L’idea del prodotto pensato come servizio, proprietà del produttore ma in uso al consumatore a fronte di un canone, non è di per sé rivoluzionaria. È una pratica economica per molti versi già esplorata, con l’uso di auto a noleggio, camere d’hotel o macchine per il caffè in comodato d’uso. Eppure, la sua coerenza con i principi dell’economia circolare rende il modello Product-as-a-Service (indicato con l’acronimo PaaS) una promettente innovazione che, tuttavia, non ha oggi sul mercato il successo che merita.
La sua capacità di rispondere ad alcune cruciali esigenze di cambiamento del sistema di business – allungare il più possibile la vita utile di materiali e prodotti, attribuire la responsabilità del fine vita al produttore, incentivare l’efficienza energetica e uno stile di vita meno bulimico per i consumatori – resta ad oggi poco esplorata. Come mai?
Il report realizzato da Stena Circular Consulting e Cradlenet cerca di dare una risposta a questo interrogativo. Come recita il titolo, Product-as-A-Service in the Circular Economy. The nine critical challenges and how to fix them, gli autori individuano nove punti critici per spiegare perché la servitizzazione non abbia ancora colonizzato i nostri prodotti, e avanzano dei suggerimenti per aggirare gli ostacoli.
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“The time for PaaS is now”
Ma perché le aziende dovrebbero cimentarsi nella rimodulazione del loro business e noi consumatori rinunciare alla prerogativa di possedere quello che ci serve? Di una cosa possiamo essere certi. Perseverare sulla strada del modello di produzione e consumo lineare – continuare business as usual, come si dice – non è più un’opzione, a meno che non ci si voglia rassegnare alla decadenza del nostro sistema di vita sul pianeta.
Secondo molte analisi, tra cui i report pionieristici della Ellen MacArthur Foundation, il sistema PaaS può considerarsi una delle pietre miliari di un’economia a basse emissioni di carbonio e di efficienza nell’uso delle risorse, con la complicità delle nuove tecnologie, AI (Artificial Intelligence) e IoT (Internet of Things), in testa. Per gli autori del Report, dunque, i tempi sono maturi per questo modello di business: “The time for PaaS is now”.
Modello tradizionale vs PaaS
Ma che vuole dire esattamente PaaS? Supponiamo che ci serva una fotocopiatrice in ufficio. Nel modello tradizionale, il lavoro del produttore finisce al momento del nostro acquisto. La fotocopiatrice diventa di nostra proprietà e toccherà a noi farne un uso corretto, sostituire l’inchiostro, fare manutenzione, non sprecare la carta e, infine, smaltirla quando non funzionerà più. Nel modello PaaS, al contrario, il fornitore mantiene la proprietà o il controllo del prodotto anche durante la fase di utilizzo, capovolgendo il rapporto produttore-consumatore. Nel nostro caso, l’azienda produttrice sarà fortemente incentivata a realizzare una fotocopiatrice che resti in uso il più a lungo possibile e, probabilmente, offrirà servizi aggiuntivi, come la manutenzione, la gestione dei documenti, l’installazione e la configurazione, per fidelizzarci e assicurarsi un equo canone d’uso.
Il PaaS che c’è già
È quello che fa Xerox, storico produttore e venditore di fotocopiatrici, oggi specializzato in servizi a valore aggiunto per clienti aziendali. Per alcune categorie di prodotto, tra cui fotocopiatrici, stampanti, condizionatori, lavatrici, macchinari laser, e persino impianti di illuminazione, il modello PaaS è, infatti, una realtà, concentrata per ora soprattutto nel segmento B2B (Business to Business). È possibile imbattersi in proposte di pay-per-copy, pay-per-part, pay-per-wash, light as-a-service, air-conditioning as-a-service e, persino, compressed air as-a-service.
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Dalle fotocopiatrici aziendali ai prodotti quotidiani
La questione è, dunque, diffondere il modello per un maggior numero di prodotti, nonché raggiungere i consumatori finali, il così detto B2C (Business to Consumer). Tra le nove sfide individuate dagli autori svedesi del Report, non a caso, tre riguardano proprio il rapporto con i consumatori. Non solo essi amano possedere i prodotti, sottostimano il costo di possederli e sono spesso scoraggiati a cambiare le proprie abitudini da alcuni inconvenienti legati alla compravendita dei prodotti-servizio.
Pro e contro del modello PaaS: i “transaction cost”
Prendiamo l’esempio della mobilità in sharing. Il vantaggio che genera dal punto di vista ambientale è piuttosto intuitivo. Se tutti condividessimo i mezzi in sharing invece di possederli, ne servirebbero di meno, si inquinerebbe di meno, si generebbero meno emissioni e si ridurrebbe persino lo spazio urbano usato come parcheggio per i mezzi privati, solo per citare alcuni dei suoi “pro”. Anche dal punto di vista dell’utente, a guardar bene, la condivisione di auto, moto, bici e monopattini, significa meno costi: non bisogna pagare l’assicurazione, il bollo, la benzina, il parcheggio nelle strisce blu, la manutenzione e così via. Eppure, per via di piccoli inconvenienti, definiti nel report “transaction cost”, l’ago della nostra bilancia pende ancora sul piatto del “possedere”.
