“Cosa sono in fondo i territori?”. La domanda che pone Samadhi Lipari, dottorando della Scuola di geografia dell’università di Leeds, è solo apparentemente filosofica. A breve Lipari, nato in Sicilia e attivista della Valle del Mela (nel messinese), consegnerà la propria ricerca che si concentra sull’analisi delle contraddizioni del produrre energia ‘pulita’ dentro il paradigma dell’accumulazione perpetua, con due casi di studio: l’eolico nell’Appennino Meridionale e il biogas in Germania. Partendo dal suo lavoro, gli abbiamo chiesto di commentare il capitolo sulla “rivoluzione verde e la transizione energetica” del Piano nazionale di ripresa e resilienza: se lo scienziato del Cnr Nicola Armaroli si è focalizzato soprattutto sul capitolo relativo all’idrogeno, al quale il Pnrr destina 3,2 miliardi di euro, il ricercatore Samadhi Lipari ha analizzato la parte ancora più cospicua, ben 6,91 miliardi di euro, che punta all’incremento delle energie rinnovabili, così suddivisi: sviluppo agrovoltaico (2,1 miliardi), promozione rinnovabili per le comunità energetiche e l’autoconsumo (2,2 miliardi), promozione impianti innovativi, incluso offshore (680 milioni), sviluppo biometano (1,92 miliardi).
Si attende entro queste mese da parte del ministero della Transizione Ecologica il Decreto Semplificazioni che, nelle intenzioni del titolare del dicastero Roberto Cingolani, dovrebbe “sbloccare la burocrazia” e “dare tempi certi alle imprese che vogliono occuparsi di rinnovabili”. Si preannuncia, insomma, un periodo complesso per un Paese come il nostro che ha ancora una scarsa produzione energetica da sole, vento e mare. Ora o mai più, verrebbe da dire, è il momento di colmare il gap. Ma come? Se da una parte le aziende fossili tentano di intercettare le nuove sensibilità di sostenibilità e neutralità climatica (spesso però facendo greenwashing), dall’altra in pochi si chiedono cosa avverrà in Italia con un nuovo boom di rinnovabili.
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E allora partiamo dalla sua domanda iniziale: cosa sono i territori?
Mettiamo da parte la concezione ottocentesca per cui la natura è statica ed estatica. La natura siamo anche noi esseri umani che viviamo in questo pianeta, e la trasformiamo insieme a tutti gli altri esseri viventi. Questo per dire che nella civiltà del futuro ci saranno certamente le pale eoliche e i pannelli fotovoltaici. Ma una cosa bisogna dirla: sono impianti industriali, non possiamo chiamarli parchi eolici o campi fotovoltaici. Si tratta di centrali di produzione elettrica, che comportano meno emissioni rispetto alle fonti fossili, certamente. Tuttavia, il loro reale impatto va calcolato sulla filiera complessiva – dall’estrazione dei materiali, come il silicio dei pannelli o i metalli per le turbine, fino al loro smaltimento. Dobbiamo anche considerare che alla sostenibilità ambientale va accompagna la sostenibilità sociale, il che significa che la produzione da fonti rinnovabili può anche essere insostenibile, se queste non sono programmate e realizzate adeguatamente.
Qual è la sua valutazione del Pnrr sull’incremento delle energie rinnovabili, con la consapevolezza che al momento mancano nel dettaglio i progetti?
Il piano è piuttosto deludente. In primo luogo, perché darne una valutazione precisa è abbastanza difficile. I dati presentati nel documento inviato a Bruxelles, e scaricabile dal portale governo.it, sono farraginosi e incompleti. Ad esempio, non si riesce a capire se il PNRR centri o meno l’obbligo in capo agli Stati membri di destinare almeno il 37% dei fondi a progetti “verdi”. Stando alle informazioni disponibili, solo il 29% dei miliardi che spettano all’Italia andrà alla transizione ecologica. Il Pnrr italiano sarebbe quindi ben lontano dalla soglia richiesta. Destineranno altri fondi “verdi” a politiche correlate, come ad esempio nel settore trasporti? Nonostante gli slogan roboanti, è ad oggi impossibile dirlo.
