È difficile trovare qualcuno, oggi, che non abbia mai sentito parlare di greenwashing (tingere o mascherare di verde un prodotto, un servizio o un intero brand). I difensori dell’ambiente sono così onnipresenti che, tra tutti quei “green”, “bio”, “plastic free”, “no palm oil”, “zero emissioni” “eco-sostenibile” e “carbon neutral” che ci rimbombano intorno, il sospetto sorge spontaneo.
L’imperativo di essere “green”
Se in passato, infatti, le aziende potevano scegliere se utilizzare o meno dei green claim (affermazioni “verdi”) nella propria strategia di marketing, oggi si tratta di decidere se farlo o meno in maniera accurata e veritiera. La pratica del greenwashing è così nota e diffusa che, per evitarla, esistono strumenti di ogni sorta: dalle Linee guida dell’Unione europea sulle dichiarazioni ambientali forvianti, fino alla Guide against greenwashing sviluppata da una non-profit norvegese. Senza contare che esistono numerosi standard internazionali, etichette ambientali e disciplinari, a disposizione per una comunicazione ambientale corretta. Il rischio più alto nel fare uso di una pubblicità “verde” ingannevole è che, una volta smascherata, diventi controproducente, minando alla reputazione dello stesso brand che voleva tingersi di “green”.
Leggi anche: Il greenwashing nella finanza sostenibile è sempre più evidente. Come evitarlo?
La classifica delle dichiarazioni ambientali ingannevoli
Eco-Business, un media indipendente con sede a Singapore, ogni anno si prende la briga di stilare una sorta di classifica delle più eclatanti operazioni di greenwashing praticate da diversi attori, specialmente grandi multinazionali. Se nel 2020 ne erano state selezionate otto, il 2021 registra un trend in crescita con undici storie di greenwashing smascherate (11 brands called out for greenwashing in 2021). Tra queste c’è di tutto, da un modello di note scarpe da ginnastica che dichiara con vaghezza di contenere il 50% di materiale riciclato, alla compagnia petrolifera che sostiene di produrre energia pulita. C’è l’azienda mineraria che estrae responsabilmente metalli dal fondo del mare e la marca di cosmetici che confeziona il suo siero per il viso in una boccetta con su scritto “Hello, I’m Paper Bottle”, salvo poi rivelarsi solo un rivestimento intorno alla plastica.
Tutti dicono “plastic free”
In particolare, la corsa contro i materiali monouso derivati da combustibili fossili, accompagnata dallo slogan “plastic free”, ha prodotto diverse aberrazioni, come quella della diffusione dell’acqua in lattina di alluminio, un materiale che si è rivelato più ad alto impatto del suo predecessore. Ma le affermazioni che finiscono nel calderone del greenwashing non sono solo quelle delle aziende. Anche politici e leader di Stato sono spesso alla berlina per dichiarazioni non supportate da fatti, come il monarca dell’Arabia Saudita che ha annunciato di voler piantare 50 miliardi di alberi come parte di un piano per azzerare le emissioni nette di gas serra entro il 2060, anche se – rileva ironicamente Eco-Business – sono stati forniti pochissimi dettagli su come sarà realizzato il più grande programma di riforestazione del mondo in un paese senza neanche un fiume.
Leggi anche: Ecodesign the future, comunicare la sostenibilità evitando il greenwashing si può
Le bugie fanno male all’ambiente
Un’altra forma di greenwashing è quella che tenta di “distrarre” l’attenzione dal proprio operato a danno dell’ambiente, professando un impegno su altri temi sensibili. L’Alliance to End Plastic Waste, per esempio, è un’organizzazione che dichiara di liberare il mare dai rifiuti di plastica, fondata dalle più grandi compagnie petrolifere, e accusata di “pulire” più la coscienza dei suoi fondatori che il mare. Anche se non esistono leggi ad hoc in proposito, il greenwashing non è immune da sanzioni, come è successo in passato in casi eclatanti di “tinteggiatura” dei dati relativi alle emissioni di CO2 di alcune case automobilistiche. Ma il danno più temuto è la sfiducia dei consumatori che mina la credibilità di qualsiasi misura volta a migliorare l’impatto sull’ambiente, anche quando è intrapresa da aziende ben intenzionate e scrupolose. In ultima analisi la vera vittima della cattiva informazione “green” è l’ambiente.
Un packaging riciclabile non fa un prodotto sostenibile
Oggi è difficile per consumatori, aziende e attori del mercato orientarsi e dare senso alle numerose etichette, iniziative “verdi”, dichiarazioni sulle prestazioni ambientali di un prodotto o di un brand. Esistono più di 200 etichette ambientali nell’Unione europea e più di 450 in tutto il mondo. Per non parlare delle metodologie: solo per la contabilizzazione delle emissioni di carbonio si contano più di 80 metodi di reporting utilizzati. Inoltre, se da una parte i consumatori richiedono informazioni semplici e chiare, diventano, dall’altra, sempre più consapevoli e informati, e non si accontentano di vaghe dichiarazioni di “sostenibilità”. Non esistono prodotti che fanno bene all’ambiente. Anche il più innocuo dei nostri consumi, per non dire delle nostre azioni, implica un costo per le risorse del pianeta. Le regole di base per non aumentare la confusione possono ridursi a due: supportare le proprie affermazioni con metodologie e dati scientifici robusti e non limitarsi ad un unico indicatore. Un packaging riciclabile non fa un prodotto sostenibile.
Leggi anche: “Progetti virtuosi e non greenwashing”. A Ecomondo nasce l’Osservatorio tessile
© Riproduzione riservata