Se tra gli scaffali del supermercato notate sempre più prodotti che vantano caratteristiche green, vi sarete forse chiesti se davvero sia aumentata così tanto la sensibilità delle aziende verso l’ambiente o se si tratta solo di informazioni false, diffuse per attirare l’attenzione dei consumatori più attenti. La risposta non è così ovvia, e richiede un passo indietro.
Anche se è indubbio che siano moltissimi i green claim che presentano informazioni incomplete o non corrette, a volte si tratta semplicemente di errori di comunicazione, frutto più di mancanza di conoscenza che della volontà di aggirare chi acquista; ma come arginare questo fenomeno che rischia di indurre in errore anche i consumatori, generando una spirale di confusione e disinformazione?
L’Europa è negli ultimi anni corsa ai ripari con due direttive: la Direttiva sul Greenwashing, detta anche Direttiva Empowering, approvata il 28 febbraio 2024 e oggi in via di recepimento, stringe il cerchio della comunicazione di sostenibilità intorno ad alcuni principi, quella in arrivo sui Green Claim introdurrà invece prescrizioni e strumenti operativi ancora più dettagliati. La nuova norma impone, ad esempio, che alla base delle dichiarazioni verdi debbano esserci delle prove scientifiche, validate e verificate da soggetti terzi indipendenti: si deve inoltre guardare all’intero ciclo di vita del prodotto. Altro aspetto cruciale è poi il fatto che questi elementi devono essere individuati prima di mettere i prodotti sul mercato.
A partire da questi capisaldi si è mosso l’incontro promosso da EconomiaCircolare.com nella scorsa edizione di Ecomondo a Rimini, moderato dal direttore responsabile del magazine Raffaele Lupoli, dal titolo “Green claim e greenwashing: praticare e comunicare la sostenibilità”. Ne riportiamo alcuni passaggi che riteniamo possano essere interessanti per innescare una riflessione sulla corretta comunicazione delle performance ambientali.
Normativa, semplificazione e verifica
Se le direttive europee sembrano disegnare una direzione chiara, dentro le aule del Parlamento le dinamiche sono ben più complesse. Come ha sottolineato nel corso dell’incontro l’europarlamentare Benedetta Scuderi: “c’è una parte del Parlamento che sotto l’aurea della semplificazione sta cercando di spingere per la deregolamentazione: deregolamentazione non vuol dire che facciamo tutti le cose bene ma vuol dire che facciamo tutti quello che vogliamo, e quindi siamo di nuovo al punto di partenza. Perché noi adesso stiamo accompagnando un cambiamento che era già in atto, che viene accelerato con una normativa. Tutte le aziende sono interessate ad essere più sostenibili, più verdi ma cosa vuol dire, affinché questa sostenibilità sia giusta? Qui è intervenuta l’Europa”.
L’europarlamentare ha poi puntato il dito su un assetto normativo certamente utile ma anche eccessivamente complesso: forse, ha suggerito, le due direttive avrebbero potuto essere normate insieme in un’unica misura.
E una traiettoria diversa di questo percorso di contrasto al greenwashing è anche quella immaginata da Enrico Cancila, Presidente sezione EMAS, Comitato Ecolabel Ecoaudit. “Se la Commissione europea avesse creduto da subito e con forza in due strumenti, EMAS ed Ecolabel, adesso sarebbe ad un altro livello. Purtroppo si è un po’ persa nei dedali di altri tipi di certificazione che hanno un po’ allontanato l’obiettivo principale di avere un unico riferimento, che noi tecnici avremmo dovuto produrre a livello nazionale, europeo ed internazionale”.
“L’EMAS – ha aggiunto – è ancora una garanzia di trasparenza, di un dato validato. È uno strumento che potenzialmente potrebbe rimanere all’apice delle certificazioni ma deve dialogare con gli altri: basta schemi autoreferenziali”.
Tra LCA, carboon footpint, impronta ambientale di prodotto (Product Environmental Footprint, PEF), per Cancila a fronte delle tante certificazioni e di una grande competenza tecnica, non siamo stati capaci di trarre il sunto, anche a costa di perdere qualcosa: “se andiamo nelle imprese e nei territori c’è grande spaesamento su quale percorso di sostenibilità intraprendere“.