Ancora, poco si dice su come si voglia aumentare la produzione di energia rinnovabile, se non con la semplificazione delle procedure autorizzative e specificamente della valutazione di impatto ambientale (VIA). Il tutto suscita fortissimi dubbi.
Negli allegati del Pnrr vengono citati la tassonomia della finanza verde nonché il principio del danno non significativo, che abbiamo già analizzato, ma anche in questo caso non è ben chiaro in che modo verranno applicati nelle nuove opere previste.
Il rischio di contravvenire – di nuovo- alla normativa UE è elevato, in questo caso infrangendo il principio DNSH, anch’esso sancito dai regolamenti UE applicabili sia al Pnrr che alla materia ambientale. Basti pensare che nel Pnrr non viene minimamente citata la rete Natura 2000 (il principale strumento comunitario per la conservazione della biodiversità che individua una serie di riserve rigidamente protette dove le attività umane sono escluse … ndr). Si pensi che l’Italia è già oggetto di una procedura d’infrazione per errori nel recepimento delle direttive che regolano la valutazione d’incidenza (VIncA), ovvero il rilascio di autorizzazioni per progetti ricadenti in siti della rete Natura 2000.
Il nostro Paese è caratterizzato da una grandissima varietà ecosistemica, insieme a elevata antropizzazione. Inoltre, il suo paesaggio è sottoposto a vincoli diffusi. Risulta legittimo quindi chiedersi: dove verranno installati i nuovi 70 gw di impianti rinnovabili? Con quali procedure e tutele? Come potranno partecipare le comunità interessate? Al momento il segnale che arriva dal governo è che bisogna velocizzare e semplificare. Ma come? Sapremo presto nel dl semplificazioni, in preparazione, se si intende farlo attraverso una ulteriore riduzione delle tutele per un territorio, come quello italiano, estremamente fragile, sia dal punto di vista ecosistemico che sociale.
Se così fosse, non si aggiungerebbe alcuna novità alla narrazione ufficiale, declamata senza grandi differenze dai governi recenti, per cui parte rilevante della responsabilità per la stasi italiana la porterebbero i comitati locali che “bloccano tutto”, quindi anche la transizione energetica. Eppure gli studi in materia, compresi i miei, parlano di un quadro diverso dove incapacità e insufficienza amministrativa, cattiva modulazione degli incentivi, speculazione, corruzione e infiltrazioni mafiose sono mali di antica memoria che le rinnovabili condividono col sistema produttivo nazionale. Semmai i comitati sono stati spesso presidi di controllo democratico, grazie ai quali sono stati scoperti e a volte fermati veri e propri scempi.
In definitiva, il Pnrr sembra scritto di fretta, con evidenti carenze di programmazione e attorno al perno della centralizzazione. Insomma, nel segno opposto a una programmazione ragionata, partecipata e democratica.
L’altro assioma su cui si regge il Piano è l’idea che la transizione ecologica attraverso il libero mercato sia l’opzione migliore. Considerata la crisi climatica e ambientale che stiamo vivendo, provocata dall’incapacità di mettere un freno proprio al libero mercato e tutelare l’interesse collettivo, non ne sarei così sicuro. Positive e necessarie, invece, le attenzioni alle comunità energetiche e la ristrutturazione delle infrastrutture di trasporto dell’energia.
Ma cosa vuol dire non coinvolgere i territori nella programmazione della transizione energetica?
In primo luogo, si rischia di escludere dalla transizione ecologica e dalla risoluzione dell’emergenza climatica chi abita e conosce i territori rurali, così importanti proprio nella mitigazione di tale emergenza. Dalla marginalità che ha storicamente caratterizzato, ad esempio, i territori del nostro meridione, centrali nella produzione eolica e fotovoltaica, questi si trovano proiettati al centro della politica energetica, senza poter però partecipare a determinarla. Insomma, si rischia di passare, come è già successo nel primo boom rinnovabile degli anni 2000, sulla testa delle comunità territoriali, aumentando i conflitti e le resistenze attorno alla transizione. Si rischia di far apparire quest’ultima come un dispositivo invasivo e speculativo, imposto, minandone perciò la base di consenso.
