano, formando il cosiddetto gas verde.

Anche Snam, lo abbiamo visto, punta sull’idrogeno blu. E sta valutando di utilizzare il noto e contestato gasdotto Tap, di cui è azionista, per trasportare idrogeno. Quasi contestualmente all’annuncio dell’operatività e dell’avvio delle operazioni commerciali da parte della Trans Adriatic Pipelin, Snam rendeva nota la partenza dello studio di fattibilità per miscelare l’idrogeno con il gas naturale in arrivo dai giacimenti azeri di Shah Deniz fino alla Puglia.

Il piano industriale Italgas, di cui Snam detiene il 13,5%, punta poi sulla Sardegna e sul noto processo di metanizzazione dell’isola. Qui, il progetto pilota Power to gas, sviluppato grazie alla partnership con il Politecnico di Torino e con il Centro Ricerche della Regione, prevede un impianto fotovoltaico di 1 megawatt, in cui attraverso l’elettrolisi verrà prodotto idrogeno, da utilizzare in parte per una miscela con gas naturale e dall’altra in una miscela con l’anidride carbonica, dando vita al cosiddetto metano sintetico, adatto alle utenze domestiche. L’idea è di testare la compatibilità delle reti Snam in modo da avviare, in caso positivo, produzioni su più larga scala.

E l’ex Ilva a idrogeno?

L’industria più emblematica, e problematica, d’Italia è probabilmente l’ex Ilva di Taranto. Negli scorsi giorni è stato firmato l’accordo tra Invitalia, la società per azioni proprietà del ministero dell’Economia, e ArcelorMittal per l’ingresso dello Stato nel capitale sociale di ArcelorMittal Italia. Per il colosso siderurgico il nuovo piano industriale prevede investimenti in tecnologie per la produzione di acciaio a basso utilizzo di carbonio, tra cui la costruzione di un forno ad arco elettrico di 2,5 milioni di tonnellate di acciaio, con l’obiettivo di raggiungere 8 milioni di tonnellate annue entro il 2025.

Sfuma però, almeno nell’immediato, l’ipotesi di vedere l’acciaieria tarantina alimentata a idrogeno, come aveva assicurato il premier Giuseppe Conte il 10 dicembre da Bruxelles, al termine del Consiglio Europeo. “A Taranto ci sarà l’idrogeno – aveva detto Conte :- come ci siamo ripromessi ci sarà il progetto più avanzato e solido di transizione energetica, che ovviamente non si fa dall’oggi al domani. Iniziamo un progetto di riconversione e transizione e in prospettiva porteremo a diventare tutto verde”.

Quanto è lunga però questa prospettiva? Molto, a giudicare dalle parole di Lucia Morselli, ad di Arcelormittal Italia e futura ad della nuova società, che è stata ascoltata il 16 dicembre dalle commissioni riunite Attività produttive e Lavoro della Camera. “L’idrogeno è il futuro di questo settore – ha detto in audizione Morselli – e su questo noi stiamo lavorando, anche prendendo accordi con aziende che sono impegnate in questo ambito. Confermo quindi che l’idrogeno sarà la destinazione finale ma non nei prossimi 4-5 anni”.

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