Per quel che riguarda la carbon footprint, e del percorso normativo che sta interessando questa misurazione, Daniele Pernigotti, amministratore di Aequilibria, sottolinea invece che: “Il tema è che i dati devono essere verificati da parti terze che mi dicono come devo fare la verifica delle informazioni. La cosa interessante di avere queste norme a livello ISO è che l’approccio e la verifica sono gli stessi indipendentemente dal contesto in cui opero, che io faccia la carbon footprint di prodotto o di un’organizzazione, questa verifica viene fatta con le stesse norme ISO. E anche nell’accreditamento c’è un riferimento unico: questo vuol dire che chi accredita un ente di verifica in Corea, usa la stessa norma che userà per controllare il verificatore, che usa la stessa norma per controllare l’azienda”.
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Dalla teoria alla pratica: aziende e consumatori
Presente anche Francesca Chiodaroli, Specialist ambiente ed economia circolare di FederlegnoArredo, che ha riportato il punto di vista di una Federazione nella pratica della corretta comunicazione di sostenibilità. “Da sempre il nostro settore ha fatto del legno il proprio elemento. Il legno è un materiale biologico, deposito naturale di anidride carbonica e certificabile ma non si può dire a prescindere che un prodotto fatto di legno sia di per sé sostenibile, occorre dimostrare l’origine delle materie prime, il rispetto della gestione forestale, l’efficienza energetica nei processi produttivi“.
Noemi De Santis, responsabile comunicazione Junker app, ha invece riportato l’esperienza di classificazione di oltre due milioni di prodotti in base alle regole di smaltimento di tutti i comuni italiani: “quando l’Italia ha recepito la direttiva di pubblicare le informazioni di smaltimento di tutti i packaging di tutti i prodotti di consumi, eravamo in una posizione molto vantaggiosa per dare alle aziende che producono imballaggi dei prodotti di consumo delle informazioni molto dettagliate sotto forma di etichetta digitale”.
“Alla valigia dell’applicazione, – racconta – con EconomiaCircolare.com abbiamo confrontato le etichette fotografate nei supermercati e sei su dieci davano informazioni sbagliate o incomplete”. La confusione tra compostabile e biodegradabile è ad esempio all’ordine del giorno. Questo porta naturalmente anche a dei costi di smaltimento maggiori da parte del Comune.
“Fino a che non è stato obbligatorio dichiararlo, – fa notare De Santis – non ci si poneva neanche il problema di approfondire quello che si diceva. Tutto è biodegradabile: il problema è che può essere compostabile in 3 mesi o in 400 anni”.
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Prima provare, poi comunicare
Simona Treré, Sustainability specialist, ha sottolineato di come spesso il greenwashing sia involontario, specie da parte di piccole o medie imprese che non sono ancora state formate, mentre sulle medie e grandi imprese c’è più consapevolezza ed è più facile che sia fatto volutamente, anche se i rischi di perdere la buona reputazione del proprio brand e di incorrere in sanzioni è ugualmente alto.
Esistono infatti già delle norme che vietano il greenwashing e che possono far sì che un’azienda sia multata, ma cosa cambierà con la Direttiva green claims? “Se oggi si comunica e poi si è sottoposti a controlli – spiega Trerè – con la nuova direttiva bisognerà prima provare quello che si sta dicendo e poi comunicare. Cosa comporterà? Probabilmente il greenhushing: cioè io non parlo più d’ambiente, di sostenibilità così evito di andare a crearmi un danno, o di sbagliare anche non volendo. Questo fenomeno è controproducente perché non comunicare la sostenibilità comporterà l’esclusione dal mercato”.
Fabio Iraldo, professore della Scuola Superiore Sant’Anna ha invece portato la riflessione sul legame tra questioni ambientali e consumatori. “Oggi tra i consumatori e consumatrici – ha detto – la sensibilità per l’ambiente è elevatissima: ma quanto è aumentata la quota di prodotti green rispetto al passato? Le nostre indagini ci dicono che tanto più un consumatore o una consumatrice è consapevole dal punto di vista ambientale, tanto più è scettico nei comportamenti d’acquisto, cioè compra meno e non di più. Perché non ha fiducia in quello che le aziende raccontano, perché c’è un forte pregiudizio di greenwashing“.
Il professor Iraldo ha poi ricordato che un’azienda che esporta o vende sul mercato europeo può scegliere tra 492 certificazioni, dato raccolto circa un anno fa.
“Il problema – conclude – è che il consumatore è sensibile ma è anche molto esposto a dalle aziende che hanno un novero di possibilità di comunicare in modo scorretto veramente ampio che quasi sempre è inconsapevole, è in buona fede”. In quest’ottica le direttive europee sul greenwashing possono essere un faro per cambiare rotta.
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