Ciò aggraverebbe ulteriormente le già esistenti diseguaglianze nella redistribuzione del valore che gli impianti rinnovabili estraggono. Facciamo qualche esempio. Da un lato gli incentivi per le rinnovabili vengono finanziati con il prelievo in bolletta elettrica, da cui sono esentati le aziende che emettono di più. Per proteggerne, almeno così si afferma, la competitività internazionale di queste ultime, si è creato un sistema ingiusto per cui chi emette di più contribuisce meno all’espansione delle rinnovabili. Dall’altro vengono allocati ai Comuni che ospitano gli impianti pochi spiccioli. Questi pochi spiccioli arrivano principalmente tramite IMU, la cui quota è stata ulteriormente ridotta dalla riforma “imbullonati” introdotta nel 2015 da Renzi. Secondo questa, valgono al calcolo della rendita catastale solamente le opere integrate al suolo, come i plinti in cemento delle turbine, ma vengono escluse le macchine che poggiano su di essi, gli “imbullonati” appunto. Come se di una centrale termoelettrica fosse calcolato solo il pavimento. Il tutto si traduce in una riduzione IMU per i gestori dell’impianto e quindi del gettito per i Comuni interessati di circa il 20%.
Ancora, se facciamo un confronto con le estrazioni di petrolio e gas, vediamo che in quel caso le multinazionali energetiche almeno sono costrette a pagare le royalties. Per le rinnovabili, questa forma di pagamenti sono stati espressamente vietati nel 2010, spingendo i bilanci di molti comuni meridionali in aree marginali sull’orlo del baratro.
Insomma, chi deve pagare la transizione? Come vengono distribuiti oneri e benefici? Su questo il Pnrr dice poco e lascia, purtroppo, intuire che continueranno a pagarla quelli che emettono meno carbonio e i territori marginali.
Da un’occasione di giustizia ambientale e sociale, la transizione può disgraziatamente diventare un altro simbolo di ingiustizia e disparità, a uso e consumo di speculatori e capitali armati. Con lo spirito e la sagacia imprenditoriale che le contraddistingue, le mafie in questo settore si sono già lanciate a capofitto da tempo, capendo che possono fare molti soldi e si possono accaparrare molti soldi pubblici (come già sperimentato dall’Appennino meridionale, fulcro della produzione eolica italiana, dopo il terremoto dell’Irpinia).
Il primo boom delle rinnovabili, insomma, qualcosa dovrebbe averlo insegnato. In questo senso gli esempi sono tanti. Si pensi per esempio al “re dell’eolico” Vito Nicastri, l’imprenditore di Alcamo che fu accusato nel 2019 di aver finanziato la latitanza del boss Matteo Messina Denaro – a gennaio la Corte d’Appello di Palermo lo ha assolto per il concorso esterno in associazione mafiosa ma ha confermato la condanna per intestazione fittizia di beni. Oppure si può citare il “caso Ciliegino”: tra Gela e Licata avrebbe dovuto sorgere il più grande parco agrovoltaico d’Europa, chiamato Ciliegino perché prevedeva la coltivazione in serra del pomodoro locale e raccontato come l’alternativa green alla raffineria di Eni; invece a distanza di 8 anni dall’inaugurazione in pompa magna (con tanto di ostriche) di quel fantasmagorico progetto sono rimasti solo gli espropri ai piccoli proprietari terrieri. Episodi isolati o che rischiano di ripetersi?
Quel primo boom è avvenuto in Italia ma anche in Germania, dove ho potuto documentare come le municipalità siano state inondate da richieste di autorizzazione per progetti sulle rinnovabili. Richieste che non si sapevano gestire, perché non c’erano le competenze. E lo stesso sta avvenendo ora, come insegna proprio il caso della Sicilia, dove al momento la Regione non ha saputo individuare aree idonee a ospitare impianti rinnovabili. Un campo di primaria importanza su cui puntare dovrebbe essere dunque la formazione delle amministrazioni locali. Nel Piano in questo senso è previsto sì un rafforzamento delle strutture periferiche, ma anche qui non si indica come questo verrà attuato.
