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Il voto del Parlamento europeo ha messo il punto sul cosiddetto pacchetto Omnibus I, il provvedimento proposto a febbraio 2025 dalla Commissione Ue che ha fortemente ridimensionato la portata delle direttive CSRD sul reporting di sostenibilità e CSDDD sulla due diligence delle imprese. Dopo il voto di martedì 16 dicembre la rendicontazione sulla sostenibilità ambientale e sociale sarà obbligatoria per le aziende con oltre 1.000 dipendenti e un fatturato netto annuo superiore a 450 milioni di euro, mentre solo le aziende con più di 5.000 dipendenti e un fatturato netto annuo superiore a 1,5 miliardi di euro devono effettuare la due diligence sul rispetto dei diritti umani e ambientali.
Molte meno imprese obbligate rispetto alle precedenti versioni delle due direttive, dunque, ma anche tempi più lunghi per adeguarsi: una semplificazione che secondo molti osservatori somiglia molto più a una deregolamentazione. L’accordo provvisorio tra eurodeputati e governi dell’UE – approvato con 428 voti favorevoli, 218 contrari e 17 astensioni – attende ora un via libera formale e definitivo dal Consiglio europeo per poi avviarsi alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e all’entrata in vigore dopo 20 giorni.
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Come cambia il reporting sulla sostenibilità
Come detto, l’obbligo di redigere un report di sostenibilità sarà limitati alle imprese UE con una media di oltre 1.000 dipendenti e un fatturato netto annuo superiore a 450 milioni di euro. Saranno obbligate anche le imprese extra-UE con un fatturato netto nell’Unione superiore a 450 milioni di euro e le loro controllate e filiali che generano un fatturato superiore a 200 milioni di euro nell’UE. Ciò vuol dire ridurre del 90% la platea delle imprese obbligate rispetto alla portata iniziale della direttiva CSRD.
Gli obblighi di rendicontazione saranno notevolmente semplificati e la rendicontazione settoriale diventerà facoltativa, con meccanismi che proteggono le imprese più piccole della filiera, ad esempio i fornitori, da pratiche dei soggetti obbligati volte a scaricare su di loro la raccolta dei dati necessari all’attività di reporting. Le aziende con meno di 1.000 dipendenti non saranno tenute a fornire ai loro partner commerciali informazioni che vadano oltre quelle previste dagli standard di rendicontazione volontaria. Per agevolare la conformità, la Commissione istituirà un portale digitale con accesso a modelli e linee guida sugli obblighi di rendicontazione a livello nazionale e dell’UE.
Obblighi di due diligence: come cambia la CSDDD
Un numero inferiore di aziende sarà tenuto a svolgere la due diligence per ridurre il proprio impatto negativo sulle persone e sul pianeta. In base alle norme riviste, questa sarà richiesta solo alle grandi imprese dell’UE con più di 5.000 dipendenti e un fatturato netto annuo superiore a 1,5 miliardi di euro e alle imprese extra-UE con un fatturato superiore alla stessa soglia nell’UE. Dovranno effettuare esercizi di scoping per identificare i rischi prioritari nella loro catena di attività e dovranno richiedere informazioni ai partner commerciali con meno di 5.000 dipendenti solo quando le informazioni per una valutazione approfondita non possono essere ottenute in altro modo.
Altro passaggio significativo è la cancellazione dell’obbligo di redigere piani di transizione climatica, finalizzati a quantificare il contributo di ciascuna azienda al raggiungimento dell’obiettivo di neutralità climatica al 2050. Saranno poi le norme dei singoli Paesi a sanzionare l’eventuale mancato rispetto delle norme di due diligence, con sanzioni fino al 3% del fatturato netto mondiale dell’azienda. La direttiva sulla due diligence si applicherà solo a partire dal 26 luglio 2029 per tutte le imprese rientranti nel suo ambito di applicazione.

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Semplificazione o tutele smantellate?
Per Jörgen Warborn, relatore della Commissione Affari Giuridici dell’Europarlamento, l’approvazione dell’Omnibus I “garantisce riduzioni dei costi storiche, mantenendo al contempo gli obiettivi di sostenibilità dell’Europa sulla buona strada”. Ma il punto di vista dell’esponente del PPE, che ha fatto leva sull’appoggio dell’estrema destra all’Europarlamento per ottenere questo risultato, è molto diverso da quello espresso da Nele Meyer, direttrice dell’European Coalition for Corporate Justice (ECCJ). “Tagliando un obbligo vincolante fondamentale che avrebbe costretto i maggiori emettitori a ridurre le proprie emissioni, i legislatori dell’UE hanno concesso ai potenti interessi dei combustibili fossili esattamente ciò che pretendevano” ha spiegato la dirigente della più grande rete della società civile impegnata per la responsabilità d’impresa in Europa. “Con il pretesto di ridurre la burocrazia sono state smantellate tutele vitali: questa decisione espone maggiormente a danni le persone e le comunità e mette gli Stati membri a rischio di violare il loro obbligo di proteggere i diritti umani e prevenire danni ambientali e climatici”.
A Meyer fa eco Eve Geddie, direttrice dell’ufficio europeo di Amnesty International: “Nella fretta di concludere l’accordo a Strasburgo, pochi giorni prima della pausa invernale, gli eurodeputati hanno votato un ampio pacchetto di deregolamentazione che mina le salvaguardie vitali in materia di clima e diritti umani, tradendo le persone e il pianeta in un momento in cui le protezioni sono più necessarie”.
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La vittoria delle lobby degli inquinatori sui cittadini Ue
Per Geddie, limitando la legge sulla due diligence alle sole grandi aziende, l’UE “sta di fatto escludendo la maggior parte delle aziende da una responsabilità significativa, lasciando lavoratori, comunità ed ecosistemi senza protezione e inviando il segnale preoccupante per cui gli interessi aziendali sono anteposti ai diritti umani”.
L’esponente di Amnesty punta il dito contro le “intense attività di lobbying da parte di potenti attori del settore e di pressioni esterne, tra cui quelle degli Stati Uniti”. E denuncia che le istituzioni europee e la maggioranza degli e delle europarlamentari hanno così ignorato “le diffuse critiche della società civile, degli economisti, delle Nazioni Unite e persino del Mediatore europeo” e il volere della maggioranza degli europei. Secondo un recente sondaggio commissionato da Amnesty International e Global Witness e condotto da Ipsos su 10.861 persone in 10 paesi Ue, infatti, circa tre quarti degli intervistati ritengono che le grandi aziende dovrebbero essere ritenute responsabili dei diritti umani (75%) e dei danni ambientali (77%) lungo le loro catene del valore globali.
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