I consumatori scelgono ancora di “possedere”
Se decido di usare l’auto in sharing, ad esempio, devo prima cercarla e magari percorrere qualche isolato, regolare gli specchietti retrovisori ad ogni viaggio, saper usare un modello automatico o viceversa manuale, forse anche trovare i rifiuti o le cicche di sigaretta dell’utente poco civile che l’ha usata prima di me. Inoltre, dovrò rinunciare al mio desiderio di distinguermi, guidando un’auto di un brand o un colore che non mi rappresenta, rinunciando a personalizzarla, etc. Se questo vale per l’automobile, può essere applicato al telefonino, al computer, all’abbigliamento e così via.
Capire davvero i bisogni dei consumatori
Per saltare questi ostacoli, i consulenti svedesi, che si rivolgono soprattutto al mondo del business, suggeriscono alle aziende di capire meglio le esigenze dei propri clienti, coinvolgerli nel miglioramento del proprio PaaS e anche renderli più consapevoli dei suoi vantaggi, economici e non. Forse sarò più disponibile a rinunciare ad un’auto personalizzata se in cambio lo sharing mi farà risparmiare e, al contempo, sentire parte di una community che ha a cuore l’ambiente.
Inoltre, non è da escludere che, almeno in una sua prima fase, il modello possa essere più adeguato nel campo del B2B o il B2G (Business to Government), ossia per offrire servizi ad aziende e pubbliche amministrazioni, più sensibili alla qualità e affidabilità delle performance, piuttosto che all’unicità del proprio prodotto.
Ostacoli operativi e finanziari
Oltre alle resistenze dei consumatori, la scelta del modello PaaS è soggetto ad altre battute d’arresto. Tra queste, l’aumento dei costi operativi, specie nel breve e medio periodo, la mancanza di competenze specifiche in azienda per la gestione di logistica, stoccaggio, etc. e la difficoltà di stabilire partnership, indispensabili per la sua riuscita. Produrre beni durevoli, modulari e di buona qualità costa di più. Massimizzare l’efficienza dei processi comporta l’uso di infrastrutture digitali. Tutto questo per le piccole e medie imprese significa alti rischi finanziari. A fronte di un notevole investimento iniziale, infatti, le entrate prodotte dai canoni di uso potranno risultare relativamente basse, in un primo momento.
Non solo ostacoli
A dispetto delle notevoli difficoltà evidenziate, gli autori del report sono ottimisti. Le aziende possono mettere in atto strategie capaci di ridurre l’impatto degli elevati costi di produzione e gestione. Basta ben pianificare, ottimizzare i processi, creare un team specializzato e adeguare il modello di business. Per aumentare l’efficienza del sistema, si può contare sull’uso delle nuove tecnologie che, grazie a sistemi di controllo integrati nei prodotti, geolocalizzazione e algoritmi, massimizzeranno la resa della risorsa prodotto-servizio.
Se gli ostacoli sono tanti, esistono almeno tre elementi che creano oggi le condizioni favorevoli all’affermazione del modello PaaS. Il primo è la maturità e disponibilità della tecnologia digitale. Se il dibattito è aperto sulle sorti che giocherà l’AI nel nostro sviluppo, si può di certo sostenere che in alcuni campi – come l’agricoltura di precisione o il recupero di materiali, solo per citarne alcuni – stia provando un buon uso di sé. La servitizzazione si candida ad essere un altro di questi.
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Consumatori e imprese ormai pronti a cambiare
Gli altri due “pro” evidenziati dagli autori svedesi risiedono nella volontà, nel mondo dei consumatori come in quello del business, di ridurre la propria impronta climatica. Nonostante il nostro bisogno di possedere e personalizzare le cose, una serie di fattori culturali ed economici stanno cambiando le nostre preferenze. Secondo Euromonitor Top 10 Global Consumer Trends 2022, il 67% dei consumatori globali nel 2021, ha cercato di avere un impatto positivo sull’ambiente attraverso le proprie scelte quotidiane. Inoltre, lo studio Euromonitor International Voice of the Industry: sustainability, sostiene che l’85,1% delle aziende europee ha dichiarato che l’azione climatica è estremamente importante per il proprio business. Tendenze che lasciano ben sperare.
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Appello alla politica
Se il report insiste nel ribadire che molti dei problemi del modello PaaS sono riconducibili al mondo del business, quindi risolvibili al suo interno, non nasconde che una legislazione più attenta alla riduzione dei rifiuti, volta a disincentivare lo sfruttamento delle risorse, oggi troppo economico, e favorevole a promuovere modelli innovativi anche attraverso il green public procurment, potrebbe fare la differenza per un più rapido successo.
Il segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, in occasione del Rapporto 2023 sul riscaldamento globale e le sue conseguenze, prodotto dagli scienziati dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), se non fosse già abbastanza chiaro, lo hanno ricordato ai leader del mondo: è necessario accelerare l’uscita dai combustibili fossili e la riduzione delle emissioni, ora.
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