Un altro ambito di diseguaglianza è l’accaparramento delle terre necessarie alla costruzione degli impianti. Col governo Berlusconi nel 2003 fu riconosciuta alle rinnovabili lo status di opera pubblica utilità, che ha comportato appunto da allora un alto numero di espropri. I prezzi, dunque, sono stati ulteriormente compressi, perché lo spauracchio dell’esproprio ha spinto le persone a vendere i propri terreni per pochi spiccioli. Senza considerare poi che nel fotovoltaico e nell’eolico sono arrivati anche grandi capitali, che si sono appoggiati a mediatori locali per entrare in contatto coi proprietari, e che non erano esattamente figure cristalline. Il sistema di tutele e controlli, compresa la normativa antimafia si è rivelata perciò insufficiente. Di fronte a tutto ciò, parlare di “semplificazione” appare quantomeno sinistro, se non si specifica esattamente cosa si intende.
La confusione è grande sotto il cielo, verrebbe da dire. Così come si prefigura già un possibile scontro di competenze tra il ministero della Transizione ecologica e il ministero dell’Agricoltura, il cui titolare Stefano Patuanelli a un recente convegno di Legambiente ha affermato di voler “abbandonare il percorso del fotovoltaico a terra che incide troppo sulla produzione agricola”. Mentre il suo collega al MiTe, come già ribadito, spinge molto su nuove autorizzazioni anche nel campo dell’agrovoltaico. O c’è di più?
Nel Pnrr pare di capire che l’agrovoltaico (al quale nel Piano sono destinati 2,1 miliardi di euro, ndr) non implicherà ulteriore consumo di suolo, staremo a vedere. Tuttavia, sembra profilarsi all’orizzonte un fenomeno che ho potuto osservare con le mie ricerche sulla produzione di biogas in Germania, con gli agricoltori che da coltivatori di cibo verranno invitati a trasformarsi in coltivatori di energia e la produzione rinnovabile che diventerà un capitolo importante nei bilanci delle aziende agricole.
Di per sé non è un fenomeno dannoso, a patto che gli agricoltori non vengano ingabbiati in schemi finanziari troppo dipendenti dalla volatilità dei mercati. In questo caso, come già successo con il fotovoltaico in Grecia, in caso di shock esterni o taglio agli incentivi, gli agricoltori potrebbero trovarsi fortemente indebitati e costretti alla bancarotta. Ciò potrebbe avere delle ripercussioni importanti sulla filiera alimentare. Inoltre, come ulteriore elemento di complessità, va aggiunto che bisognerà valutare anche gli utilizzi della Politica Agricola Comune, che da sola impegna il 39% del bilancio dell’Unione Europea. La PAC è storicamente contestata per la sua tendenza a favorire la concentrazione fondiaria allocando più sussidi alle grandi aziende. Una combinazione di sussidi agricoli e sussidi per l’agrovoltaico, potrebbe favorire schemi speculativi e far lievitare i prezzi fondiari, favorendo ulteriormente la concentrazione a discapito dei piccoli agricoltori.
Il Decreto Semplificazioni potrebbe essere un nuovo Sblocca Cantieri?
Finora si è parlato molto di centralizzazione, come se fosse una novità. Tuttavia, la cronaca recente indica il contrario. Provvedimenti come lo Sblocca Cantieri, del governo Conte I, tornavano a puntare su semplificazione e centralizzazione delle competenze, senza un sistema di contrappesi tale da garantire la compenetrazione tra partecipazione democratica, coordinamento centrale e controlli. E prima di loro avevano emanato leggi simili il governo Renzi, il governo Berlusconi … Il punto sulle transizione è capire come e chi deve decidere. Ciò presuppone una seria programmazione, e un coordinamento con gli enti e le comunità locali, attraverso una meccanismi che garantiscano partecipazione e redistribuzione di benefici e oneri. Anche a tal proposito, le mancanze del Pnrr dicono di più di quello che c’è. E aprono buchi che possono essere voragini.
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