Essere o non essere sostenibili, questo è il dilemma che oggi tribola consumatori e produttori di beni di consumo. Volente o nolente, nessuno può più ignorare la crisi climatica ed esimersi dal considerare il peso sull’ambiente e l’impatto sul clima delle proprie azioni. In special modo quando si tratta delle scelte di acquisto.
Lo sanno bene gli uffici marketing aziendali intenti a ideare green claim (dichiarazioni ambientali) di ogni sorta, eludendo possibilmente multe dell’antitrust e accuse di greenwashing. Proprio per ovviare a questi problemi, il garante danese dei consumatori ha pubblicato di recente una raccolta di decisioni giudiziarie come parte di una nuova “guida rapida” per le aziende su come utilizzare correttamente il marketing ambientale (qui disponibile in danese). Le numerose sentenze dei tribunali indicano, infatti, una crescente attenzione contro le affermazioni “verdi” scorrette o infondate, non supportate da una solida documentazione.
Leggi anche: L’insostenibile leggerezza del greenwashing
If you talk the talk, you need to walk the walk
Come è richiesto a tutte le affermazioni di marketing, anche quelle che si occupano di ambiente devono essere corrette, formulate in modo chiaro e non omettere alcuna informazione importante.
La guida danese afferma chiaramente quanto sia difficile definire un prodotto genericamente “sostenibile” e quanto sia invece facile confezionare messaggi fuorvianti. Secondo il garante dei consumatori, solo una vera analisi del ciclo di vita dalla culla alla tomba (LCA- Life Cycle Assassment), supportata da una verifica indipendente, può infatti dimostrare che un prodotto sia effettivamente top-of-class dal punto di vista ambientale, con un impatto significativamente inferiore rispetto agli altri prodotti sul mercato.
Un esercizio metodologico tutt’altro che semplice, e tanto meno a basso costo. Abbiamo chiesto a Fabio Iraldo, professore della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, di aiutarci a capire la portata della decisione danese.
L’importanza dell’LCA
“L’Ombudsman danese è un istituto che ha funzioni di regolazione del mercato, del tutto analogo al nostro garante della pubblicità – spiega Iraldo, autore del testo ‘Oltre il Greenwashing. Linee guida sulla comunicazione ambientale per aziende sostenibili credibili e competitive’ – per tale ragione, la sua decisione senz’altro eserciterà molta pressione sulle aziende che operano in quel mercato nazionale, ma influenzerà anche le autorità garanti negli altri paesi dell’Ue”.
“Si tratta – continua Iraldo – di un deciso e inequivocabile rafforzamento di un principio già adottato come ‘suggerimento’ generale o anche come ‘prescrizione’ da molte autorità nei confronti di aziende oggetto di ricorso per greenwashing. Lo stesso garante italiano ha più volte indicato l’LCA come unico robusto e credibile supporto, in grado di fornire dati e informazioni incontestabili per i claim ambientali sui prodotti”.
Contemporaneamente, anche la Commissione europea sta preparando l’iniziativa Substantiating Green Claims che probabilmente imporrà alle aziende uno studio di environmental footprint, come già definito dalla Raccomandazione europea sul tema, per le dichiarazioni su decarbonizzazione o efficienza idrica.
Il metodo “dalla culla alla tomba” per quantificare l’impronta ambientale
Il metodo LCA, messo a punto negli anni ’90, oggi supporto fondamentale allo sviluppo di vari schemi di etichettatura ambientale, deve la sua fortuna ad un approccio innovativo capace di valutare tutte le fasi di un processo produttivo “dalla culla alla tomba”, ovvero dal rifornimento delle materie prime allo smaltimento di fine vita.
Secondo Iraldo, l’LCA “offre garanzie di rigore metodologico, di uniformità nell’applicazione di regole di calcolo dell’impronta ambientale e, in ragione dei princìpi e degli standard condivisi su cui è fondata, può dar luogo a forme di validazione dei risultati e certificazione di parte terza indipendente”.
Un’analisi LCA, inoltre, fornisce “dati e informazioni quantitative, sotto forma di indicatori di impatto ambientale, che costituiscono l’ossatura di una comunicazione credibile nei confronti del mercato e degli stakeholder”. La fiducia del consumatore, dunque, deve poter poggiare su informazioni scientificamente fondate e affidabili, nonché sull’avallo di un soggetto terzo indipendente e autorevole.
Leggi anche: Se l’analisi Lca serve a non abbandonare la plastica monouso
Non solo le parole sono fuorvianti
Le aziende sono avvisate, è un lavoro non da poco quello che le attende, sia dal punto di vista tecnico che del marketing. Basti pensare che, in uno screening dei siti web per il greenwashing commissionato nel 2021 dalla Commissione europea, si rileva la mancanza di prove per la metà delle affermazioni ecologiche. Presentarsi come green, eco-friendly, e via dicendo, tenta di semplificare un tema complesso come quello delle prestazioni ambientali, spesso con pessimi risultati.
Come se non bastasse, sotto la lente del garante danese non sono finite solo le parole. Anche le immagini degli spot pubblicitari, nelle quali, solo per fare un esempio, le automobili possono sfrecciare lasciando al loro passaggio scie di giardini fioriti anziché inquinanti gas di scarico, danno prova di come sia facile creare l’illusione che un prodotto di consumo, addirittura alimentato a benzina, possa essere “buono” per l’ambiente.
Leggi anche: Ecodesign the future, comunicare la sostenibilità evitando il greenwashing si può
Aiutare le PMI a misurare la propria impronta
Il mondo produttivo ha tante responsabilità sul consumo delle risorse del pianeta, ma è anche quello senza il quale non arriveremo ai necessari risultati di riduzione delle emissioni. Per le imprese più piccole, spesso non dotate di risorse e di competenze adeguate, la necessità di applicare l’LCA, può essere un disincentivo all’impegno ambientale. Su questo punto, fa notare Iraldo, bisogna riconoscere che, “soprattutto in Italia, sono fiorite negli ultimi anni moltissime iniziative mirate a sostenete le PMI nell’applicazione del metodo LCA e dell’environmental footprint, che offrono supporto tecnico gratuito, database, tool per il calcolo semplificato e linee guida per la valutazione e comunicazione dell’impronta ambientale, che coinvolgono filiere, settori omogenei e distretti industriali, spesso realizzate grazie a finanziamenti regionali, ministeriali o europei”. La stessa Scuola Sant’Anna è attiva in vari progetti Life che accompagnano le imprese nell’elaborazione di studi di impronta ambientale finalizzati alla certificazione Made Green in Italy.
I requisiti per dimostrare l’impegno ecologico di un’azienda sono piuttosto difficili da soddisfare, ma non sono impossibili. Il garante danese prescrive informazioni oneste sul percorso di miglioramento che un’impresa ha intrapreso, piuttosto che nozioni generali di eco-compatibilità.
Ai consumatori, come sempre, l’ultima parola.
© Riproduzione riservata